sabato 5 maggio 2012

NESSUNA TV VUOLE TRASMETTERE "DIAZ"?



Dal sito di Kataweb:



Perché nessuno vuole trasmettere Diaz in televisione? Un appello del Tg3 prova a smovere le acque dell’indifferenza che rischiano di soffocare la diffusione del film di Daniele Vicari, premiato alla Berlinale e acquistato anche all’estero. Il senso dell’iniziativa è: comunque la pensiate, Diaz dovrebbe andare in Tv.
La redazione web del Tg3, ha agito tramite la Rete  lanciando il suo appello e un ashtag alle 9 di ieri mattina, 4 maggio. Alle 10:30 l’argomento #diazintv era già al primo posto dei TT italiani, ovvero gli argomenti più discussi dagli utenti di Twitter nel nostro Paese.
“Perché nessuna televisione italiana ha voluto partecipare alla produzione del film? E soprattutto, perché nessun network (pubblico o privato) sembrerebbe interessato all’acquisizione dei diritti per la trasmissione di Diaz sul piccolo schermo?”, si legge nell’appello del Tg3, pubblicato sul sito.
“Anche il Parlamento Europeo ha invitato gli autori il 15 maggio per una proiezione del film, perché le drammatiche vicende di quei giorni a Genova non furono solo una ‘cosa italiana’. – prosegue l’appello -  Comunque la si pensi Diaz racconta una dolorosa pagina della storia recente del nostro Paese e lo fa basandosi sugli atti processuali e sulle testimonianze di persone che hanno avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. E tutto questo, in televisione, speriamo di vederlo. Prima o poi ”
L’iniziativa ha avuto una immediata eco. Ieri sera alle 20 il direttore di Raitre, Antonio Di Bella, ha tweettato “Oggi David a Savona per “Tahir liberation square”.ieri in onda C.Bachsmidt con Black block. rai3 e’interessata anche a Diaz di s.vicari.”
L’interesse dell’iniziativa del Tg3 è riflesso anche nelle oltre 10.000 visualizzazioni per la videochat realizzata nei giorni scorsi con il regista del film Daniele Vicari, che ha dichiartato: “La cosa importante per me è che ciascuno faccia una esperienza vera guardando il film, amandolo o anche rifiutandolo, ma interrogandosi a fondo. Io non ho risposte in merito a quegli avvenimenti, mi dispiace, ho solo domande”.

(5 maggio 2012)

LUSI IN CARCERE E IL PARTITO

























Richiesta di arresto per il senatore Lusi. In un precedente post, su questo blog, avevo raccontato la sua storia da giovane [http://primadellapioggia.blogspot.it/2012/02/luigi-lusi.html].
Vi si parlava, allora, di un suo amico, fratello di un noto giornalista di Repubblica. Con un certo disagio leggo che il suo nome è saltato fuori, perché risulta tra gli indagati di cui il pubblico ministero chiede l'arresto: Francesco Piva. Ne sono molto dispiaciuto, anche perché stamattina ho saputo che Francesco è molto malato. Spero si tenga conto delle sue condizioni. Noi siamo contro il carcere. A maggior ragione se si tratta di una persona in difficoltà. Da notare che la consorteria dei giornalisti, e questo non è un bene, ha evitato di collegarlo a "Repubblica". Se fosse stato il fratello di un noto imprenditore, al contrario, non ci sarebbero stati dubbi.
Per quanto riguarda Lusi, ha dichiarato di essere un "vulcano inesploso", e gli credo. Come si può credere, prosegue "che io per dodici anni abbia deciso, da solo, dove dovevano andare i soldi". Lusi ha firmato tutto ciò che è uscito dalle casse della Margherita dal 2001 al 2011, ma "chi mi ha detto di farlo"? Questo è l'argomento. e prosegue: "Penso che questo paese non ha capito come funzionano i partiti. Funzionano con sistemi che spesso sono leciti e a volte, invece, sono border line. il confine è labile e soggettivo".
Una dichiarazione forte. Importante (aggettivo che detesto per l'uso che se ne fa, ma qui ci va bene, almeno secondo me). Certo che sappiamo come funzionano i partiti. Io almeno dagli anni Ottanta, da quando c'ero dentro e vedevo con i miei occhi i giri di uomini. Non di soldi, ma il marcio era visibile a occhio nudo. Pensavo, allora, che dietro agli uomini ci fosse solo il potere e la sua gestione. Ero ingenuo. Non si dà potere senza denaro. E il denaro, a volte, corrompe. La giunta del Senato per le immunità, di cui Lusi faceva parte, ma dalla quale si è dimesso a febbraio, deciderà presto sulla richiesta di arresto. Il suo ex partito voterà a favore. Il presidente, Marco Follini, anche. Lusi spera nel garantismo del Pdl. E forse nella cattiva coscienza della Lega. Staremo a vedere.
Ma, forse, non è ora che parli un po'? 

venerdì 4 maggio 2012

Quando i Black Bloc andavano a Roma

Così apriva "il Messaggero" di Roma il 23 luglio 2001

Il presidente Berlusconi SUL G8: «E’ stato un incontro positivo dal punto di vista del dialogo e sono state prese importanti decisioni. I violenti scontri hanno però appannato il significato e il valore del summit». Per quanto riguarda la guerriglia il Premier ha indicato le responsabilità del Social Forum che, secondo il Viminale, avrebbe protetto i violenti. Sempre secondo il ministero degli Interni il blitz notturno di Genova si è reso indispensabile per fermare i Black Bloc che si stavano preparando per trasferirsi a Roma e manifestare contro Bush. Dal canto suo il vice capo della policia precisa: abbiamo preso gli anarchici armati.


IL FONDO TRACCIAVA UN BILANCIO DEL VERTICE:




NUOVI VANDALI
INCHIODATI
DA FOTO E TV

di ROBERTO MARTINELLI
L’OCCHIO delle telecamere, quelle fisse e quelle mobili, quelle che servono a fare cronaca e quelle più sofisticate dei satelliti spia, rischiano davvero di vanificare le vecchie regole del processo penale fatto di rapporti di polizia, verbali scritti in stile preistorico e di inutili e prolisse requisitorie ed arringhe difensive? A Genova, non è stata filmata solo la morte in diretta di Carlo Giuliani, ma i cento, i mille assalti dei guerriglieri dell’antiglobalizzazione, i corpo a corpo tra polizia e manifestanti, le botte date e quelle ricevute, gli atti di inutile vandalismo. Tutto, e non solo dai cineoperatori delle Tv pubbliche e private, ma anche e soprattutto dalle barbe finte tecnologiche che i servizi segreti di almeno due degli otto "Grandi" hanno tenuto accese sulla città ligure, prima, durante e dopo il summit.
Gran parte di questo materiale finirà nella maxinchiesta che la Procura genovese è stata costretta ad aprire per fare giustizia e verità. Ma laddove era presente una telecamera o un fotoreporter, e a Genova ce ne erano a centinaia, nessun rapporto di polizia giudiziaria potrà rendere altrettanto bene la realtà delle immagini crude, drammatiche e a volte tragiche che l’occhio telematico ha fissato su nastro. E laddove non c’era il cronista o il fotografo di turno, telecamere fisse di banche, strutture portuali, e quelle dei satelliti spia hanno memorizzato dove e come sono nati i focolai di violenza, quali sono state le vie di fuga dell’ala dura dei contestatori, le strategie di attacco poste in essere per tentare di forzare la cosiddetta zona rossa ed anche eventuali ingenuità od errori commessi dalle forze dell’ordine, ammesso che ve ne siano stati.
Una parte del materiale è stato acquisito, un’altra parte richiesto e promesso, un’altra ancora, la registrazione satellitare, dipenderà dalla volontà politica di chi la vuole e di chi la possiede. Se tutte le immagini memorizzate dovessero davvero finire sul tavolo del magistrato, Genova sarebbe in grado di processare centinaia, forse migliaia di persone. Non sarebbe affatto impossibile passare al computer un fotogramma alla volta ed identificare tutti o quasi tutti i violenti dopo averli "denudati" dei passamontagna e di tutti gli altri indumenti usati per nascondere i loro volti. In sedicesimo, questo strumento è stato già usato in passato per individuare i facinorosi degli stadi, i rapinatori di banche e chiunque abbia commesso reati sotto l’occhio freddo e discreto ma sempre vigile delle telecamere fisse disseminate agli angoli delle nostre strade.
E l’aiuto che magistratura e polizia ne hanno avuto è stato spesso determinante, non solo per dare un nome e un volto ad un colpevole, ma anche per smascherare, come è accaduto di recente, persino la simulazione di un sequestro di persona. Basta tutto questo per dire che il processo penale volta pagina e passa dall’era cartacea a quella informatica? Molti passi in questa direzione sono stati fatti, ma i tempi di attesa sono ancora lunghi. Nel settore civile il processo telematico è assai più vicino alla sua realizzazione pratica. Esiste già una normativa che autorizza l’uso della documentazione informatica e a Roma è stata addirittura tentata con successo la simulazione di una udienza via filo con magistrati e avvocati lontani decine di chilometri gli uni dagli altri. Nel processo penale l’unica eccezione al principio dell’oralità del dibattimento è stata fatta per le teleconferenze, un favore fatto ai pentiti per consentire loro di testimoniare lontano dai loro giudici col pretesto di garantire la sicurezza e far risparmiare allo Stato le spese del trasferimenti.
E’ difficile quindi immaginare cosa accadrebbe se tutto, veramente tutto, il materiale filmato sui due giorni di violenze piovesse come d’incanto sulla Procura di Genova. In primo luogo provocherebbe uno sconquasso notevole per la mole delle immagini da catalogare, decrittare, scomporre e leggere nella maniera giusta. In secondo luogo comporterebbe un lunga serie di adempimenti formali per la identificazione dei soggetti incriminabili e la contestuale notifica di informazioni di garanzia o di altri adempimenti previsti dalla legge. In positivo si arriverebbe alla individuazione di un gran numero di soggetti, probabilmente anche di stranieri e alle loro complicità nel nostro paese ed altrove di un movimento pseudorivoluzionario di cui si conoscono ancora poco le origini e gli ispiratori. In negativo si provocherebbe un ingigantimento del processo che le strutture giudiziarie non sono in grado di sostenere.
Ma a complicare le cose ci si metterebbe il principio del libero convincimento del giudice, al quale la magistratura italiana è, a ragione, fortemente legata per tradizione culturale e storica. Esso consiste nella piena libertà del collegio giudicante di valutare anche la più evidente delle prove, quale può essere la foto di chi ha in mano una pistola e viene ripreso nel momento di sparare a quella che viene indicata come la sua vittima. E tale libertà è sovrana non solo nell’interpretazione del fatto storico, ma nella sua configurazione giuridica. L’arma puntata contro Carlo Giuliani può giustificare in astratto tante ipotesi di reato: dall’improbabile omicidio volontario contestato nell’immediatezza del fatto dalla Procura di Genova, al più realistico ma impolitico eccesso colposo di legittima difesa. Tra le due soluzioni giuridiche c’è l’abisso e il magistrato italiano vuole esserne giudice ed arbitro. Ben vangano i centomila fotogrammi delle violenze contro il G8 ma si sappia che la macchina giudiziaria italiana cammina ancora a vapore e molti nostri giudici non sono ancora entrati nel mondo dell’informatica.

