lunedì 6 novembre 2017

CRONACHE DALLA RIVOLUZIONE 3

Dopo la partenza della missione diplomatica italiana da Pietrogrado, il consolato italiano fu posto alle dipendenze della legazione svizzera funzionando come II sezione dell’ambasciata. Pirone fu aiutato nel suo lavoro da Angelo Fratini, un italiano che viveva a Pietrogrado da molti anni e che sarebbe rimasto, da vice presidente della comunità italiana, anche dopo la conclusione della guerra civile, e da Giacomo Bastucchi. Essi cercarono di proteggere, tra l’altro, anche gli interessi dei pochi greci del Dodecaneso «contro l’applicazione di tasse di guerra, contribuzioni per la rivoluzione, leggi fiscali sul lavoro obbligatorio» e se in questo si riuscì sempre nell’intento, molto «più difficile fu lottare contro la confisca di beni terrieri in provincia o di esercizi di vendita in città: confische che rivestirono spesso il carattere di violenta rapina».
Come a Mosca, anche a Pietrogrado, del resto, l’attitudine delle autorità bolsceviche verso gli stranieri peggiorava con i mutamenti della situazione politica e strategica in Russia e quando ai primi di luglio del 1918 scoppiò a Pietrogrado la rivolta armata dei socialisti-rivoluzionari, prontamente repressa, Zinov’ev, («altro ebreo, di cognome Apfelbaum», commentò Pirone), e il capo della Čeka Urickij ricevettero poteri straordinari, divenendo in pratica i veri padroni. Cominciò anche lì «il periodo terribile dell’estate – autunno 1918: una sequela di delitti impressionanti, di violenze, di vendette».  Pietrogrado «che durante la guerra aveva visto pulsare più intensa la sua vita; che durante la rivoluzione parve presa in un turbine di follia, col terrore cominciò a morire: decadde, si spopolò, tra gli arresti e l’esodo della popolazione, cambiò aspetto, divenne tetra, soffocante [...]. Cadevano morti per fame i cavalli delle vetture, sempre più rare, e le carogne abbandonate, furono dapprima preda dei cani, più tardi degli uomini [...]. Spesso, con gli animali, cadevano per fame gli uomini; ma a questi si badava meno. I rari passanti, se della vecchia società, si riconoscevano al portamento signorile [...]; se della nuova borghesia dei soviety, la «sovbur», spiccavano per lo sguardo sfacciato ed insolente e assai più per i lineamenti tipici della razza ebraica, per il viso completamente raso e quegli occhiali a stanghetta, che non so se fossero moda o camuffamento di tutti gli ebrei del partito comunista». Raffaele Pirone ricorda, poi, che a partire dall’attentato a Lenin «la violenza vendicativa dei bolscevichi non ebbe più limiti: [...] migliaia di vittime cristiane furono sacrificate ai mani di Urickij ebreo; barconi interi di arrestati furono affondati allo sbocco della Neva fra Pietrogrado e Kronštadt; centinaia di inermi, ammassati sulla spiaggia di Oranienbaum e massacrati con le mitragliatrici». Il 4 settembre (il 31 agosto, secondo Pirone), poi, fu invasa l’Ambasciata britannica di Pietrogrado, fatto che costò la vita dell’addetto navale, il capitano F.A. Cromie, mentre lo stato maggiore del consolato britannico e della missione fu arrestato. «Ricordo», stigmatizzò da Mosca Majoni, «il gatto schiacciato dall’autocarro, fra le esclamazioni di commiserazione della folla. Il cadavere dell’ufficiale dilaniato non suscita invece nemmeno un timido richiamo al più elementare senso di umanità». I funerali, che si svolsero il 6 settembre, segnarono una nuova svolta negativa, perché da quel giorno «tutti i consoli cominciarono ad esser pedinati». 
I diplomatici rimasti in città poterono poco: essi si recarono ripetutamente da Zinov’ev per protestare contro la violazione del diritto internazionale (molto significativo fu il fatto che le legazioni di Germania e Austria-Ungheria si unirono alla protesta), ma non riuscirono a ottenere la liberazione dei cittadini stranieri arrestati. Fu quello il momento in cui moltissimi italiani, decisi a restare in Russia nonostante la rivoluzione, furono infine «presi dalla febbre della partenza».
Coinvolto in prima persona anche negli affetti Pirone, che conosceva la Russia dal di dentro per avervi abitato diversi anni, cercò di leggere gli avvenimenti dando loro una spiegazione non contingente, ma di principio, proprio com’è abitudine dei russi dai quali, in parte, raccolse il giudizio, sebbene con alcune varianti. Egli, infatti, attribuì lo scoppio del terrore «all’odio degli ebrei per la Russia, da cui non avevano avuto che ingiustizie ed oppressione; e se ne adduceva a fondamento il fatto che gli autori del colpo di mano di ottobre fossero quasi tutti ebrei, proscritti o perseguitati dal regime zarista», ed era possibile, aggiungeva il console di Avellino, «che in ciò vi sia del vero», ma al contrario dei russi vide anche nel comportamento «agnostico» delle Potenze un contribuito decisivo all’ascesa dei bolscevichi dopo il 7 novembre: «se, invece della solita politica del fare e non fare, i governi occidentali l’avessero davvero rotta con la Russia, ma di un colpo, e seguendo una linea concorde; e se, infine, invece di tentare di uccidere il mostro con irritanti ferite, avessero pensato veramente al colpo mortale, forse il terrore non sarebbe stato quello che fu: lo scatenamento della più cieca e cinica barbarie. Io che ho assistito a strazi, dolori, rovine inenarrabili, ritengo che migliaia di vittime sarebbero state risparmiate, molte rovine evitate, se dal 1918 i bolscevichi non fossero rimasti senza controllo, assoluti padroni di una terra immensa». Il grave giudizio, dettato dall’emotività di chi ha vissuto in prima persona quelle vicende, attribuisce agli Alleati facoltà che essi non ebbero (decidere con la loro azione i destini di un Paese), né tiene conto di alcune contingenze ben precise in parte già osservate ma che è bene ripetere: tra il 1917 e il 1918 la guerra mondiale influì in modo profondo sulla politica delle Potenze, le quali non potendo concentrare gli sforzi nelle vicende russe, furono costrette ad agire in una situazione geopolitica poco chiara. Per loro, come si è già evidenziato, era fondamentale la prosecuzione della guerra da parte della Russia, ma quando questa firmò la pace con la Germania, la paura che i bolscevichi si trasformassero in pedine in mano al nemico condizionò nuovamente le decisioni degli uomini dell’Intesa. Le Potenze, inoltre, si trovavano ad agire in una terra che diventava per loro sempre più ostile, ed erano impossibilitate a usare i loro eserciti, impegnati altrove; cercarono, quindi, di appoggiare quelle forze russe che contrastavano i bolscevichi dal di dentro, senza, peraltro, riuscire a proteggerle in modo decisivo. I fronti, inoltre, come i governi in Russia in quel periodo, erano molteplici e poco chiara la situazione di vaste regioni come il Caucaso, occupato nel 1918 dai tedeschi, o l’Ucraina, divisa tra tedeschi, bolscevichi e truppe leali al governo provvisorio di Kerenskij, o i Paesi baltici. Le Potenze, insomma, non solo non poterono agire in modo deciso durante l’ultimo anno di guerra per cercare di destabilizzare il regime sovietico ma non poterono intervenire neanche dopo il novembre 1918 in quanto nessuno era disposto a impegnarsi in un nuovo conflitto dopo quattro anni di tragedie mentre anche l’epidemia di febbre spagnola, che mieté milioni di vittime, contribuì ad allargare i margini  della catastrofe europea. Si perse in tal modo nuovamente del tempo prezioso e quando, infine, il regime bolscevico si stabilizzò, furono troppi gli uomini politici, specialmente di sinistra, che a ovest descrissero, in buona o cattiva fede, la nuova realtà come un sistema diverso da quello che era, suscitando in alcuni strati della società europea infondate speranze e in altri, forse, insperati allarmi.

