sabato 3 gennaio 2015

ULRICH BECK


Il primo gennaio è morto ULRICH BECK, autore di studi importanti sulla globalizzazione. 

Ulrich Beck, sociologo all’Università di Monaco e alla London School of Economics, di cui appaiono quasi contemporaneamente in Italia quattro diversi volumi, La società del rischioEuropa Felix (da Carocci editore), I rischi della libertà (il Mulino), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro (Einaudi), è un autore che crea e presta linguaggio alla sociologia e alla politica del nostro tempo, ed è insieme a Anthony Giddens uno degli ideologi della “terza via”, il termine che definisce le politiche di centrosinistra, soprattutto in Europa quelle di Blair e Schroeder. Discusso come tutti coloro che cercano, ora con maggiore ora con minore successo, di rompere tradizioni di pensiero consolidate, Beck dice della società industriale qualcosa di corrispondente a quello che la new economy dice della old economy, svolge nella teoria sociologica un lavoro equivalente a quello che gli incursori di Greenpeace fanno intorno alle petroliere. Non sempre le sue proposte innovative approdano a risultati definitivi, ma ci accorgiamo, leggendolo, che riesce spesso a descrivere la realtà in cui già viviamo senza sempre rendercene conto. Dalla sua ricca produzione, che comprende anche lavori già usciti negli anni scorsi (per esempio Il normale caos dell’amore e Che cosa è la globalizzazione) emerge una visione abbastanza omogenea e sistematica del mondo di oggi ed un linguaggio. Eccone un piccolo campionario.

Il rischio. E’ l’idea base della concezione sociale di Beck. Il rischio è una condizione di non-più-ma-non-ancora, non più fiducia-sicurezza ma non ancora distruzione-disastro. E’ quella situazione “di mezzo” di cui non sappiamo con certezza come andrà a finire. Il termine copre una gamma vastissima di situazioni del nostro mondo che vanno dal rischio di impresa fino al mangiare l’insalata dopo Chernobil. Il rischio rappresenta la condizione permanente di chi non ha più il “posto fisso”, ma un posto “flessibile”, o “fragile”.

La seconda modernità. E’ quella che viene dopo la società industriale. Ora siamo in grado di vedere come la prima modernità, quella delle grandi aziende fordiste, della produzione di massa, dei consumi di massa standardizzati, della famiglia nucleare, del posto fisso a vita avesse una precisa identità storica e supponesse una quantità di fattori, ora incrinati. Tutti quegli elementi di stabilità si sono messi a traballare.

La modernizzazione riflessiva. E’ la “seconda modernità” vista sotto il profilo del nostro sapere e vedere le conseguenze della crisi. E’ l’accesso di massa alla conoscenza che fa della sindrome della mucca pazza un tipico fenomeno di oggi. Il rischio diventa realtà attraverso i mass media. Dalle notizie al crollo dei consumi di carne. Adesso sappiamo che quel rischio c’è e questo porta nella nostra vita quotidiana l’elemento del rischio, la necessità di prendere decisioni a rischio: sia che il primo ministro debba decidere il blocco delle importazioni, sia che noi dobbiamo andare dal macellaio.

L’individualizzazione. E’ un processo che viene da lontano, cominciato diversi secoli fa, ma oggi ha subito una accelerazione fortissima perchè la società industriale (e lo stato sociale con lei) si basava sull’unità famigliare. La sfera della produzione e quella delle riproduzione avevano un loro equilibrio, basato sulla divisione dei ruoli tra uomini e donne. Ora la “seconda modernità” impone individui interamente affrancati da legami. La flessibilità e la mobilità, con l’accesso delle donne al lavoro, creano una contraddizione tra produzione e riproduzione, impongono una visione longitudinale della biografia individuale. Il mercato ha bisogno di manodopera ma nello stesso tempo distrugge le basi della riproduzione degli individui. Tra mercato del lavoro e matrimonio quella che si svolge è una commedia degli equivoci. Il mercato vorrebbe una società senza figli. Cresce il numero dei single. Nelle grandi città tedesche sono più del 50% delle unità abitative.