IL MOSTRO DI FIRENZE


VERBALE DELLA POLIZIA DOPO L'ASSALTO ALLA DIAZ


Un quadro del film "Diaz".

















La Stampa del 27 luglio 2001 pubblicava il 

seguente articolo. La voce delle forze repressive. 


«Siamo entrati, lanciavano zaini ovunque»



IL RACCONTO DELLA NOTTE DEL 22 LUGLIO: «SIAMO INTERVENUTI PERCHE' LORO AVEVANO AGGREDITO UN NOSTRO CONTINGENTE» 
«Siamo entrati, lanciavano zaini ovunque». «Lì studiavano gli attentati che hanno devastato la città». Di seguito pubblichiamo ampi stralci del verbale che la polizia ha inviato alla Procura della Repubblica di Genova dopo i fermi nella scuola Diaz.
Il 22 luglio, alle ore 3, nell'ufficio «trattazione atti presso il VI Reparto Mobile della Polizia di Genova, noi sottoscritti Ufficiali e Agenti di Polizia Giudiziaria, al Servizio Centrale Operativo di Roma, alle Squadre Mobili di Roma, Napoli, Genova, La Spezia e Nuoro [...], diamo atto che all'1,30 circa, in via Cesare Battisti nell'istituto scolastico Diaz al termine di una perquisizione domiciliare, abbiamo proceduto all'arresto» delle 93 persone in elenco perché «responsabili di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione ed al saccheggio nonché, in concorso tra loro, di detenzione abusiva di arma da guerra (bombe molotov). Si è resa necessaria l'adozione della misura pre-cautelare (il fermo n. d. r.) per i fatti di seguito elencati». «Alle 22,30 circa un contingente della Polizia» mentre transitava «in via Cesare Battisti, davanti alla scuola Diaz, veniva fatto oggetto di un violento lancio di oggetti contundenti da parte di numerose persone, verosimilmente appartenenti alle cosiddette "Tute Nere"», attuando «un tentativo di aggressione» agli agenti «Alla luce dei gravissimi disordini che il 20 e 21 luglio» c'erano stati in centro città, «e determinati dalla condotta eversiva delle cosiddette "Tute Nere", responsabili di gravissimi episodi di devastazione e saccheggio e di atti di violenza verso le Forze dell'Ordine», gli agenti «erano costretti ad allontanarsi immediatamente dal luogo, anche per far convergere sul posto contingenti di rinforzo. Esemplificative sono le drammatiche immagini che le tv» di tutto il mondo «hanno mandato in onda e che hanno consentito di percepire nei termini adeguati le difficoltà incontrate dalle Forze dell'Ordine nel contenere la violenza dei citati manifestanti sia contro le persone che verso i beni materiali. Nel dettaglio, le riprese tv hanno evidenziato i ripetuti e violenti lanci di molotov che hanno causato incendi in diversi punti della città coinvolgendo autoveicoli, esercizi commerciali ed arredi urbani». Ciò premesso «e in considerazione della concreta possibilità che la scuola Diaz fosse rifugio delle frange estreme delle "Tute Nere"» veniva organizzato «un adeguato programma d'intervento finalizzato 1) alla ricerca di armi o materiale» esplosivo «che in quel luogo poteva essere occultato, 2) all'identificazione dei responsabili dell'aggressione che poco prima aveva coinvolto gli agenti di Polizia, 3) all'identificazione dei responsabili dei gravissimi disordini citati. Appena giunti sul luogo, gli agenti notavano un gruppo di giovani che alla loro vista» ed eravamo «chiaramente riconoscibili dall’uniforme o per le casacche», con l'obbiettivo «di compromettere lo svolgimento dell'operazione di polizia giudiziaria», chiudevano la scuola dall'interno «impedendo che gli agenti vi potesse entrare». [...] In questo modo - scrive chi ha redatto il verbale - i ragazzi hanno avuto «il tempo necessario per occultare armi e per organizzare un'attiva resistenza». Gli agenti, «dopo aver forzato il cancello d'ingresso utilizzando un furgone» ed essere entrati dell'edificio «subivano un fittissimo lancio di oggetti di ogni genere» [TROVATI DOVE IN SEGUITO?]. Tutto questo «rafforzava il profondo convincimento che effettivamente nella scuola i giovani manifestanti» avessero « armi di ogni genere. Pertanto appena riusciti a forzare il portone d'ingresso, veniva effettuata una perquisizione ai sensi dell'articolo 41 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza. I giovani presenti all'interno, resisi conto» dell'arrivo della polizia «cercavano di resistere ulteriormente: prima ingaggiando colluttazioni con gli agenti, poi disperdendosi per i vari piani dell'edificio, anche per poter tendere inaspettatamente ogni sorta d'agguato». «Quanto segnalato trova conferma nell'accoltellamento al torace dell'agente Nucera Massimo, in forza al Nucleo Antisommossa del I Reparto Mobile di Roma, episodio che non aveva ulteriori e drammatiche conseguenze solo grazie all'utilizzo da parte dell'agente di un giubbotto protettivo [GUARDA IL CASO!]. La resistenza» dei ragazzi era vinta «solo grazie alla presenza di un nutrito contingente di poliziotti». Nel referto, a questo punto, si racconta che «nelle concitate fasi d'ingresso e durante la colluttazione, i giovani provvedevano intenzionalmente a lanciare verso ogni luogo i propri zaini, ciò, evidentemente, per rendere impossibili le operazioni di attribuzione delle responsabilità penali relative all'eventuale rinvenimento di armi. La cui ricerca, resa ancor più complessa proprio in considerazione dell'atteggiamento di questi giovani, consentiva di trovare e sequestrare, i seguenti oggetti: 2 bottiglie contenenti liquido infiammabile e innesco, cosiddette «molotov» [FALSE]; 7 coltelli a serramanico, con manico in legno di varie dimensioni; 10 coltelli, tipo svizzero [OSSIA I COLTELLINI ROSSI CON LA CROCE BIANCA MULTIUSO], manico in plastica, di varie dimensioni; 1 coltello multiuso in acciaio; 1 coltello multiuso con manico in plastica nero; 2 coltelli da cucina in acciaio; 1 coltello da cucina con manico in legno; 1 coltello da cucina con manico in plastica nero; 1 paio di forbici da cucina; 1 set da tasca di chiavi esagonali e cacciavite; 2 mazze da carpentiere con manici in legno; 1 piccone con manico in plastica dura; 1 pala da carpentiere con manico in legno; 1 mezza bottiglia di plastica con chiodi; 1 tubo Innocenti ricurvo; 1 Kriptonite, con due chiavi; 3 mazze di ferro; 6 mazzette in alluminio ricurve; 2 spuntoni di ferro; 5 bombolette di vernice spray; 2 thermos; 2 dadi in alluminio; 1 scatolato in ferro; 1 lastra in porfido; 2 cinghie borchiate; 1 cinghia metallica; 1 cinta in tela; 1 bracciale cuoio borchiato; 1 catena in ferro legata ad una camera d'aria; 1 elastico di gomma; 4 contenitori per sostanze lacrimogene del tipo usato dalla polizia; 1 capsula spray urticante usata; 1 manetta in ferro; 15 maschere antigas; 8 maschere da sub; 13 occhialetti da piscina; 1 filtro maschera antigas; 3 caschi da motociclista; 2 caschi da cantiere; 1 brandello di bandiera rossa; 1 parrucca color castano; 1 rotolo di imballaggio; 5 passamontagna modello Mefisto; 1 cappello lana nero; 3 mascherine paraocchi da lavoro; 6 parastinchi di plastica uso sportivo; 4 ginocchiere di tipo sportivo; protezioni fisiche artigianali di plastica resistente; 1 paio di guanti di lana nera; 2 minidisk di marca Sony; 6 rullini; 3 cassette audio; 1 floppy disk privo di etichetta; 3 cellulari; 17 macchine fotografiche; 2 walkman; 1 agendina di colore rosso e nero; una bustina trasparente contenente 14 pasticche di colore bianco; 4 capsule con polvere marrone una capsula vuota; 1 bandiera rossa con effigie riportante pugno chiuso di colore giallo; 1 striscione di 10 metri di lunghezza con sfondo nero ed effigie in giallo con su scritto «you can't forbit it and you can't ignore it you try to fright but you will not stop it» seguita da una stella a cinque punte; 60 magliette nere, alcune con scritte inneggianti alla resistenza, alla violenza e contro lo Stato; 15 pantaloni neri; 16 giacche nere; 17 giubbotti neri; 5 sciarpe nere; 4 cappelli neri; una pettorina gialla con la scritta «giornalista»; un'agenda blu con la cartina topografica di Genova con riportate a penna indicazioni sulle zone della città interessate ai cortei; vario materiale cartaceo e striscioni di cartone». «A carico del cittadino tedesco Szabo Jones, 24 anni, sono stati sequestrati 2 coltelli multiuso; 1 coltello a serramanico e 8 fogli dattiloscritti in lingua inglese, numerati da pagina 3 a pagina 11 e privi della pagina 10.1...1 Quanto sequestrato sostiene l'ipotesi investigativa relativamente alla localizzazione del luogo destinato dai vertici dell'organizzazione delle "Tute Nere" ad accogliere i militanti provenienti da tutta Europa per il G8. Tale luogo era evidentemente indispensabile per il necessario supporto logistico e per attuare l'obbiettivo, attraverso devastazioni e saccheggi, attentati a impianti di pubblica incolumità, detenzione ed uso di armi anche da guerra. La certa appartenenza dei citati giovani all'organigramma delle "Tute Nere" è, peraltro, pienamente confermata dal ritrovamento e dal sequestro di numerosissimi capi di abbigliamento proprio di quel colore. Non sarebbe altrimenti spiegabile la presenza nella Diaz di numerosissimi giovani di diversi paesi europei. Quanto accertato consente di stabilire che il sodalizio in oggetto si sia palesemente interessato di reperire sia i mezzi per raggiungere il luogo convenuto che le armi indispensabili per realizzare i delitti indicati». «Il contenuto di un manoscritto trovato fra gli effetti personali di Szabo Jonas, consente, inoltre di stabilire che egli è uno degli esponenti di maggior rilievo» delle "Tute nere", perché il testo «descrive nei dettagli la preparazione di un giubbotto speciale da usarsi in occasione di contatti con le forze dell'ordine» [...]. Questo «conferma la posizione di rilievo di Jonas nell'organizzazione, e dimostra che la Diaz era il luogo destinato alla pianificazione strategica e al materiale confezionamento degli strumenti destinati all'offesa delle forze dell'ordine. I...] «Dai fatti narrati» si intuisce «anche il programma criminoso dell'organizzazione» che voleva compiere «una serie non determinata di delitti». Pare ovvio, anche, che [...] «ogni componente dell'associazione avesse la consapevolezza che il suo atteggiamento contribuiva in maniera determinante alla realizzazione delle comuni finalità». [...] Nel corso della perquisizione, sono stati feriti numerosi giovani presenti nella scuola, alcuni dei quali ancora ricoverati in ospedale, e molti agenti di polizia...». «Si sono chiusi dentro e abbiamo dovuto sfondare la porta Poi hanno fatto di tutto per ostacolarci» «Gli abiti neri e un testo sequestrato a un giovane cittadino tedesco sono le prove che ospitavano i Black Block» «Quell'edificio era il luogo destinato alla pianificazione strategica degli attacchi e al confezionamento dei necessari strumenti».