Il giudizio di Pirone appare dettato dalla disperazione di chi si sentì abbandonato dai suoi superiori e visse in prima persona le drammatiche esperienze della guerra civile russa. L’autunno del 1918, poi, segnò l’inizio di nuovi e più drammatici avvenimenti. Dopo aver saccheggiato i palazzi dell’aristocrazia, racconta Pirone nelle sue memorie, «i proletari si dettero alla distruzione delle case di legno, per ricavarne il legname, che vendevano poi a prezzi favolosi e sempre più alti con l’incalzare del freddo. L’inverno del 1918 – 1919! Un inverno senza luce: mancava elettricità per mancanza di combustibile; mancava il petrolio; le candele steariche, una rarità, [...] si mangiavano invece del grasso [...]. Che non si mangiò allora! La putrida carne di cavallo era una ghiottoneria. L’olio di ricino rancido, che una cooperativa straniera [...] vendeva a prezzo d’oro, era un grasso ricercatissimo. Cereali non ve ne erano. Il pane, un tritume di paglia, segatura di legno e crusca, non si aveva tutti i giorni. Le patate fradice andavano a ruba». Convinto di poter comunque lasciare Pietrogrado, dopo l’evacuazione di un congruo numero di italiani avvenuta verso la fine del 1918 Pirone si rese conto di essere divenuto un ostaggio «sia per gli italiani partiti, sia per gli atti di ostilità che l’Italia compiva verso la Russia con l’occupazione insieme agli ex alleati di Arkangel’sk e la partecipazione dei nostri soldati, partiti per la Siberia, alle mosse di Kolčak».
Con il 1919 Pietrogrado la situazione di Pietrogrado peggiorò ulteriormente, tanto che all’inizio di febbraio fu abbandonata anche dalle rappresentanze dei paesi neutrali; partì, con esse, la legazione svizzera e solo i pochi consoli «o piuttosto una finzione di corpo consolare», commenta Pirone, «rimasero ormai il tenue filo che legava ufficiosamente i bolscevichi all’Europa». Prima di partire l’ambasciatore svizzero Jounod convocò i rappresentanti consolari di Italia, Belgio, Gran Bretagna e Olanda per un incontro con il rappresentante del commissariato agli Esteri della comune di Pietrogrado, Šlovskij, che chiese ufficialmente il riconoscimento del governo rivoluzionario. Questi parlò anche di una tassa di guerra da applicare agli stranieri, abbastanza onerosa e diversa a seconda si trattasse o meno di appartenenti a uno stato belligerante. Šlovskij promise la sicurezza degli immobili e delle persone e Pirone ebbe l’impressione che questi «volesse trattare con noi a ogni costo e con ogni mezzo». Gli sembrò anche che la Svizzera, in definitiva, non era aliena all’idea di entrare in trattative con il governo bolscevico «e non con il solo scopo di compenso per l’esonero degli svizzeri dalla tassa straordinaria». A distanza di poche ore, però, Pirone mandava un’ulteriore e più drammatica nota a Roma dove parlava della soppressione morale «di ogni libertà umana» e di una vita «ridotta a una primitività che fa pensare all’uomo delle caverne». Pietrogrado «è squallore, miseria, desolazione, rovina; vi si muore di fame e freddo più che di tifo petecchiale e vaiolo», mentre il prezzo degli alimenti era salito ad altezze inverosimili. I negozi, per la maggior parte, erano stati requisiti e chiusi e la merce confiscata era finita al mercato nero. Il denaro latitava in quanto il sistema bancario era bloccato e continuava una certa fuga di capitale all’estero. Fu quella, commenta Pirone, «l’epoca in cui le autorità stesse divennero rigidissime in fatto di partenze degli stranieri, ciò che contribuì a rendere la posizione di molti nazionali quanto mai critica». Restavano a Pietrogrado una trentina di famiglie, circa 150 persone, per lo più «malate o rovinate dalle sofferenze e dalle privazioni che non sono assolutamente in condizione di tentare un lungo viaggio». In questo contesto il console rammenta che la società di beneficenza di Pietroburgo di cui era presidente aveva esaurito i fondi «dopo aver per cinquant’anni esplicato un’opera altamente patriottica e filantropica, per la quale non vi saranno mai lodi sufficienti». 
Nei mesi successivi la realtà della Russia si incupì ulteriormente. Nel marzo 1919 Pirone si ammalò; fu dapprima colpito da una retinite all’occhio sinistro, quindi da un attacco di appendicite. Ciò nonostante il medico e console italiano continuava il lavoro, dopo essere riuscito ad ottenere dal rappresentante a Pietrogrado del commissariato agli Esteri nuove immunità per sé e per il consolato e dal commissiariato agli Approvvigionamenti il permesso per gli italiani di acquistare mensilmente viveri nelle cooperative sovietiche attraverso una tessera. «Mi vedevo talvolta al consolato», ricorda Pirone, «facce sospette di ebrei, che venivano a domandarmi le cose più insignificanti; altra volta mi accorgevo per via di essere pedinato. Non vi era notte senza perquisizioni, arresti di conoscenti o amici, con interrogazioni dirette o indirette sulle relazioni con me». I sospetti del console si rivelarono esatti e dopo qualche tempo i bolscevichi, in risposta all’offensiva delle truppe bianche contro Pietrogrado cominciata il 13 maggio, decisero di procurarsi dei nuovi ostaggi. Il 2 giugno 1919 Pirone e gli altri consoli alleati rimasti a Pietrogrado furono arrestati dalla Čeka. Di ritorno dall’Istituto, egli trovò l’abitazione piena di agenti diretti da un uomo e una donna, «faccia e  portamento degli ebrei di bassa provenienza: lui era il commissario, lei era la segretaria, interprete, non so». Nel corso della perquisizione che seguì furono trovate, tra l’altro, minute di articoli scientifici scritti da Pirone, oltre che in italiano, in tedesco, francese e inglese; anche in questo caso il medico italiano non nasconde la propria attitudine verso i bolscevichi: «Mi domanda perché scrivessi in tante lingue oltre il russo; e poi perché avessi tanti libri stranieri, e tante vedute, e carte geografiche di vari Paesi. Era la curiosità dell’inquisitore, o quella dell’ebreo vissuto fino allora in qualche oscuro fondaco di rigattiere, e portato di botto alla luce del giorno dai confratelli della rivoluzione bolscevica?». Mentre la perquisizione procedeva anche il vice console Angelo Fratini fu condotto con la forza in casa di Pirone e fino al 4 giugno entrambi furono trattenuti in casa mentre il consolato italiano veniva saccheggiato. Una