Il caos dell’amore. E’ una conseguenza inevitabile della seconda modernità. Il matrimonio diventa instabile, a rischio, deve essere reinventato sulla base di una permanente “incertezza armata”, che è la condizione della coppia di oggi. Se non resisti alla “febbre dell’io” il matrimonio indissolubile diventa palesemente una utopia, per tutti, non solo per le star di Hollywood. Nel matrimonio si incorpora un patto di prova, viene storicamente prescritta una fase di prova.

Confluent love. E’ la forma di amore che risulta da questa tendenza alla individualizzazione. A seguire questo flusso, finisce che si sta insieme per periodi di “confluenza” delle biografie. Poi ciascuno per la sua strada. Il principio-guida del confluent love è il “si vedrà”. Il matrimonio è “precettato al divorzio”, è “programmaticamente soggetto a revoca”.

La biografia riflessiva. Il risultato di questa somma di rischi, una vita da trapezisti, è che la biografia individuale diventa un progetto che ciascuno si deve scrivere da sè; la biografia non è più iscritta nella classe e nella famiglia in cui si nasce, ma deve essere autoprodotta in un funambolico “fai da te”. Dalla sfera intima a quella del lavoro non posso più contare su certezze; il posto di lavoro è una base fragilissima, ma anche le capacità professionali che ho imparato a scuola, o nel primo lavoro, possono non essere più richieste da un momento all’altro. Si capisce che le doti più preziose sono la capacità di ri-formarsi e quella di superare bene le frustrazioni.

L’antipolitica. La variante occidentale dell’antipolitica (quel fenomeno che ha dat luogo storicamente al populismo dell’America latina) ha rotto i ponti con le grandi istituzioni publiche e si organizza intorno al cibo, al corpo, alla sessualità e all’identità, e difende le iverse culture, comprese quelle locali, dagli interventi esterni. Visti da vicino, questi fenomeni che sembrano impolitici mostrano invece una via verso la politicizzazione.

La subpolitica. Anticamera dell’antipolitica e del populismo. La dimensione politica si sposta nei settori dell’economia, delle professioni, dei gruppi di interesse, nei media, tra gli intellettuali. In queste sfere, soprattutto nelle prima, l’economia, si compiono i giochi che danno alla società la sua forma effettiva. Ma quei giochi hanno molte conseguenze indesiderate nella società del rischio. E la politica si trova ad avere la responsabilità di gestire gli effetti collaterali dell’economia, cioè di qualcosa che non controlla. Da qui la sua crescente impopolarità. Per di più i politici sono incapaci di riconoscere le nuove domande etiche.

Il lavoro di impegno civile. E’ una boccata di ossigeno nel duro mondo della seconda modernità di Beck. Là dove stato e mercato falliscono, là dove la subpolitica e l’individualismo estremo fanno a pezzi la gente e la sprofondano nella depressione (o nella povertà) una luce di speranza si accende nell’organizzarsi di iniziative per l’impegno civile. Una società comunque ricca apre spazi a lavori significativi e gratificanti: centri di cultura, gruppi musicali, le stesse attività politiche.

Imprenditori del bene comune. Sono quelli che ci servono per gestire lo sviluppo del lavoro di impegno civile. Dove non arrivano stato e mercato possono arrivare individui con l’attitudine pragmatica a spingere gli altri a fare centinaia di cose utili, preziose, gradite e applaudite. Assistenza non significa necessariamente burocrazia, o noia. Beck sogna un annuncio economico così concepito: cercasi vicino carismatico, pieno di fantasia, con voglia di sperimentare. Si offrono incentivo iniziale e finanziamenti di base. Compenso da concordare.