giovedì 3 maggio 2012

Γεια και χαρά σας βρε πατριώτες - Β. Παπακωνσταντίνου

Una canzone di Papakostantinou sulle elezioni.


IL DOPPIO STATO



Si avvicina il giorno del ricordo per le vittime del terrorismo. Che sarà commentato con un post. Apriamo l'argomento riprendendo la teoria del doppio stato, che sta anche alla base del film di Giordana "Romanzo di una strage", già commentato su queste pagine.

Lo Stato imperialista delle multinazionali non esisteva. Le Br cominciarono ad averne un chiaro segnale nei giorni del rapimento di Aldo Moro, quando il loro ostaggio rispondeva alle domande del processo senza cogliere gli intrecci che sottintendevano i brigatisti. Essi pensavano che ci fosse non già uno Stato nello Stato, ma un Sovrastato, potenziato e guidato dagli Stati Uniti, in grado di coordinare le politiche nazionali dei vari paesi del blocco occidentale. Quel mondo, pensavano i rapitori di Moro, stava andando verso una svolta strutturale che ne avrebbe mutato alle fondamenta le caratteristiche. Sarebbe cominciata la delocalizzazione del lavoro, la ristrutturazione della produzione e il primato del capitale finanziario su quello produttivo. Ma il processo non era irreversibile. Bastava scoprire gli ingranaggi, gli uomini, i referenti dello Sim per fermarlo e Moro era uno di questi.
 Si trovano, nella teorizzazione dello Sim, grandi intuizioni e capacità di lettura della realtà (fu ipotizzata nel 1975), ma anch ingenuità. La divisione del mondo in buoni e cattivi, in sodali e vittime innocenti non appartiene a una realtà complessa, che deve sempre tenere conto di moltissime forze, spesso in competizione, per restare in equilibrio. Quest'ultima considerazione si attaglia anche alla cosiddetta teoria del doppio Stato. Secondo alcuni, in Italia avrebbe a lungo convissuto un sistema nel quale lo Stato ufficiale sarebbe stato solo la parte visibile, emersa dell'intero apparato; alle sue spalle, nascosto, avrebbe agito un secondo Stato, che sarebbe coinvolto in un complesso disegno eversivo che partirebbe addirittura dalla strage del Primo Maggio 1947 a Portella della Ginestra, per dipanarsi attraverso tutta la storia italiana del secondo dopoguerra.  Un secondo Stato, dunque, all'interno del quale intere generazioni di funzionari, militari e civili, si sarebbero passate il testimone del complesso disegno. Questa ipotesi, che spesso diventa certezza in alcuni racconti, ha un grande pregio, ossia quello della semplificazione estrema: da una parte i democratici fedeli al dettato costituzionale, dall'altra i reazionari antidemocratici che pur di portare a termine il proprio sogno eversivo non hanno esitato a mettere bombe, depistare, assassinare personaggi divenuti scomodi. Per contro, i difetti sono molti, e tutti molto marcati. Uno studioso non può certo accontentarsi di una teoria senza riscontri, anche se a prima vista possa tornare utile per risolvere molti problemi. E i riscontri, per il doppio Stato, mancano. La filiera non è mai completa, i fatti si contraddicono, gli attentati e i depistaggi, veri o presunti, si accavallano senza una logica. Quando è stata scoperta la P2, molti ritennero che si fosse giunti alla testa del mostro. Poi, però, si è scoperto che in realtà i piduisti non erano dei golpisti, ma degli ultratlantisti, patrioti a modo loro, anzi, patrioti secondo molti parametri. La stessa delusione la diede Gladio; a capo Marrargiu non ci si addestrava per commettere attentati, ma per organizzare la resistenza armata contro l'invasione dell'esercito ungherese, quello destinato all'Italia in caso di guerra con il Patto di Varsavia. L'Italia sarebbe stata divisa in due e la resistenza concentrata, in attesa dei nostri, in Sicilia e Calabria. Se manca il nucleo di questo secondo Stato, ridurre tutto a uno Stato nello Stato, inoltre, impedisce allo storico e all'osservatore di cercare le responsabilità politiche che si sono succedute nel corso degli anni, di analizzare gli episodi al di fuori di contesti più ampi (per esempio internazionali), riducendo la storia italiana a mero complotto. La strage di Ustica e la copertura che è stata fatta del tentativo di uccidere il leader libico Gheddafi sui cieli italiani è paradigmatica di quanto si sostiene. Gli Stati Uniti non solo fallirono l'obiettivo, ma per errore provocarono l'abbattimento di un aereo di linea dell'Itavia e 81 morti civili. Le strutture dell'Aeronautica Militare italiana coprirono l'accaduto, ma poi la politica, tutta la politica, da sinistra a destra, mantenne il segreto sui fatti e a distanza di 32 anni ancora non abbiamo una versione ufficiale da parte del governo italiano. Davvero serve un secondo Stato per coprirci di vergogna? Si è trattato di uno dei maggiori, se non del maggiore depistaggio della storia repubblicana, eppure non compare mai tra le prove dell'esistenza di questo doppio Stato. Sarà perché a noi Gheddafi piace piaceva se Berlusconi lo adulava e Bettino Craxi lo avvertì nel 1986 dell'imminente bombardamento americano del suo quartier generale. Eppure non si può certo liquidare così la questione, né si può concordare pienamente con lo spirito delle parole del presidente Napolitano, che chiede una generica ricerca della verità senza assumersi la responsabilità di una posizione; neanche prese di posizione liquidatorie, del resto, ci soddisfano, perché quanti ritengono quella di Piazza Fontana una "strage di Stato" avevano e hanno motivi a sufficienza per farlo. E non bastano certo le parole di un presidente della Repubblica per superare il problema. Da quando, mi chiedo inoltre, la storia devono scriverla i politici? Pier Paolo Pasolini poco prima di morire stava lavorando alla stesura di un grande romanzo, Petrolio, che non riuscì a terminare. È la storia dell'Italia malata, dell'Italia delle stragi e delle morti violente, all'interno della quale si muovono persone reali, con nomi e cognomi e funzioni vere, non presunti attori mascherati o vestiti di ombre. In quei mesi Pasolini dichiarò di sapere i nomi dei mandanti, di conoscere i luoghi da dove erano partiti gli ordini delle stragi. Era il suo mestiere, disse, quello di conoscere queste cose, perché era uno scrittore.  L'Italia, sapeva Pasolini, è un paese fatto di tanti piccoli, a volte miserrimi interessi, che vanno tenuti insieme attraverso piccoli spostamenti, aggiustamenti appena percettibili. Qual è la logica per cui la nostra fedeltà alla Nato si è manifestata anche attraverso le bombe e gli attentati? La matrice degli attentati che hanno prodotto la carneficina che conosciamo è di destra. Esistono dei nomi, dei processi, delle condanne, delle prove al riguardo. Di materiale esplosivo e volontà eversiva fu piena l'Italia del dopoguerra. I gruppi neofascisti cominciarono a formarsi già dal 25 aprile e si svilupparono in particolare al Nord, dove infine negli anni Sessanta si passò all'azione. In determinanti momenti forze esterne, come poteva essere la Cia, o interne, come singoli uomini all'interno dei servizi, istigarono, o lasciarono fare, o coprirono post factum. Per questo Piazza Fontana è strage di Stato e per questo la strage alla stazione di Bologna fu  un attacco preciso al nostro paese da parte di un nemico. Che probabilmente prima ci era stato amico.  