collega di Pirone, la dottoressa Nakonečnaja, che sarebbe divenuta in seguito la sua seconda moglie, fu arrestata, mentre lo stesso medico italiano, dopo un ennesimo attacco di appendicite, fu trasferito in un ospedale per essere operato dal suo amico, il dottor Gol’dberg, dove ebbe modo di conoscere la figlia di un degente suo vicino di letto; la descrizione che egli fa di un colloquio con lei merita di essere riletta: «Era una israelita e, come molti correligionari, lontana dalla sinagoga; ma lontana pure dal tempio di Cristo. Sentiva, però, l’aridità del suo spirito ed il bisogno di sollevarsi; e non nascondeva la sua poca simpatia per le idee del padre: un rigido sionista ed osservante al punto da imporre al figlio, fidanzatosi con una ortodossa, che questa passasse all’ebraismo per essere degna di entrare nella casa loro. Parlammo dell’Italia, di Roma, dove lei sognava di andare per vedere soprattutto San Pietro, i musei vaticani e il papa, specialmente questi. Chissà, forse perché il padre affermava che i papi erano stati assai più remissivi verso gli ebrei di molti liberalissimi príncipi?». 
Nonostante l’interessamento dell’Istituto dove lavorava, dell’Accademia delle scienze e dell’associazione dei medici russi, Pirone non fu rilasciato e poco dopo l’operazione, il 28 giugno, fu prelevato dalla polizia politica e portato al carcere della Spalernaja. Ancora convalescente fu rinchiuso in una cella di isolamento le cui pareti erano «muffite, sozze; un telaio di ferro fissato al muro con su un lurido sacco era il giaciglio; uno sgabello di ferro pure attaccato al muro; in un angolo del pavimento una buca aperta da cui esalava un fetore pestilenziale [...]. Guardai il sacco prima di buttarmici su, formicolava di insetti». L’infermiere che lo venne a trovare poco dopo il suo ingresso era «un ebreo; guardò attorno nella cella e mi domandò, prima di tutto, perché avessi gettato via il pagliericcio; gli feci vedere che era pieno di insetti; egli scattò violento e mi disse che ero in carcere, e non in un sito di villeggiatura, dove mi sarei potuto far passare i miei capricci borghesi». 
Nonostante l’accoglienza, in pochi giorni Pirone riuscì a farsi trasferire nell’infermeria del carcere, dove incontrò personaggi a lui noti, tra cui un vecchio funzionario del regime zarista, un chirurgo professore della Facoltà di Medicina, il lettore di inglese della facoltà di Lingue e un «professore dell’Istituto elettrotecnico, vittima di un suo ex alunno ebreo, diventato uno dei più duri commissari della Ceka». 
All’inizio di luglio Pirone fu trasferito assieme ad altri reclusi a Mosca. Il viaggio, in condizioni estreme, durò tre giorni, dal 6 al 9, finché il convoglio di prigionieri giunse in un sobborgo della capitale, il campo di Novopeskovskij; questo «campo deposito» somiglia, nella descrizione di Pirone, a tutti i campi di concentramento che a diverse latitudini e in periodi differenti del secolo appena trascorso hanno segnato le vite di tanti uomini: «era un fabbricato mezzo diruto che, durante la guerra, era stato un lazzaretto per disinfezioni; e conservava della primitiva destinazione una stufa a vapore, un bagno a doccia e la conduttura d’acqua. Il dormitorio era un’unica sala, malridotta, che avrebbe potuto contenere forse duecento persone, ma dovette accoglierne più di quattrocento». La permanenza in questo lager non durò molto e già il 14 luglio il medico fu trasferito, senza un processo o una precisa accusa ai lavori forzati al campo dell’Andronevskij Monastyr, uno dei monasteri più antichi di Mosca, trasformato dai bolscevichi prima in caserma, quindi in campo di concentramento. «Nel 1919», ha scritto Solženicyn, «ramazzando intorno a veri e presunti complotti [...] a Mosca, a Pietrogrado e altre città si fucilava secondo elenchi (ossia si prendeva chiunque, direttamente, per la fucilazione) e si rastrellava l’intelligencija cosiddetta paracadetta», ossia «tutta la cerchia scientifica, universitaria, artistica e letteraria». Pirone, però, si salvò grazie alla sua professione; svolse all’interno del campo le mansioni di medico, arrivando a percepire un paradossale salario «da quel governo che, in nome della stessa legge, mi aveva privato della libertà e depredato di tutto». Per i reclusi, del resto, la vita inizialmente non fu molto dura; le donne e gli uomini dai 18 ai 52 anni, infatti, cominciavano il lavoro dopo le otto indistintamente dentro o fuori dal campo. Si pulivano i cortili, i viali del cimitero, si andava in città a comprare, o a cercare, le cose più diverse «specialità dei reclusi ebrei», commenta Pirone, «che sapevano far sorgere ogni giorno nuove necessità per tentare di uscire». L’amministrazione cittadina, comunque, richiedeva anche uomini di fatica per le stazioni ferroviarie o i mercati, che erano forniti dal campo di concentramento. Tutto questo, però, durò pochi mesi: il liberalismo delle autorità, infatti, era direttamente proporzionale alla situazione militare, e a ogni avanzata delle truppe bianche, tanto a sud sotto la guida di Denikin, quanto a nord con Judevic, corrispondeva un giro di vite nei confronti dei prigionieri. A peggiorare le cose si aggiunse l’epidemia di tifo che colpì il campo a partire dalla fine del luglio 1919.  
In qualità di medico Pirone ebbe modo di conoscere tutti gli uomini del GULag, tra i quali si distingueva «il fior fiore dell’aristocrazia russa» o, almeno, il fiore che non era riuscito ad emigrare in tempo. Tra gli altri sono ricordati un principe Dolgorukij, un Gorčakov, un Volkonskij, un Gagarin e un Šerinskij – Šachmatov. Vi erano anche governatori di provincia, generali e ammiragli, magistrati, senatori, professori universitari, industriali. Era l’inizio di quella grande purga che avrebbe colpito dapprima la società russa, quindi lo stesso partito bolscevico, per trasformare il Paese in altro da sé nel giro di un paio di lustri. Si colpì, dunque, la base sociale più solida, il nucleo produttivo e intellettuale, per sostituirlo con la nuova leva di direttori – burocrati, i futuri uomini del regime stalinista o, per dirla con Milovan Gilas, la «nuova classe». Quando Denikin prese ad avanzare, il campo si riempì ulteriormente di nuovi arrivati, tutti «testimoni di strazi, di uccisioni, di orrori», tra cui «i più avevano anche subito sevizie inaudite».