LA PROTESTA DEI VIGILI

Sergio Fabrizi è il primo in alto

«Il comandante lo sapeva bene, almeno da 15 giorni, che a Capodanno nessuno avrebbe aderito per protesta allo straordinario. Come sa bene che ormai a Roma solo così si coprono i servizi per strada. Perché adesso si stupisce tanto, dandoci dei disertori?». 
Sergio Fabrizi, con cui sono al telefono ora e che è un amico del blog, è uno degli agenti che ha rinunciato a lavorare oltre i normali turni. Oggi ha dato un'intervista anche al "Corriere della Sera", p. 4 nazionale. 
"Lo stipendio non basta più a nessuno e i lavoratori sono arrabbiati". "L'anno scorso abbiamo evitato forme di proteste come queste, ma oggi le cose sono andate per conto loro". Sergio è un sindacalista, lontano ideologicamente da chi tiene questo blog, ma persona seria e impegnata (e lavora normalmente in servizio). E' coordinatore Ugl nel I gruppo Trevi. «Siamo in tanti ad aver rinunciato allo straordinario - dice - Ricordatevi che è un lavoro volontario, nessuno può costringere i vigili ad aderirvi. I romani devono sapere perché lo facciamo: perché siamo pesantemente sotto organico, dovremmo essere 8.350 e invece gli effettivi sono 5.600. Perché il sindaco blocca un concorso per 300 agenti e ci sono grosse difficoltà». Ma non è solo per questo. Da settimane - per non dire dall’inizio del mandato di Ignazio Marino - lo scontro fra vigili e Campidoglio, e di riflesso anche con il comandante del Corpo Raffaele Clemente (poliziotto nominato nell’ottobre 2013), si è trasformato in una lotta dura.

«Qui è stata stravolta la norma nazionale che prevede anche rotazione di mansioni e non solo di uffici - dice ancora Sergio -, una discriminazione nei confronti degli agenti. Non siamo ladri. Se c’è stato chi ha sbagliato è giusto che paghi, ma il Corpo è sano. E poi spiegateci come mai il presunto disservizio per Capodanno denunciato dal comandante non è stato ravvisato né dal prefetto, né dal questore e tantomeno dal sindaco». Ma fra gli agenti - in agitazione anche «per il contratto decentrato unilaterale del Comune, approvato con delibera di giunta senza firma dei sindacati, che ci taglia il salario accessorio» -, c’è scetticismo su numeri e percentuali, come l’83,5%, una percentuale strana e inusuale, neanche fosse l'ISTAT. «Hanno fatto un conto unico anche con chi faceva gli straordinari. Il 27 dicembre, ultimo giorno per prenotarsi, non c’era quasi nessuno. Lo sapevano tutti, è uscito anche sui giornali. Il ricorso alla reperibilità d’emergenza non si è mai visto per un concerto di Capodanno in programma da mesi. E gli sms sono arrivati quasi a mezzanotte: “Presentarsi al Gruppo alle 19, c’era scritto”». «L’indagine chiarirà tutto, se ci sono state mele marce ma anche se sono stati commessi abusi», sottolineano ancora i vigili, che si sono recati all'Aquila (ricordano) per il terremoto senza prendere un euro in più e che adesso stanno valutando eventuali azioni legali per difendere il buon nome del Corpo.