mercoledì 2 maggio 2012

DIAZ. RIMORSI? NO. "LA STAMPA"

Jennifer Ulrich durante una scena del film "Diaz"




Parla un celerino che ha partecipato all'assalto della Diaz (o Sandro Pertini, com'era stata ribattezzata). E' di Genova. L'articolo appare sulla "Stampa" del 27 luglio, quando tutto il mondo conosce ormai lo svolgimento dei fatti e le violenze inferte ai giovani che stavano dormendo nella scuola in attesa di ripartire il giorno dopo. Era già più difficile nascondere gli accadimenti.




ERO dentro la scuola, ho partecipato all'inferno di Genova. Adesso siamo finiti noi sulla graticola, accusati per tutto quello che è successo a Genova. A che serve parlare? Vuoi sapere delle nostre violenze? Sì, ci sono state, ma perché vi siete dimenticati di quello che hanno fatto le tute nere? Ormai a difenderci c'è solo il capo della Polizia e il ministro dell'Interno. Voi non avete capito che a Genova c'è stata una guerra». Che brutto clima si respira in questura e nei suoi paraggi. Nessuno vuole parlare, persino nella forma anonima, preoccupato di diventare «vittima» di una «caccia alle streghe». I poliziotti che hanno garantito lo svolgimento del GB si sentono stretti dalla morsa di una tenaglia: da una parte il Gsf e l'opposizione, dall'altra i «colleghi». Il poliziotto ha riflettuto a lungo se parlare o meno, se raccontare la perquisizione all'interno della scuola Pertini, ex Diaz. E alla fine si è fatto vivp. L'incontro avviene in un bar, nei paraggi della rianimata piazza De Ferrari, ex zona rossa. «Io c'ero quando siamo entrati nella scuola Pertini, che voi signori della stampa chiamate Diaz, che non era la sede del centro stampa del Genoa Social Forum. Il Gsf si trovava, invece, nella scuola di fronte, la vera Diaz. Ma prima di parlare della scuola e di quello che è accaduto - sì, abbiamo picchiato, è volata qualche manganellata di troppo - vorrei gridare che noi venivamo da due giorni d'inferno». Mastica rabbia il poliziotto: «Qualcuno ha scritto che avevamo l'infiltrato nella scuola, che ci eravamo preparati nei giomi precedenti per fare questo blitz. Questo non lo so, ma dubito che sia andata cos'i». Fa una smorfia che sembra un sorriso: «Perché non avete scritto che i miei capi vi avevano convocati per assistere alla perquisizione? Se volevamo picchiare l'avremmo fatto alle tre di notte, senza testimoni». Ricorda: «Respiravo lacrimogeni e mi difendevo dagli assalti delle tute nere da due giomi. C'era l'inferno a Genova e adesso ve la prendete con noi». Sabato sera, gli scontri erano finiti, il corteo del Gsf (200.000 persone) stava defluendo, migliaia di ragazzi cercavano di entrare nella stazione di Brignoie per prendere il treno e tomare a casa. «Verso le undici, il mio dirigente ci avvisa di stare pronti: "li andiamo a beccare". Noi di Genova eravamo pochi, si aggregano il reparto mobile di Roma e i carabinieri, che ci dovevano coprire le spalle. Se l'operazione fosse stata pianificata un giorno o due giomi prima, ci saremmo organizzati diversamente. E invece ci portano su come quando arriva la chiamata d'emergenza al 113». Il «celerino» sorseggia una birra. Non è testimone o protagonista di quello che è accaduto prima dell'irruzione alla Pertini. La versione ufficiale parla di un «pattuglione» di quattro auto, due in borghese e due volanti, che intomo alle dieci si trovano a passare tra le due scuole, non erano di Genova e avevano avuto la segnalazione che in via Trento, e non alla Diaz o alla Pertini, c'era un gruppo di tute nere. Passano tra le due scuole e vengono bersagliati da pietre e bottiglie. E' stato allora che in questura si è pianificato l'intervento. «Nel cellulare il capo ci dice di stare attenti, che nostri colleglli erano stati assaliti, che ci dovevamo aspettare il lancio di pietre, di bottiglie incendiarie. Che erano tanti. Eravamo nervosi, stanchi e l'adrelina ci teneva svegli. Ero lucido? Non lo so. L'importante, in questi casi, è che i nostri dirigenti lo siano. Arriviamo sul posto. In testa ci sono funzionari in borghese. Si mettono da parte, un nostro mezzo sfonda il cancello. E' buio, sentia- ino grida. Entriamo in quella palestra, accolti da una pioggia di pietre. Non si capisce più nulla. In quegli attimi - non so dire se dopo un minuto o un'ora, non so quanto tempo siamo stati dentro - sento i colleghi che' dicono che uno dei nostri era stato accoltellato. Il primo che mi capita sotto tiro è un ragazzo. Impugno il manganello». Si ferma, i suoi occhi sono come dei laser: «Vuoi sapere se ho picchiato? Sì, l'ho fatto. Nessuno mi ha fermato». Perché lo hai fatto? Cosa ti aveva fatto quel ragazzo? Un sospiro profondo prima della risposta: «Non lo so. Sentivo gridare, vedevo che loro si difendevano, che cercavano di darcele. E io sono stato più veloce di lui». Ma è vero che i ragazzi dormivano? «Quando sono entrato nella palestra, no. Non so se prima o nelle aule dei piani superiori c'era chi dormiva». Quando tutto finisce, e si può entrare nella scuola, il sangue sulle pareti della palestra documenta quello che è successo. Il bilancio ufficiale dell'operazione: su 93 presenti nella scuola, 68 devono far «ricorso alle cure mediche». Rimangono feriti anche 17 poliziotti. Sei giomi dopo quella perquisizione, hai qualche rimorso? Il poliziotto risponde fulmineo: «Rimorso no, rabbia tanta». «Respiravo lacrimogeni e mi difendevo dalle tute nere da due giorni»