La precaria situazione e il clima generale sempre più cupo influirono direttamente sui giudizi di Pirone in merito agli ebrei russi: se fino a poche settimane prima vedeva in essi i principali capi della rivoluzione, il GULag gli sottopose soggetti diversi, come un certo Israil Haikin, che «veniva dalla zona di confino degli ebrei; era proprio uno di quei paria della sua razza di cui vi erano in Russia più di quanto non si credesse. Conosceva gli orrori dei pogromy ed era fuggito con la moglie e i figlioletti dinanzi al saccheggio della sua terra da parte dei russi, che gli avevano tolto ogni cosa e gli avevano ucciso perfino il vecchio padre». Gli ebrei prigionieri, secondo Pirone, finirono per creare una rete di informazioni in grado di riportare con una certa correttezza quanto stesse accadendo al fronte; oltre a loro, comunque, era indice degli sviluppi esterni la stessa frequenza con la quale venivano condotti nuovi reclusi, il cui numero cresceva proporzionalmente ai successi dei bolscevichi. Si giungeva, a volte, alla paradossale situazione per la quale l’aumento della sorveglianza e del rigore era salutato dai prigionieri come l’indice di una prossima probabile liberazione, mentre la mollezza e l’indisciplina come il segno che tutto fosse passato e che sarebbe tornato l’ordine rivoluzionario. 
Verso la fine dell’estate la gestione dei campi di concentramento passò direttamente in mano alla Čeka e tutto cambiò: furono introdotte nuove regole, fu vietato il lavoro esterno e fu avviata una certa campagna propagandistica tesa al «recupero» dei borghesi e degli aristocratici che attraverso il duro lavoro avrebbero «finalmente» compreso la realtà della nuova società socialista. In ogni angolo dei GULag comparve perfino la frase, firmata «Lenin», «kto ne rabotaet, tot ne est», ossia «chi non lavora non mangia», in un Paese dove «mangiare» diventava comunque ogni giorno più complicato.  In quel periodo il campo divenne qualcosa «fra la casa di pena, il domicilio coatto, i lavori forzati, la casa di correzione, il deposito temporaneo di giudicabili», dove si trovavano insieme politici e delinquenti comuni, civili e prigionieri di guerra, «galantuomini e omicidi e ladri, gentildonne e prostitute», ma Pirone non poté più seguire l’evoluzione di quella realtà perché il 22 agosto giunse per lui l’ordine di trasferimento in un nuovo monastero moscovita, l’Ivanovskij, fondato nel XVI secolo sotto il gran principe Vasilij III. 
La situazione che l’ormai ex console italiano incontrò nel nuovo GULag, dove avevano stazionato Fratini e Bastucchi, liberati prima del suo arrivo,  era notevolmente peggiore rispetto a quella lasciata all’Andronevskij; il campo era sporco oltre ogni limite e la gente, polacchi, inglesi, americani, serbi, romeni, svizzeri, francesi, cechi e slovacchi, dormiva per terra in mezzo ai rifiuti e all’umidità. Pirone era lì da pochi giorni quando la pessima situazione sanitaria impose l’inizio di una  vaccinazione di massa tra la popolazione carceraria, in quanto le epidemie di  tifo e colera scoppiate a Mosca si erano ormai estese anche al campo. All’inizio di ottobre, poi, si assisté a un nuovo giro di vite. Il 28 settembre 1919 le truppe bianche comandate dal generale Judenič lanciarono una possente controffensiva dall’Estonia e riuscirono a conquistare i sobborghi di Pietrogrado. La situazione nel campo divenne pessima, in quanto i bolscevichi annunciarono, in caso di sconfitta, una rappresaglia nei confronti dei detenuti. Il 15 ottobre l’ufficio politico del comitato centrale del Partito comunista russo bolscevico ordinò alle truppe impegnate nella difesa della città di non arrendersi, mentre il 19 ottobre fu pubblicato l’appello di Lenin «Agli operai e ai soldati della guardia rossa di Pietrogrado» nel quale il capo bolscevico chiedeva di resistere fino all’ultima goccia di sangue. Il 21 ottobre, infine, cominciò la controffensiva bolscevica, che si concluse con una schiacciante vittoria sulle truppe bianche. Come previsto, gli arresti e le esecuzioni sommarie si moltiplicarono e i campi di concentramento si gonfiarono di nuovi inquilini: «Con i soldati e ufficiali di Denikin sempre affamati, laceri, disfatti fisicamente e moralmente, cominciarono a venire da Kronštadt, dalle frontiere della Finlandia, da Luga, da Pskov ostaggi in gran numero, in massima parte donne. Vedove e orfane di ufficiali di marina, uccisi a Kronštadt, le quali dovevano aver conosciuto chi sa quali orrori della fame, per trovare un tesoro il nostro già scarso e orribile cibo [...]. E poi vecchie cadenti e bambini che non sapevano neppure dire dove fossero e perché; e contadine della Carelia, che spesso non parlavano una parola di russo. Fra queste, una aveva un bambino di poco più di una settimana che le agonizzava fra le braccia per il freddo e la fame». Il numero dei prigionieri del campo triplicò in breve tempo e tutto prese l’aspetto di «qualcosa tra la fiera, la piazza, il marciapiede e talora la bolgia, in cui una accozzaglia di gente si moveva, si agitava, si esprimeva nei più diversi modi e nelle più diverse lingue». Gli uomini e le donne presenti provenivano dalle parti più lontane di quello che era stato l’Impero russo ed erano di nazionalità e astrazione sociale le più diverse: «[...] ebrei e tartari; armeni e russi; polacchi, ucraini, stranieri; ufficiali con la divisa a brandelli e borghesi stracciati; monaci e preti, vecchi gentiluomini che conservavano, sotto i vestiti laceri, residui di nobiltà nel portamento, e sfacciati bolscevichi che male nascondevano, sotto la divisa delle guardie rosse, la loro criminalità [...]. E fra le donne: donne del popolo sguaiate e sciatte e dame della vecchia aristocrazia compassate e raccolte nei loro cenci; contadine del litorale estone-finlandese [...] e delle province baltiche; ucraine nei loro costumi e signore della nobiltà polacca; propietarie di campagna della Siberia e operaie della città; suore di carità e donne equivoche; e poi artiste, letterate, studentesse [...]». Nel giro di pochi giorni quelle persone diventarono «anime a nudo» impegnate in «bassezze morali e viltà», in «manifestazioni di egoismo brutale», mentre dilagavano «immoralità e vizio [...] nelle forme più basse e senza ritegno dal fondo della putredine»