venerdì 2 gennaio 2015

UNA NUOVA VITA


Questa storia mi è sembrata molto interessante, ben scritta e abbastanza lontana da come vedo la vita, per poterla pubblicare
La Legione straniera è una delle poche forze militari occidentali composte principalmente da volontari stranieri. Fu fondata circa 200 anni fa per la stessa ragione per cui esiste l’Australia—per dare ai rifiuti della società un nuovo scopo nella vita, idealmente qualcosa che li allontani il più possibile da casa. La Legione ti accoglie, bastano una fedina penale sufficientemente pulita e il superamento delle prove fisiche e psicoattitudinali. In cambio, vieni spedito Dio solo sa dove e ti puoi guadagnare la possibilità di reinventarti.
Nel corso della storia, la Legione ha offerto una seconda occasione a gente che aveva fatto terra bruciata intorno a sé. Per i volontari capaci di sopportare la condizione di legionario c’erano in palio un inizio nuovo di zecca e un’identità fittizia, coronati da un passaporto francese. L’unica fregatura è che devi firmare un contratto da cinque anni e mettere in conto che probabilmente ti spremeranno fino all’ultima goccia, o se non altro vorranno almeno riguadagnare quanto hanno investito su di te.
Convinto di saperne quanto bastava grazie a Fuga all’Inferno di Jean-Claude Van Damme, oggi so che quando decisi di voltare pagina non avevo la più pallida idea di cosa comportasse la vita da legionario. A differenza dell’Esercito Americano, non puoi prendere appuntamento in anticipo e discutere i tuoi piani e i tuoi problemi con un reclutatore dall’aria paterna. Il massimo che puoi fare è presentarti all’ingresso de centro di reclutamento della legione con un documento d'identità e le dita incrociate. Non fraintendetemi—all'epoca non avrei potuto saperne molto di più, per come ero fatto. Lasciai il lavoro, abbandonai l’appartamento e sistemai la maggior parte dei miei beni terreni in un deposito. Ero in forma ed ero convinto. Un biglietto di sola andata, qualche tappa intermedia, e dopo 22 ore di viaggio mi ritrovai ad Aubagne, in Francia.
Dopo qualche birra mi sentivo ricaricato e pronto per una pausa potenzialmente lunga dalla vita reale e libera. Trovai finalmente il coraggio di varcare il cancello. Con me c'erano altri aspiranti legionari: un esile fumatore incallito marocchino e due spagnoli che sembravano usciti dalla versione euro-trash di Fight Club. Subito dopo si unì a noi un russo. C’erano delle ovvie barriere linguistiche, ma una volta ammessi avremmo imparato il francese come parte del programma della Legione. 
Prima di farci entrare, un legionario armato—il primo che vedessi di persona—controllò i  nostri passaporti. La serietà di quella mia decisione alquanto impulsiva stava assumendo contorni reali. Si assicurò rapidamente che ciascuno di noi fosse in grado di fare almeno quattro pull-up affinché nessuno perdesse tempo in seguito. Poi eravamo dentro, in attesa delle selezioni. 
Dopo averci fatto lasciare le nostre cose, ci mostrarono dove avremmo alloggiato—un edificio malandato che rievocava un progetto edilizio del blocco sovietico o una prigione in stile Art Déco.
Le settimane successive furono una raffica di test fisici e medici e un sacco di tempo libero. Lo passavamo dividendoci le poche sigarette a disposizione e parlando del più e del meno. Nel momento in cui sentivi chiamare il tuo nome per il test successivo, correvi ligio come per un’urgenza immaginaria e ti mettevi sull’attenti. Se a un certo punto non passavi un test o usciva fuori un problema medico, ti venivano riconsegnate tutte le tue cose ed eri fuori in pochi minuti.
C’è una vecchia battuta che fa più o meno così: “VENDESI – Fucile francese. Usato un paio di volte, mai per sparare”. Per chi non lo sapesse, la battuta allude alla tendenza dei francesi ad arrendersi e/o a essere occupati da altre nazioni. Come molte altre freddure, gioca su uno stereotipo inesatto—ai tempi di Napoleone nessuno pensava che i soldati francesi fossero incompetenti. Comunque, a mio avviso lo spirito di questa battuta sembra non riguardare gli aspiranti soldati francesi ad Aubagne. Risulta invece che molti di questi ragazzi si prendano piuttosto sul serio.
Il campione di ragazzi che ho conosciuto nella Legione era a dir poco eclettico. Non mi viene in mente un’altra situazione con così tanti rappresentanti di così tante nazioni che non sia una sessione dell’ONU. E le persone che incontri in Legione sono molto più interessanti di quelle che potresti trovare all’ONU. A un certo punto, con l’aiuto di un inefficace linguaggio dei segni e di un “interprete” ancora più inefficace, un egiziano mi chiese di pisciare in un preservativo per lui. Pare che avesse fumato hashish fino a qualche giorno prima e che nel frattempo lo avessero convocato per un test antidroga. Non avendolo mai visto, feci educatamente il finto tonto e declinai. Non l’ho mai più incontrato.