Gramsci in carcere e il partito

PAOLO SPRIANO
Paolo Spriano è stato il mio primo maestro. Sono stato fortunato nella vita scientifica. Ne ho avuti diversi, e non solo in Italia. Nel 1986 seguii l'intero corso di Spriano sulla resistenza in Italia e il partito nuovo. Forse anche per questo, a distanza di tanti anni, ho voluto scrivere un libro sull'argomento. Quando partii per l'Unione Sovietica lo andai a trovare (era il 1988, pochi mesi prima che morisse il 26 settembre di quell'anno). Ricordo che mi disse: "Si impari il russo". Di Spriano ho sempre tenuto in grande considerazione gli studi su Antonio Gramsci. Nonostante la chiusura degli archivi aveva intuizione e usava molta logica nei suoi ragionamenti. E non di rado si avvicinò a quanto avrebbero in seguito mostrato i documenti. Alcune cose non poteva immaginarle neanche, come la polemica sull'eredità letteraria del dirigente sardo tra il Pci e la sua famiglia di Mosca. Ma altre le comprese prima di altri. Il suo libro "Gramsci in carcere e il partito" ne è testimonianza. Non ho mai scritto un libro su Gramsci. Un lungo saggio, in polemica con il direttore e il presidente della Fondazione Gramsci, Pons e Vacca. Ma sono stato tanto in archivio e ho raccolto documenti, a Roma come a Mosca. Stanno qui.

Uno di questi, del 27 ottobre 1934, dice che al già "detenuto politico" (esattamente così, il fascismo riconosceva questo status) Antonio Gramsci era stato notificato il Decreto di applicazione di libertà vigilata e che era stato "liberato condizionalmente" con decreto del ministro di Grazia e Giustizia del 25 ottobre 1934. La pena rimanente si sarebbe estinta il 21 aprile 1937. Fino a quel momento Gramsci doveva: 1) Darsi a stabile lavoro e vivere onestamente senza dar luogo a sospetti. 2) non trasferire la propria residenza dal luogo dove ha eletto domicilia senza autorizzazione del giudice di sorveglianza. 3) Non trasferire la propria abitazione da un luogo all'altro senza autorizzazione. 4) non trattenersi fuori dalla propria abitazione dell'avemaria all'alba senza necessità di lavoro, da comunicarsi preventivamente al giudice di sorveglianza. 5) Non frequentare locali malfamati, luoghi di riunioni e trattamenti pubblici. 6) non accompagnarsi a persone pregiudicate e comunque sospette. 7) presentarsi ogni domenica all'autorità di .S. del luogo ove ha eletto domicilio alle ore 10.

Gramsci era malato di tubercolosi cronica. Con la notifica, a Gramsci venne fatto sapere dai Carabinieri della Compagnia di Formia, dove si trovava la clinica scelta dal detenuto come residenza, che la libertà condizionale era stata concessa "solo per ragioni umanitarie in vista delle cagionevolissime sue condizioni di salute" e che ogni altra interpretazione del provvedimento sarebbe stata "arbitraria". Gramsci se ne dichiarò "inteso" e assicurò che non avrebbe dato nessun altro significato all'atto formale del ministero. Aggiunse di non sapere cosa fosse stato pubblicato su di lui all'estero e che "comunque egli deve essere considerato estraneo a qualsiasi genere di propaganda politica in considerazione pure dello stato in cui trovasi e per il quale gli è interdetto di mantenersi in corrispondenza coi propri compagni".

Nessun ravvedimento da parte di Gramsci, dunque. Le condizioni di salute, però, spesso sottostimate nei libri sul dirigente comunista, determinarono buona parte del suo destino carcerario.









Παπανδρεου στο Time Magazine. Papandreou al "Time".


Un esperimento. Così ha definito la Grecia degli ultimi mesi l'ex primo ministro Papandreou alla vigilia delle elezioni parlamentari al magazine "Time".


Like his country, George Papandreou, 59, has downsized in the last six months. He stepped down as prime minister of Greece in November, then, in March, as leader of PASOK, the Socialist party his father founded in 1974. Looking back at the unprecedented meddling of European powers in his country's politics amid the Euro crisis — a series of events that led to his fall as well as Greece becoming the first country in the zone to be forced to accept painful austerities in exchange for bailout loans — Papandreou told TIME, "I think it couldn't have been avoided. We were a lab rat, an experiment."
He's settling into a new corner office in the Papandreou Foundation, housed in a weathered neoclassical building in the central Athenian neighborhood of Kerameikos, which used to house ancient potters thousands of years ago. It's a gritty and anxious neighborhood that's a microcosm of Greece today: People are worried about crime, money, identity and, most of all, the future. They're also deeply divided about what to do. Sunday's parliamentary elections are expected to be the messiest in decades. No party looks likely to get enough votes to form a government. It's expected to be another anti-austerity vote that, along with a likely win of Francois Hollande in France, could change the dynamics of the eurozone crisis.
The austerity measures have crushed the Greek economy, which is now in its fifth year of a deep recession. The unemployment rate has shot up from about 9% in 2009 to 21% today. Suicides are also on the rise. Tens of thousands of small businesses have closed. Some of the poorest Greeks found themselves homeless and eating at soup kitchens. "I wish we could have done this in a way that was softer on the people, especially those who weren't to blame, like the pensioners and the workers," Papandreou says. "But in the end, everybody has paid and paid dearly for this crisis."

What galls the former premier is that some European Union leaders refuse to recognize these sacrifices. Though Greece cut its budget by 5.5% in the first year of austerity and was recently praised by the Organization for Economic Cooperation and Development for being a top reformer, "some populist politicians say, 'It's not that Greece has a problem, it's that Greeks are the problem,'" Papandreou says. "How can a parliamentarian or a leader in a country say, on the one hand, that we're going to support Greece but at the same time say that Greeks are lazy?" he says. "I mean, their citizens will say, well, if they're lazy, then why are we supporting them?"

Greeks are clearly outraged that austerity is leading nowhere. Anti-austerity protests in Athens regularly devolve into violent riots in the neighborhoods around parliament. Still, public opinion polls show that about 70% of Greeks want to remain in the eurozone. Papandreou says he proposed the idea of a public referendum on the second bailout, which European Union leaders hammered out last October, because "Greek people had to feel like they owned the program, that it wasn't an imposed program." "We had to make a decision," he says. "We had to decide whether we wanted the program or not, whether we wanted to stay in the euro or not, whether that would have consequences."
But the referendum never happened. Many Greeks said the timing was wrong or that they felt cornered. German Chancellor Angela Merkel and French President Nicolas Sarkozy berated Papandreou and claimed he had blindsided them. Papandreou says firmly that Merkel and Sarkozy knew about his intentions. "I was very optimistic that the Greek people would have said yes, that it's difficult but we'll go through this [austerity] process, whatever it takes," he says. "And this is why I was so unhappy that there were some negative reactions in Europe."
Shortly after the referendum idea went bust, Papandreou resigned as premier to make way for a coalition government led by PASOK and New Democracy, the two parties who have ruled Greece for the last 30 years, and the far-right Popular Orthodox Rally (LAOS). The new government chose Lucas Papademos, a former central bank and MIT-trained economist as interim premier. Papandreou has now been replaced as PASOK by Evangelos Venizelos, a verbose and combative constitutional lawyer who had recently served as Finance Minister.
If pre-election polls hold true, PASOK and New Democracy are expected to get a combined 40% of the vote in Sunday's elections. That's a stunning fall from 2009, when the parties got about twice that. Voters are turning to political parties on the left and right who oppose the bailout. Some voters are even turning to Chrysi Avgi, or Golden Dawn, an extreme right party with neo-Nazi ties which blames Greece's economic problems on immigrants. Chrysi Avgi got 0.23% of the vote in 2009. This year, they're polling at 5% and are expected to win seats in parliament.
Papandreou likely won't have a role in the next government but he will be in the next parliament. The constitution guarantees him a seat as a former prime minister. The U.S.-born and educated Papandreous will represent Achaia, the district in southern Greece where he began his political career more than 30 years ago.
Greeks are clearly angry at pan-European austerity politics. But voters like George Pappas, 37, a physical therapist, say they're equally as angry at the ossified politics at home. Pappas says Greeks must kick familiar faces out of parliament so Greece can rid itself of corruption and patronage. "I'm going to vote for the craziest and least appropriate person this time," Pappas says. "I'm beginning to believe that the only way to help this country is to demolish the whole system and start from scratch — even if it means that we leave the eurozone."
Voters like Pappas are especially angry at politicians like Papandreou, whom they say sold Greece out to international lenders. Papandreou says he doesn't take the criticism personally and says he agrees that Greece must reform dramatically to thrive. "The slogan that came out almost spontaneously from the people and from our party in 2009 was that either we change or we sink," he says. "I still say this today, and I'm even more convinced today, that we were a mismanaged society led by mismanaging governments."
Richard Parker, an economist at Harvard University who advised Papandreou during his two years in office, said the country had few options but to accept the austerity recipe offered by the European Union, the European Central Bank and the International Monetary Fund. "Like the rest of Europe, Greece had lived on a credit-fueled boom built on relaxed standards of oversight and regulation," Parker says. "Greeks got caught as collateral damage to the meltdown of the American capital markets. It got hit by a tsunami not of its own origin."
Standing on the balcony of his family's foundation in central Athens, gazing at the Agora, the marketplace of ancient Athens, Papandreou ponders his country's breadth of history and golden moments of harmony. "In ancient Greece," the former prime minister says, "politics and the market were not decoupled." The bone-colored ruins are lit up by bright sunlight even as the shadow of a modern catastrophe envelopes the country.