martedì 24 ottobre 2017

CRONACHE DALLA RIVOLUZIONE 2

La missione militare italiana

Accanto alla diplomazia italiana, i membri della missione militare guidata dal generale Giovanni Longhena Romei svolsero un ruolo non secondario, distinguendosi per una certa capacità analitica e una professionalità che, salvo rare eccezioni, consentì loro di limitare l’osservazione quasi asettica alla sola evoluzione degli avvenimenti, senza nulla aggiungere di quanto, se non dimostrabile, avrebbe potuto insinuare la sostanza delle loro parole. 
Romei, che si trovava a Stavka, sede dello Stato maggiore dell’esercito russo fedele al governo provvisorio, fu informato del rivolgimento dal capitano Laderghi Ruggeri, presente nella capitale; era il 6 novembre quando questi gli comunicò l’inizio del movimento massimalista e il prossimo arresto dei membri del governo provvisorio. Il 7 parlò dell’occupazione di alcune stazioni ferroviarie e delle banche e anche di «pochi torbidi», quindi di «barricate e fucilate». Le truppe bolsceviche «hanno occupato e presidiano centro della vita. Loro automitragliatrici blindate percorrono le vie della città. Deboli tentativi di resistenza». Anzi, «situazione resa più angosciosa e ne accresce l’importanza il fatto che con sopraggiunti elementi massimalisti operano oltre elementi tedeschi anche elementi monarchici russi e reazionari». Il 10 novembre Ruggeri telegrafò al superiore l’avvenuta conquista della capitale: «massimalisti sono padroni tutti centri di vita. Qualche fucilata ed esplosione di panico», quindi il giorno dopo lo ragguagliò degli ulteriori sviluppi: «Non circolano che proclami del partito massimalista. Riesce pertanto difficile rendersi contro della situazione analoga a quella d’una città assediata. Tuttavia partito massimalista si rivela incapace mantenere potere e troppo debole per opporre resistenza a truppe del governo se queste agiranno. Tutta opinione pubblica si mostra contraria ai massimalisti [...]. Alcuni reparti che erano massimalisti hanno dichiarato che aderivano a movimento delle truppe del governo [...]. Corre voce che direzione massimalista tra cui Lenin e Trockij tentino fuggire [...]. Nei sobborghi combattimenti fomentati da operai e da teppisti». Poi, il 12, in modo enfatico: «In città panico e disordini causati da teppisti. Le vie d’accesso a Pietrogrado sono presidiate da truppe massimaliste [...] decisi di battersi sino la raggiungimento del loro scopo». Il 13 si parla ancora di lievi disordini causati da «teppisti», mentre «le banche, i telefoni e altri importanti centri della vita pubblica hanno cessato di funzionare». Ruggeri comunica l’imminente arrivo di forze governative, ma ne ignora la consistenza, mentre il 14 registrò la «paralisi quali completa della vita pubblica». Costretto per motivi burocratici a recarsi allo Smol’nyj, cautelativamente in borghese, raccolse in quei giorni anche alcune informazioni dirette sulle intenzioni dei bolscevichi, che sembravano desiderare una pace separata e speravano che il loro «trionfo possa agevolare causa del proletariato contro capitalismo in Germania et Austria». Se dopo più di una settimana sembrava essersi stabilizzata solo l’incertezza («situazione generale invariata. Massimalisti tengono città in loro potere malgrado ostilità maggioranza popolazione e agitazioni alcuni comitati tra cui attivissima la Duma cittadina», scriveva Ruggeri), la necessità di continuare in qualche modo il lavoro e la comunicazione con i comandi supremi costrinse i rappresentanti delle missioni militari alleate a riunirsi il 16 novembre a Pietrogrado per trovare il modo di entrare in «relazione con partito massimalista perché questo permetta senza diritto veto e senza controllo scambi telegrammi delle missioni militari e dello stato maggiore russo tra Stavka e Pietrogrado et estero». 