La serie successiva di prove doveva determinare se fossimo abbastanza intelligenti. Prima di tutto ci furono somministrati diversi test attitudinali per valutare la capacità di ragionamento, test che esclusero alcuni dei candidati meno dotati. Seguì un colloquio che era essenzialmente un prolisso “Perché ti vuoi arruolare?” Come in ogni colloquio di lavoro, si trattava di dirgli quello che credevi volessero sentirsi dire. In seguito passammo all'interrogatorio dello psichiatra.

Alla fine, dopo innumerevoli ore passate ad attendere in scomode sale d’attesa, l’unico ostacolo tra noi e un posto in Legione era quel che chiamavano “Gestapo”. Si diceva che a quel punto la Legione sapesse tutto di te—dicevano che per loro raccogliere informazioni sulla tua vita lavorativa, familiare, finanziaria e criminale era un gioco da ragazzi. Sarà, ma secondo me sono stronzate. Cioè, di certo qualcuno da qualche parte ha accesso a tutte queste informazioni, ma un’apatica amministrazione francese in un noioso buco di mondo vicino Marsiglia non è quel qualcuno. Comunque sia, mi chiamarono per un interrogatorio. 

L’idea è quella di intimorirti per farsi raccontare ogni cattiva azione che tu possa aver commesso da quando sei nato. Come tanti poliziotti stronzi prima di loro, usavano la vecchia tattica del “se dici bugie io lo saprò, quindi dimmi la verità e ti lascerò in pace.” Il poliziotto che aveva il compito di interrogarmi aveva davanti a sé il mio computer e cellulare che avevo ormai dimenticato da tempo. In un misto di tempismo e mera fortuna, non avevo niente di troppo scottante da nascondere. Ho sentito storie di foto di nudo un tempo private recensite entusiasticamente, di analisi dettagliate di cronologie di browser e di orientamenti sessuali messi accanitamente alla prova dalla "Gestapo". Nel mio caso, credo che la mia difficoltà col francese sia servita da benedizione: il mio poliziotto sembrava non vedere l’ora che uscissi dal suo ufficio.

Ahimè, alla fine sfociò tutto in uno smistamento puramente soggettivo. 36 tra di noi avevano superato ogni test, ma soltanto 18 potevano essere presi per il vero e proprio training nella remota e misteriosa “Fattoria”. Ero fiducioso, ma non avevo alcuna certezza. Speravo di poter proseguire, eppure una bella bevuta e un letto vero erano comunque molto allettanti. Dietro la porta numero uno c’erano carenza di sonno e punizioni corporali, mentre tra le fessure della porta numero due si irradiava la prospettiva di una vacanza francese. 

Per farla breve, fui scartato senza troppe cerimonie. Mi fu data una quantità di denaro talmente ridicola da sembrare un insulto (anche se in realtà fu una piacevole sorpresa, perché non me l’aspettavo), mi furono restituiti i miei miseri averi e in una manciata di minuti ero di nuovo tornato nei miei soliti panni. Non mi fu data alcuna spiegazione. Solo un “grazie per averci provato, a mai più.”

Adesso posso fare qualche deduzione pacata riguardo chi ce l’ha fatta e chi no. Al di là del fatto che avevamo già passato le selezioni, la scelta finale non aveva niente a che fare con le performance quantificabili durante i vari test. Se eri francese o se avevi esperienze precedenti nella fanteria della tua nazione eri dentro. Quanto al resto dei ragazzi che hanno avuto l’ok, sembravano particolarmente poveri e disperati—venivano da posti con poche alternative e la prospettiva di un salario e un’eventuale cittadinanza francese li avrebbe motivati a sopportare qualsiasi cosa. 

Detto ciò, sono soddisfatto di come sia andata. Ho imparato un po’ di francese e sono rimasto in giro per l’Europa abbastanza a lungo da trovare la mia dimensione. Ora sono a Bucarest, dove la birra costa poco e la mia conoscenza dell’inglese è molto richiesta. Me la intendo anche con una ragazza del posto che non ha nemmeno mai sentito parlare dell’Alabama. Dopotutto non è necessario arruolarsi nella Legione Straniera per iniziare una nuova vita.

Simon Bennett