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Η Φωτεινή Βελεσιώτου στο ελculture.gr

Η Φωτεινή Βελεσιώτου τραγουδάει ρεμπέτικα και λαϊκά στη Θεσσαλονίκη στο Καδωδείο Ελληνικόν κάθε Παρασκευή και στην Πριγκηπέσσα κάθε Τετάρτη.
Στην Αθήνα εμφανίζεται στην ταβέρνα Κληματαριά (Πλ. Θεάτρου) κάθε δεύτερη Τρίτη και κάνει περιοδικές εμφανίσεις σε διάφορες μουσικές σκηνές.





AGNOLETTO


Don Vitaliano della Sala

Il 23 luglio 2001 "il Corriere" pubblicava questo pezzo, costruito sulle parole di Agnoletto. Il giornale non prende posizione. Riporta le parole del rappresentante del Genova Social Forum e le repliche del sindacato di polizia, con le quali si chiude il pezzo. Pretendere una posizione da un giornalista del "Corriere" su un caso così complesso, a poche ore di distanza dai fatti, significa essere ingenui. Non c'è altro da aggiungere. 

«Gli agenti hanno fatto una carneficina» Il Social Forum: ecco le foto delle forze dell' ordine vestite da tute nere. La replica: solo calunnie DA UNO DEI NOSTRI INVIATI GENOVA - «Il blitz di mezzanotte, il massacro dei ragazzi che dormivano nelle aule della scuola Diaz è il biglietto da visita di un governo, che non solo nega il dissenso e cancella le regole democratiche, ma vuole instaurare uno stato di polizia...». L' ira di Vittorio Agnoletto, piccolo condottiero del Genoa Social Forum, si avverte prima dal tono - uno strillo strappato con forza alla sua esile voce -, poi dalle parole. Diluvio di denunce, accuse pesanti, brevi racconti dell' orrore, appelli ad Amnesty International, richieste di decapitazione dei vertici della Polizia e del ministerno degli Interni, annuncio di controinchieste giudiziarie sui fatti di Genova. Definiti «un attacco scientifico, preordinato del governo contro un movimento di massa, che ha portato in piazza 200 mila persone». «L' operazione compiuta alla Diaz - tuona Agnoletto - mira a distruggere il dato politico della manifestazione. Il nostro movimento, sia pure a caro prezzo, ha vinto». Pausa. «Il Genoa Social Forum lancia per martedì una mobilitazione generale in tutta Italia sul tema della democrazia e il diritto al dissenso». Applausi. Genova, domenica pomeriggio. Giardini «Gilberto Govi» di Punta Vagno: accalcati come acciughe in scatola, sotto i tendoni bianchi, contestatori, cronisti e, nelle ultime file, un grappolo di genovesi che hanno deviato dalla passeggiata a mare per curiosare e orecchiare. E' l' ultimo appuntamento del Public Forum; ma nessuno avrebbe scommesso che lo spazio aperto dal Gsf per dare voce ai big dell' anti-globalizzazione internazionale, alla fine sarebbe diventato il vulcano ribollente di umori esasperati. Parla Agnoletto, parlano gli avvocati del Gsf, i medici di piazza, la Tuta Bianca numero Uno, Casarini, il tostissimo Piero Bernocchi dei Cobas, Francesco Caruso di No Global, don Vitaliano della Sala... I riferimenti al Sud America, al Cile di Pinochet scandiscono molti interventi. Sicchè, la Genova del governo Berlusconi, vista da Punta Vagno, ricorda la Santiago degli anni Settanta. E' un fiume in piena, Agnoletto. Respinge al mittente le accuse di complicità Gsf-Tute nere, e manda a dire al premier: «Siamo certi che si tratta di una montatura; ma anche nel caso in cui nella scuola Diaz si fosse infilato qualche "irregolare", la carneficina compiuta dagli agenti sarebbe comunque inammissibile. Se la caccia ai sospettati deve avvenire con quei modi e con quei mezzi, ciò significa che nessun cittadino italiano può sentirsi al sicuro». Le parole forti del portavoce del Genoa Social Forum diventano fatti nelle testimonianze di chi ha vissuto il blitz di sabato notte. Dario Rossi, uno dei cento avvocati mobilitati per tutelare i diritti dei contestatori racconta come la perquisizione nella stanza del «servizio legale», al secondo piano, sia avvenuta al di fuori di ogni regola. «E non è tutto - denuncia Rossi -. Hanno rovistato come furie, rotto computer, asportato hard-disc, che contenevano i dati e le denunce degli arrestati». Tocca invece a uno dei 150 medici del Pronto intervento sanitario spiegare come sono andate le cose in piazza. Prendiamo il caso della ragazza malmenata a più riprese. «E' successo durante la manifestazione di venerdì - dice il dottore -. La giovane sta chiacchierando con un' amica; parte la carica, e lei non ha la prontezza di allontanarsi subito ... Un agente le si avvicina, la picchia col manganello, la prende a calci. La ragazza cade; poi, si rialza. Pochi passi, e di nuovo viene riacciuffata e picchiata. La raccolgo poco dopo, è sotto choc. La testa rotta (suturata con 14 punti), le gambe sanguinanti. Un massacro». La lista delle «malefatte» delle forze dell' ordine contro gli anti-G8 si allunga. I testimoni implacabili si passano il microfono, mentre in sala grondano gli applausi, misti alle urla («assassini, assassini!»). Il loro «asso nella manica» sono i documenti - foto, filmati - sulla battaglia di Genova. Viene diffusa una foto di un gruppo di persone davanti alla caserma dei carabinieri di corso De Gasperi: c' è un carabiniere in divisa. E poi due uomini con magliette nere e bastoni. Una ha il viso coperto. «E' la prova di infiltrazioni di carabinieri tra i Black bloc», dice Casarini. Il regista Davide Ferrario racconta di aver «inchiodato» due poliziotti travestiti da Tute nere; Luca Casarini, leader delle Tute bianche, spiega che il Gsf si sta impegnando nell' attività di «controinformazione», con la raccolta di materiale utile. «Se avete scattato foto, filmato espisodi di abusi, illegalità, dateli a noi. Alcune foto interessanti le abbiamo; e le useremo. Ma, attenti: un fotografo è già stato perquisito. La repressione è durissima». Piero Bernocchi, portavoce dei Cobas, va giù durissimo. Il j' accuse contro il governo è una bordata. «È stata una mattanza organizzata. Si voleva non un morto, più morti. Ogni domenica i teppisti del calcio devastano gli stadi, sfasciano i treni, ma non vengono massacrati». Salta su il napoletano Francesco Caruso di No Global, e avverte i compagni che invierà un bossolo a Scajola, affinché il ministro dell' Interno «possa riflettere su ciò che è successo». «E' lui il responsabile e il mandante politico dell' omicidio di Carlo Giuliani». E don Vitaliano della Sala, «contestatore in nome di Dio», condanna ecumenicamente ogni violenza. E racconta di aver visto scendere da una camionetta della polizia tre persone vestite di nero con caschi e maschere antigas. «A osservare la scena, con me c' era anche un frate», precisa. Replica del Siulp: «Gli operatori di polizia, per tre giorni, con abnegazione hanno tenuto testa a migliaia di criminali organizzati». Il Comando generale dell' Arma, interviene respingendo le calunnie circa «i contatti con elementi del Black Bloc, sostenuti dal Gsf». E contrattacca «sulla documentazione fotografica, ingannevolmente esibita. Che riguarda persone in uniforme e in borghese del Comando provinciale di Genova, predisposte a difesa della caserma, nel mirino dei manifestanti». 
Marisa Fumagalli

martedì 1 maggio 2012

DIAZ. PER NON DIMENTICARE



Cominciamo una serie di pubblicazioni sulla scuola Diaz, la macelleria italiana del 2001. Il tema è la polizia italiana e la stampa. Come i media diedero le notizie, come si resero complici di quanto accaduto. E come la polizia fu capace offrire un altissimo grado di repressione attraverso l'uso della tortura, fisica e psicologica, sugli arrestati.