Le prime difficoltà 

Pirone, con i militari italiani, fu tra i pochi a comprendere che i bolscevichi costituissero già dai primi giorni di novembre «l’unico gruppo di gente mossa da un ideale concreto da raggiungere, al quale erano riusciti a far aderire quanti si poteva della pesante, inerte massa dei soldati e dei contadini». Fin dal principio «vi fu chi altezzosamente manifestava per essi il disprezzo che i russi sentono per gli ebrei, ed ebrei erano quasi tutti i capi del colpo bolscevico [...]. E non si pensava che questi ebrei erano audacissimi; che da circa un anno lavoravano per impadronirsi del potere; che presolo, mostrarono immediatamente una volontà ferrea, ed una energia di cui da tempo non si aveva esempio». La mattina dell’8 novembre era possibile vedere nel centro di Pietrogrado i segni della violenza: «gli edifizi pubblici, il Palazzo imperiale in particolare modo, avevano i vetri infranti, le facciate crivellate di colpi: per le strade, sui marciapiedi, lungo le case, macchie e grumi di sangue congelato [...]. La città pareva morta; chiusi i magazzini, le vie deserte: s’incontravano solo gruppi, o pattuglie di marinai armati, qualcuno ancora ubriaco o ferito, i quali sui ponti, o ai crocicchi delle strade principali, fermavano i passanti, per domandare loro i documenti, perquisirli, arrestare i sospetti». 

I bolscevichi manifestarono nei giorni immediatamente successivi al rivolgimento del 7 novembre una particolare insofferenza nei confronti degli stranieri, indistintamente dalla loro nazionalità, che venivano fermati con ogni pretesto, condotti presso la sede dei Soviet e rilasciati dopo l’interessamento della relativa ambasciata; la dinamica veniva usata dagli estremisti per essere avvicinati dai rappresentanti delle Potenze europee che si erano rifiutate di riconoscere il loro governo e Pirone fu costretto a recarsi ripetutamente allo Smol’nyj per parlamentare la liberazione di alcuni connazionali, non mancando in ogni circostanza di marcare la propria attitudine verso gli ebrei. «Com’era cambiato» afferma Pirone dello Smol’nyj; «Nell’ampio e solitario cortile non più l’aria di pace e tranquillità dei giorni antichi; ma cannoni e mitragliatrici. Nel porticato, qualche cosa fra la caserma ed il bivacco, un’aria greve e triste; marinai e soldati armati, la più parte facce da criminali [...]. In un angolo un tavolino; seduta ad esso un’ebrea [...] verificava i documenti di coloro che avevano bisogno di penetrare in quella bolgia». La prima volta che si incontrò con M. C. Urickij, vice di Trockij e futuro capo della VČK (meglio nota come Čeka), lo descrisse come un uomo «piccolo, deforme, lo sguardo duro e maligno, i lineamenti e il parlare tipico degli ebrei di bassa provenienza, con un’aria tra sprezzante ed ironica». Dopo qualche settimana conobbe Trockij, sempre allo Smol’nyj e ancora in occasione di una protesta ufficiale a seguito di un saccheggio perpetrato nei confronti della casa di un segretario dell’Ambasciata italiana. Il capo bolscevico lo accolse «con una certa garbatezza, pur conservando una fisionomia tra accigliata e contratta, che metteva in maggior rilievo i tratti della stirpe. Urickij, con la sua improntitudine, aveva finito per mettermi di buon umore; Trockij mi ispirò una istantanea ripugnanza [...]. I suoi occhi neri, piccoli, mobili, che non fissavano, sfuggivano anzi il mio sguardo; l’accenno di sorriso tra ironico e maligno, che errava sulle sue labbra, quando parlava ed accentuava la durezza della sua fisionomia, mi parvero in tale contraddizione con quel che diceva, che mi affrettai a porre termine alla visita». Centro temporaneo della vita politica della Russia, lo Smol’nyj fu visitato in quei giorni anche da Taliani, per ricevere dalle autorità bolsceviche il permesso di condurre l’auto in città: «Facce sulla porta. Uomini di mezza età dalle lunghe barbe, facchini mongoli, rivenduglioli ebrei, donne discinte che si agitano chiamandosi con un urlo». 
Sinossi del clima che in quel periodo si respirava un po’ ovunque in Europa, a prescindere dalla longitudine o dalla nazionalità di chi scriveva, simili giudizi razziali apparvero in quei giorni in Italia con una certa enfasi sulle colonne de «il Popolo d’Italia». L’11 novembre 1917 Mussolini si esprimeva nei confronti dei fatti appena accaduti: «A Pietrogrado è tornato Lenin, o altrimenti detto Uljanov o, col vero nome di battesimo e di razza, Ceorbaum. Colla odierna rivolta dei massimalisti la Germania ha conquistato senza colpo ferire Pietrogrado. Gli altri tre signori che compongono la tetrarchia bolscevica hanno questi nomi: Apfelbaum, Rosenfeld, Bronstein. Siamo, come ognuno vede, in piena, autentica tedescheria [...]. L’avvento al potere degli estremisti russi può significare la pace separata. In fondo questa pace separata è ormai un fatto compiuto, dal momento che i soldati russi invece di battersi tengono dei comizi o fraternizzano coi tedeschi [...] non v’è dubbio che il movimento massimalista a Pietrogrado è ispirato, sovvenzionato, armato dalla Germania. Non v’è dubbio che la Germania difenderà con tutti i mezzi il colpo di stato di Lenin». Il 3 dicembre 1917 così parlò di Nikolaj Vasil'evič Krylenko, da poco diventato commissario della guerra e chiamato il napoleone della viltà: «Meravigliosa carriera quella dell’aspirante Krylenco. Un momento. È venuto fuori anche il vero nome di costui. Ci aspettavamo di sapere che si chiamasse Schoenberg o Zimmermann. Invece si chiama Abram. Altro impasto di lettere che puzza di tedesco e di sinagoga». Il giorno dopo fu di nuovo la volta di Lenin: «Il governo di Lenin è tedesco. Bisogna sempre ricordare che Uljanov è tornato in Russia attraverso la Germania. La Germania conclude in realtà un armistizio con se stessa, in quanto che il Governo di Pietrogrado è creatura della Germania».
Se il ruolo della Germania e il “colpo di mano ebraico” sembrano costituire il filo conduttore di una certa interpretazione che andava per la maggiore tra gli osservatori occidentali sulla situazione russa, la diplomazia ufficiale si consumava in una dicotomia che presto l’avrebbe condotta verso l’impasse. Impegnati a cercare di comprendere le future intenzioni dei bolscevichi, i governanti dell’Intesa cullarono a lungo la speranza che il nuovo potere fosse solo una parentesi temporanea e persero l’occasione di incidere sulla sua politica, nella convinzione di poter convincere comunque la Russia a mantenere in vita il fronte orientale con la Germania. La guerra e la sua continuazione, anzi, divennero presto l’argomento fondamentale attorno al quale ruotarono le decisioni riguardo all’atteggiamento da mantenere di fronte ai bolscevichi e per questo motivo fu convocato a Parigi per la fine di novembre 1917 un vertice dei capi di stato alleati dove, lo si vedrà, le decisioni prese segnarono una svolta negativa nei loro rapporti con il governo di Pietrogrado. 