Quello che segue è un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 31 luglio 2001. Parla l'agente "accoltellato". Fatto mai accaduto, montatura della polizia per melodrammatizzare la selvaggia irruzione e il ferimento di decine di persone inermi.

ABBIAMO SFONDATO LE PORTE DELLA SCUOLA POI CI SIAMO COMPORTATI DA PROFESSIONISTI. NESSUNO DI NOI HA PERSO LA TESTA.

«Altro che ragazzi o agenti alle prime armi. Eravamo tutti poliziotti ben addestrati, preparati all' emergenza. Professionisti». Massimo N., 28 anni, romano, l' agente scelto che è stato colpito con una coltellata durante l' irruzione notturna alla scuola Diaz, alza la voce. Proprio non ci sta a essere messo sul banco degli imputati. Sotto accusa. Lui e i suoi colleghi del primo Reparto mobile di Roma e del Nucleo sperimentale antisommossa. «Al nostro arrivo siamo stati attaccati con sassi, pietre, bottiglie. E per entrare abbiamo dovuto sfondare le porte dei due ingressi». Poi tutto si è svolto così rapidamente all' interno della sede del Genoa Social Forum «che ho ricordi in gran parte confusi. So solo che un ragazzo mi ha colpito. Di sorpresa». Con un' arma da taglio, un coltello a serramanico, marca Quttin Horse Smith & Wesson, come si legge nella relazione dell' ispettore capo di Ps Maurizio Panzieri e aggregato per il summit di Genova al Nucleo Antisommossa. «Un colpo preciso, alla parte sinistra del torace, come si può vedere dal taglio del giubbotto. All' altezza del cuore, con la chiara intenzione di uccidermi. Quel giubbotto speciale, da poco in nostra dotazione, molto simile a quelli usati dai giocatori di hockey, mi ha salvato la vita». L' agente scelto è stato sentito ieri pomeriggio dal procuratore aggiunto Francesco Lalla. Come testimone. Il primo di una lunga serie. Sono le 17.30 quando Massimo esce dall' ufficio del magistrato, dopo un colloquio di circa mezz' ora, «durante il quale ho spiegato la verità su quanto accaduto quella notte. Non le bugie che ho sentito in questi giorni». Cammina aiutandosi con due stampelle «per la sospetta frattura del ginocchio sinistro», spiega. Conseguenza degli scontri con gli antiglobal «durante la manifestazione di venerdì, e non nell' operazione della notte tra sabato e domenica alla Diaz», si affretta a precisare. In quell' occasione «non ho riportato neppure un graffio. La lama del coltello si è fermata prima, grazie alla protezione speciale». Nel racconto di Massimo si legge la drammaticità di quelle ore. «Nonostante la sospetta frattura al ginocchio sono rimasto a Genova. Per continuare nel mio lavoro», sottolinea. Sempre in prima linea. Anche sabato notte. «Erano da poco passate le 22 e stavo cenando con altri colleghi, quando è arrivata la richiesta dell' intervento. Una nostra pattuglia era stata presa di mira da alcuni dimostranti», aggiunge. Confermando la versione fornita nell' annotazione a firma di Spartaco Mortola, dirigente della Digos di Genova. «Erano le 23.30 quando siamo arrivati sul posto. Quanto a quello che è accaduto all' interno, l' ho detto al magistrato». Massimo ha ben impresso nella memoria le modalità dell' intervento. «Per quanto mi riguarda non ho mai perso il controllo». Ed evidenzia il mese di addestramento tecnico, «ma anche psicologico. Nessuno di noi ha perso la testa quella notte». Proprio nessuno? «Sono quasi sicuro. E se qualcuno l' ha fatto è stata la conseguenza di una situazione allucinante. Certo, non è una giustificazione. Chi ha sbagliato, se qualcuno ha sbagliato davvero alla Diaz, si assumerà le sue responsabilità. Spetta al magistrato appurarle. «Mai e poi mai mi sarei aspettato che ci saremmo trovati di fronte a tutto questo», continua Massimo. Le manifestazioni, le cariche, gli scontri, i feriti e un ragazzo morto. «Eravamo pronti all' emergenza. Ma si è andati oltre. Quarantott' ore così non le dimenticherò mai più». Come non dimenticherà più quella coltellata. Dopo l' aggressione nella scuola del Gsf, l' agente scelto è stato soccorso, portato nel suo reparto e quindi ricondotto a Roma. Dopo l' aggressione «non avevo più rivisto il mio giubbotto». Lo ha fatto ieri pomeriggio, nell' ufficio del procuratore. «Me lo sono ritrovato tra le mani e mi ha fatto una grande impressione. Ho pensato a cosa sarebbe potuto accadere se quella lama avesse centrato l' obiettivo». Ha avuto paura? «Direi una bugia se dicessi il contrario». Era pronto a difendersi. Allora. Perché adesso, invece, «non riesco a difendermi dal fango che ci stanno gettando addosso». Accuse, pesanti. Indagini, inchieste. «E mi chiedo il perché. Noi abbiamo fatto il nostro dovere. Sino in fondo». 

domenica 29 aprile 2012

ANCORA SULLA STRAGE DI BOLOGNA



NUOVO ARTICOLO DI SANDRO PADULA SULLA STRAGE DI BOLOGNA E LA "PISTA PALESTINESE". LE CONTRADDIZIONI E LE ILLAZIONI (e per ulteriori info e genesi di piste "oscure" si veda www.fascinazione.info)



Stage di Bologna: le due varianti della pista palestinese ormai si negano a vicenda.
di Sandro Padula
Nella polemica fra me e l’onorevole Raisi, incentrata su cinque punti e sviluppatasi su Internet, ho cercato di evidenziare le contraddizioni antitetiche fra due varianti della “pista palestinese”: l’ipotesi dell’incidente, sostenuta dallo stesso Raisi, e l’ipotesi di una “ritorsione contro il governo italiano” che sarebbe stata causata dall’arresto, avvenuto nel novembre 1979, di  Abu Saleh, un membro del’Fplp di George Habash.
Adesso gli autori di “Dossier Strage di Bologna”, sostenitori della seconda ipotesi, tentano di nascondere il carattere inconciliabile di quelle due varianti e puntano ad affrontare questioni che non c’entrano letteralmente nulla con il tema in discussione.
Tanto per fare un esempio, cercano di dimostrare che le Br furono eterodirette, in ciò ripetendo il teorema del Kgb e di Pecchioli del Pci che, mentre ufficialmente accusavano i settori neoconservatori della Cia, pensavano che all’origine della lotta armata nell’Italia degli anni ’70 ci fosse qualche vecchio militante della Volante Rossa esiliato in Cecoslovacchia con l’aiuto dello stesso Pci.
I russi del Kgb, coscienti già negli anni ’70 che il blocco dell’est avrebbe fatto una brutta fine, in Europa cercavano a malapena di mantenere la propria sfera di influenza nella parte orientale del continente. Il Pci di Pecchioli invece – fra le varie cose - fece leva  su quel teorema per sganciarsi sempre più dal blocco dell’Est e dal proprio passato filorusso per diventare una specie di frazione italica del “partito democratico”  statunitense.
Le menzogne del Kgb e del Pci di Pecchioli sulle Br erano strumentali ma dettate da divergenti linee politiche.
Gli studiosi di storia dovrebbero approfondire l’analisi di tali dinamiche ma, al di là delle loro opinioni, debbono riconoscere che  il fenomeno brigatista non ha niente a che vedere né con Carlos (e il signor Bellini, un autonomo creativo tirato in ballo dagli autori di “Dossier Strage di Bologna” come presunto collegamento fra Carlos e le Br) né tantomeno con la strage di Bologna.
Torniamo perciò ai cinque punti della controversia fra me e Raisi. Per comodità di esposizione chiamerò variante 1 l’ipotesi di Raisi e variante 2 l’ipotesi degli autori di “Dossier Strage di Bologna”.

Primo Punto

Secondo Raisi, il signor Carlos avrebbe fatto “scena muta” all'interrogatorio con il pm Cieri nel 2009. I sostenitori della variante 2 dicono invece l’esatto contrario. Chi ha ragione?  A me non interessa nulla di quello che fa Carlos. Desidero soltanto sottolineare che delle due l’una: o dice la verità Raisi o dicono la verità i fans della variante 2.
La documentazione e la logica ci danno una sola risposta. Non è vero che Carlos fece “scena muta” con il pm Cieri nel 2009. Il presupposto della variante 1 è quindi totalmente falso e smentito da amici dello stesso Raisi come gli autori di “Dossier Strage di Bologna”, cioè dai massimi esponenti della variante 2.
Non mi pare il caso di continuare a discutere sul primo punto. I fatti dimostrano che la variante 1 è sbagliata fin dall’inizio.
Negli ultimi tempi Raisi ha capito che il movente  di cui parlano gli autori di “Dossier Strage di Bologna” è storicamente e politicamente infondato e allora cerca di rielaborare la variante dell’“incidente”.  In tale operazione però sbaglia tutto fin dal principio e questa circostanza è davanti agli occhi di ognuno di noi.

Secondo punto

Secondo l’onorevole Raisi non sarebbe stato mai fatto nessun paragone fra il materiale sequestrato alla Frohlich all’aeroporto di Fiumicino nel 1982 e quello usato nella strage di Bologna del 2 agosto 1980.
A tale proposito, nel precedente scritto di critica al teorema di Raisi, ho citato tre fonti che – lette insieme - smentiscono questa affermazione e negano l’esistenza di una compatibilità fra il primo e il secondo materiale esplosivo: un articolo del Resto del Carlino del 6 aprile 2012, la sentenza del secondo processo di Appello sulla strage di Bologna del 16 maggio 1994 e l’interpellanza urgente 2-01636 presentata giovedì 28 luglio 2005 da Vincenzo Fragalà nella seduta n.664.
Ho scelto solo alcune delle fonti che, oltre a non avere nulla a che fare con me, sono considerate attendibili da Raisi e perfino dai teorici della variante 2.
Chiarito questo, desidero ricordare un altro dato di fatto: l’interpellanza urgente 2-01636 presentata giovedì 28 luglio 2005 da Vincenzo Fragalà nella seduta n.664 è stata pubblicata nell’Appendice 24  del “Dossier Strage di Bologna” e mai messa in discussione nei testi scritti da Gabriele Paradisi, Gian Paolo Pelizzaro e François de Quengo de Tonquédec. Se loro l’avessero considerata imprecisa o inesatta l’avrebbero dovuto dire subito per semplice onestà intellettuale.
Adesso, arrampicandosi sugli specchi, i tre autori del dossier preannunciano che pubblicheranno qualcosa a tale riguardo sul settimanale LiberoReporter Week.
Ad ogni modo, al di là di eventuali ed ulteriori “precisazioni” da parte dei teorici di questa o quella variante della “pista palestinese”, sul terzo punto non si può continuare a discutere. I fatti parlano da soli e di conseguenza nessuno se la può prendere con me se Raisi afferma il contrario di quello che hanno pubblicato nel “Dossier Strage di Bologna”  i tre autori di quest’ultimo. La verità, come al solito, è una. Chi dice il vero sulla questione dell’esplosivo? Il signor Raisi o chi, negli ultimi decenni e non da qualche ora, afferma il contrario? Ai posteri, magari fra 100 anni, l’ardua sentenza.
Qui non si tratta di stare a discutere della buona fede o meno di Tizio o Caio. Tutti possono sbagliare, ad esempio nei ricordi. Però, sulle questioni più delicate, come quelle relative all’arma di un delitto, non ci si può basare sui ricordi di qualche sgangherato articolo letto ma solo ed esclusivamente su dati scientifici.
Esistono esperti che sono pagati dallo Stato, cioè con i nostri soldi, per fare le analisi sulle armi di un crimine. Se poi le hanno eventualmente fatte male nessuno può rompere le scatole per questo a chi non ne ha la benché minima responsabilità.
Quelle analisi, per quanto riguarda la strage di Bologna, furono fatte ed escludevano implicitamente la “pista palestinese”. Potevano far capire piuttosto che l’esplosivo stragista conteneva il Compound B, cioè materiale bellico della Nato.

Terzo punto

Raisi aveva cercato di mettere in connessione una presunta residenza di Carlos nella Francia  del 1980 con il biglietto della metro di Parigi che sarebbe stato trovato nelle tasche di Mauro Di Vittorio, una delle vittime della strage di Bologna, come se questo giovane romano, allora ventiquattrenne, fosse stato strumentalizzato da qualcuno e avesse dovuto fare degli spostamenti di materiale esplosivo (innescato!) da Bologna a Parigi per consegnarlo a Carlos stesso.
La fantapolitica non ha limiti ma anche in questo caso le due varianti della “pista palestinese” hanno dimostrato di essere inconciliabili.
Raisi ha parzialmente modificato la sua già fantasiosa idea. Contraddetto pure dai teorici della variante 2, adesso parla di una possibile presenza di qualcuno del “gruppo operativo” di Carlos nella Francia del 1980.
Anche quest’ultima favola non trova adepti ed è smentita dalle numerose indagini delle forze di polizia francesi.
Chi cerca di buttare in caciara la discussione sul terzo punto, ad esempio scrivendo la storia palestinese del triennio 1978-1979-1980 in senso opposto a quella effettiva e inventa impossibili rapporti fra le Br e l’Fplp di quel tempo, è quindi pregato di smettere di lanciare delle stupide calunnie e di rispondere definitivamente al terzo  punto: c’era o non c’era un “gruppo operativo” di Carlos nella Francia del 1980? Sì o no? La storia reale ci dice di no. Nessuno inventi altre idiozie dietrologiche riferendosi addirittura a qualcosa che sarebbe avvenuto in un anno diverso dal 1980!

Quarto punto

Il quarto punto è l’idea di Raisi secondo cui ci sarebbe stata una qualche (involontaria) responsabilità di Mauro Di Vittorio rispetto alla strage del 2 agosto.
Prendiamo atto che i teorici della variante 2, sapendo per altro di rischiare una querela per diffamazione, hanno preso le distanze da questa idea iperfantapolitica di Raisi: “non intendiamo occuparci della questione sollevata da Raisi, in quanto non abbiamo nessun elemento a riguardo e teniamo a precisare che detta questione non è mai stata citata nel nostro libro”.
Come ha infine precisato Ugo Maria Tassinari nel suo blog, non esistono prove sul coinvolgimento di Mauro Di Vittorio nella responsabilità della strage di Bologna.
Quinto punto
Sono certo della totale estraneità di Christa Margot Frohlich rispetto al crimine che il 2 agosto 1980 produsse a Bologna ben 85 vittime e centinaia di feriti.
Lei non era la donna che nella Bologna di quel tempo fu vista in un albergo, si definiva madre ed ex ballerina e “parlava in lingua italiana con un forte accento tedesco”.
Chista Margot Frohlich, arrestata a giugno del 1982, non aveva figli e non era mai stata una ballerina! Inoltre, perfino nel settembre del 1983, dopo oltre un anno di detenzione nella penisola, ancora non conosceva a sufficienza la lingua italiana, tanto che mi spinse a comprare un dizionario di tedesco per comunicare con lei tramite la posta da carcere a carcere.
La situazione cambiò verso la seconda metà degli anni Ottanta: un giorno la sentii per telefono – sempre da carcere a carcere – e ricordo un fatto curioso che mi colpì. Lei, grazie alle amiche detenute e dopo anni (ho detto anni e non mesi) di detenzione nelle carceri speciali italiane, aveva imparato a parlare in modo comprensibile la nostra lingua ma non aveva un “forte accento tedesco”, come poteva essere quello della cantante Nina Hagen.
La sua voce era melodiosa e senza un “forte accento tedesco”. In altre parole, se nel 1980 la Frohlich avesse avuto la capacità di parlare la lingua italiana avrebbe avuto un basso accento tedesco, l’esatto contrario di quanto ipotizzano e cercano di dimostrare gli autori di “Dossier Strage di Bologna”. 
Come se ciò non bastasse, non mi risulta che lei – così come ognuno degli autonomi arrestati ad Ortona nel 1979 - abbia mai avuto una condanna per appartenenza a qualche “banda armata” (capito signori teorici della variante due? Ringraziate il cielo che pochi hanno letto il vostro libro altrimenti vi beccavate decine di querele per diffamazione!) e, senza dubbio, è ontologicamente avversa allo stragismo statuale e interstatuale che provocò numerose vittime nell’Italia dal 1969 al 1980.
Anche Kram, da quanto si riesce a capire, è innocente. Non spetta a me scagionarlo. Non faccio il giudice o il poliziotto. Cerco solo di proporre dei ragionamenti di buon senso.
Sull’eventuale e cosciente responsabilità di Kram non insiste più di tanto nemmeno l’onorevole Raisi.
Una cosa comunque è certa, i  “giovani” - “due come tanti altri” - visti da Rolando Mannocci all’interno della stazione di Bologna il 2 agosto 1980 mentre posavano qualcosa nell’angolo in cui avvenne l’esplosione (rileggasi bene La Stampa del 4 agosto 1980) non avevano nulla a che vedere con  l’allora trenduenne, alto e magro Kram e la trentottenne e bassa Frohlich. Fra i due, che non potevano essere definiti “giovani” - “due come tanti altri” - c’era e c’è una notevole differenza di altezza confermata dai loro rispettivi e autentici documenti anagrafici (carte di identità e passaporti).
Di conseguenza, si cerchino altrove quei “giovani”, “due come tanti altri”, dalla corporatura media e normale, senza alcun particolare segno in faccia (come può essere una barba per un maschio), che poco prima della strage furono visti da Rolando Mannocci all’interno, e non all’esterno, della stazione di Bologna!