martedì 17 ottobre 2017

CRONACHE DALLA RIVOLUZIONE (1)



CRONACHE DALLA RIVOLUZIONE

Dopo 100 anni siamo qui a chiederci cosa resti oggi di attuale della Rivoluzione di Ottobre. Poco, probabilmente quasi niente. Ma noi siamo storici e ci interessa di più cosa cambiò allora, in Russia e nel mondo. Comincia oggi una cronaca di quei giorni, vista attraverso gli occhi dei nostri diplomatici. Si tratta di un lavoro originale preparato per il blog e che sarà pubblicato solo su queste pagine.



Sferragliando, cigolando e stridendo 
cala sopra la Storia della Russia 
una cortina di ferro.
Lo spettacolo è finito
Il pubblico si è alzato.
E’ ora di mettersi la pelliccia e tornare a casa
Ci si guarda intorno. 
Ma non ci sono più né pellicce, né case

Vasilij V. Rozanov, un certo giorno dopo la rivoluzione


La Pietrogrado dell’ottobre del 1917 da un punto di vista iconografico era qualcosa di assolutamente originale se paragonata a quella che era stata la capitale dell’Impero zarista. Su molte statue che ne abbellivano le piazze erano state montate delle bandiere rosse mentre grandi striscioni con le parole d’ordine rivoluzionarie sventolavano dai palazzi del centro; gli stemmi zaristi con le aquile bicefale che ornavano la città erano stati tolti o, a volte, ricoperti con un telo. Dal febbraio la Russia non era più una monarchia sebbene, nell’attesa dell’Assemblea costituente, nessuno ancora poteva dire se sarebbe divenuta una repubblica parlamentare, presidenziale o a sistema misto. La famiglia imperiale era stata inviata a Tobolsk, ma l’esercito continuava a combattere e la burocrazia zarista garantiva con la sua presenza la continuità dello Stato. La Russia, insomma, era cambiata, ma ancora non si vedevano i concreti effetti della trasformazione: all’inizio di luglio i bolscevichi avevano tentato, fallendo, un colpo di mano contro il governo provvisorio e Lenin era stato costretto a riparare in Finlandia, ma le sconfitte militari, che incidevano sempre di più sul morale dei soldati, stanchi e poco propensi a resistere al nemico, e la presenza dei Soviet, che costituivano un vero contropotre  specialmente nei quartieri operai della capitale «Viborskij» e «Nevskij», erano il segnale della possibile ulteriore evoluzione di una situazione fluttuante. In città, poi, la vita cominciava a farsi difficile; la svalutazione del rublo e l’inflazione, unite allo stato di guerra, costringevano le fasce più deboli della popolazione a munirsi di mezzi di sussistenza eccezionali e mentre la povertà generale aumentava, la rete assistenziale zarista crollava, sia per mancanza di fondi, sia per l’impreparazione di fronte alle nuove condizioni create dalla guerra e dalla rivoluzione di febbraio. 
I partiti rivoluzionari che avevano dato vita ai Soviet si erano stabiliti nell’ex collegio dell’Istituto Smol’nyj della capitale, sostituendo nella prestigiosa scuola femminile le figlie dell’aristocrazia con quadri menscevichi, socialisti democratici, bolscevichi, socialisti rivoluzionari e anarco-comunisti. Il 25 ottobre/7novembre si sarebbe aperto il II Congresso panrusso dei Soviet. Per quel giorno i bolscevichi guidati militarmente da Trockij programmarono una nuova insurrezione e se, come si vedrà, l’azione ebbe successo, seguirono anni di guerra civile e torbidi, il sorgere di diversi governi in varie parti dell’ex impero e l’occupazione straniera di vaste regioni, a dimostrazione che il destino della Russia fosse tutt’altro che segnato e che l’impreparazione del governo provvisorio a fronteggiare una situazione rivoluzionaria fosse quantomeno relativa.
In tale caotica temperie le varie missioni diplomatiche dell’Intesa seguirono gli avvenimenti con fatica, nel tentativo di comprenderne la portata, ma la loro opera si rivelò insufficiente al compito richiesto, tanto per motivi oggettivi, come la pessima situazione alimentare, le epidemie, l’isolamento, gli arresti e il terrore, quanto per la miope posizione dei governi rappresentati, interessati, come si vedrà, soprattutto al proseguimento della guerra sul fronte orientale. Per quanto riguarda la missione diplomatica italiana, poi, alle difficoltà generali se ne aggiunsero presto altre peculiari: non solo, infatti, l’ambasciatore Andrea Carlotti era stato assegnato ad altra sede [Madrid], e avrebbe lasciato inspiegabilmente la Russia il 9 novembre nonostante gli accadimenti, ma anche le notizie provenienti dal fronte italiano, riguardanti la sconfitta di Caporetto, avevano già contribuito a creare un certo sconvolgimento nelle fila della diplomazia della penisola e nel novembre 1917 Roma era distolta dagli avvenimenti internazionali in quanto lo shock provocato da Caporetto non era stato superato. Moltissimi erano i profughi provenienti dalle zone invase dagli austriaci e, mentre in Russia il potere passava nelle mani dei comunisti, i muri delle città italiane si riempivano di manifesti, di cui quello apparso a Desio il 14 novembre 1917 ne costituisce un paradigma: «Con una violenza superiore ad ogni previsione, dileggiando ed insultando il nome nostro, il più brutale nemico ha invaso la bella contrada friulana apportandovi ovunque minacce e terrore. Il popolo nostro che già con animoso esempio seppe mostrare nel lungo periodo della guerra come non gli sia grave nessun sacrificio, si mantenne fermo anche nella presente strettezza ed anzi si riaffermò unanime in quel sentimento di nazionalità che fa sacro ogni palmo del suolo della patria, in quel sentimento che sarebbe profondamente ferito ove la minimissima parte d’Italia dovesse cadere sotto il giogo straniero. [...] I barbari saranno ricacciati al di là delle alpi, assicurata una libertà durevole, il mantenimento dell’ordine e dell’esistenza [...] mentre però le provincie occupate dal nemico sono in preda al lutto ed alla desolazione, vada il nostro soccorso a mitigare il loro dolore e ad unirci sempre più in scambievole affetto fraterno». Ancora alla vigilia del 7 novembre l’ambasciata italiana a Pietrogrado era impegnata nel lavoro di propaganda al fine di far passare sui giornali russi le veline che in qualche modo ridimensionassero la catastrofe di Caporetto e gran parte del corpo diplomatico si trovò spiazzata dagli avvenimenti. Quando nel dicembre 1917 giunse a Pietrogrado il nuovo reggente l’ambasciata italiana, Pietro Tommasi della Torretta, egli non poté che adeguarsi all’impostazione generale data al momento dello scoppio della rivoluzione bolscevica di comune accordo da tutte le Potenze e che si può riassumere nella speranza che si trattasse di un passaggio transitorio, un incidente di percorso che nulla avrebbe mutato nel più generale quadro strategico europeo. Mancò, allora, la visione ampia di una situazione assolutamente complicata, il colpo del diplomatico geniale in grado di adeguare azione e previsioni alla realtà così bruscamente rinnovata rispetto ai mesi precedenti. Latitò, insomma, quella libertà intellettuale, unita alla spregiudicatezza, arma necessaria dell’uomo politico, per comprendere che il governo dei soviet, per quanto avverso, fosse davvero l’unico soggetto che avesse una linea politica in grado di poter decidere per la Russia. Né, d’altro canto, rifiutando la realtà si agì in modo aperto, deciso e forte per contrastarla. Insomma, e questa è certamente la critica maggiore che si può fare alle diplomazie occidentali, si tentò di mantenere in vita le motivazioni della guerra del 1914 in un mondo che nel 1917 non era più lo stesso. E se è vero che furono la guerra mondiale e le sconfitte patite dall’impero zarista a preparare il terreno per il colpo di mano bolscevico, si deve chiarire che il mondo mutò non solo per il corso della guerra, ma per il conflitto in sé, che con la sua violenza inaudita in precedenza pose gli uomini di fronte a valori completamente diversi rispetto a quelli che solo tre anni prima ne guidavano le coscienze. Tra i funzionari italiani che ebbero la ventura di seguire in prima persona l’evolversi della situazione in Russia non ci fu una personalità in grado di emergere dal grigiore generale che ben presto divenne caratteristica peculiare dei quadri governativi. Il console di Pietrogrado, Raffaele Pirone, da anni viveva sulle rive della Neva ma era un medico e non un diplomatico di carriera. Conosceva certamente la Russia imperiale empiricamente, ma non dimostrò, né allora né in seguito, di aver colto i bagliori del nuovo che avanzava e le motivazione dei giovani estremisti, bolscevichi o socialisti rivoluzionari, che stavano prendendo il potere. Affrontò con coraggio un destino tragico, ma il risentimento e la collera che si portò dentro, e che esplosero negli anni successivi nel corso della stesura dei suoi ricordi, furono indirizzati più che altro contro gli ebrei russi, indicati come i colpevoli delle sue sofferenze in una visione fideista di un mondo diviso in buoni e giusti e dannati, perché diversi e quindi avversi. 
Lo stesso discorso vale per Cesare Majoni, console italiano a Mosca e, secondo le parole di Vladimir Zabughin, il funzionario italiano di chiare origini russe, «più energico, più americamente indefesso che conobbi all’estero», che profuse un grande impegno e un’energia adeguata alla situazione, ma che rivelò nelle pagine del diario la sua vera natura di uomo avverso per principio agli ebrei, che riteneva la causa di ogni male. Zabughin si differenzia da questi uomini solo perché, originario della Russia, aveva quel paese nel sangue, ma non dimostrò alcuna qualità peculiare e le sue analisi risultano oggi prevedibili, superficiali e distorte dal pregiudizio. 


Il 7 novembre 1917, come detto, era prevista l’apertura del II congresso panrusso dei soviet. Quella data fu scelta da Lenin e dalla direzione del partito comunista russo bolscevico come la più opportuna per rovesciare il governo provvisorio. Si trattò, più che di un’insurrezione di popolo, di un’operazione militare che previde l’uso dei cannoni da sei pollici di cui era munita l’Aurora, alla rada di fronte al Palazzo d’Inverno, mentre altre torpediniere pattugliavano la zona di fiume tra l’isola Vasil’evskij e il Nevskij, in una situazione di assoluta anarchia nella quale i bolscevichi del soviet ebbero buon gioco affermando di difendere la rivoluzione: «Si prepara un colpo di alto tradimento contro il soviet di Pietrogrado», recitava un proclama dello Smol’nyj; «un complotto controrivoluzionario è diretto contro il Congresso panrusso dei Soviet alla vigilia della sua apertura, e contro l’Assemblea costituente, contro il popolo. Il Soviet di Pietrogrado monta la guardia alla rivoluzione».
Pietrogrado fu divisa in settori controllati dalla guardia rossa e verso le due del mattino del 6 novembre cominciarono le operazioni principali. Furono occupate le stazioni, la centrale elettrica, gli arsenali, i depositi dei viveri, alcuni ponti, tra cui quello che collegava la piazza del Palazzo all’Isola Vasil’evskij, la Banca di Stato, la Posta. Tutto accadde in una tale fretta, che Lev Trockij poté affermare anni dopo che «i resoconti sugli episodi di quella notte sono miseri e incolori: sembrano verbali di polizia. Tutti i protagonisti sono presi da una febbre nervosa. Nessuno ha il tempo di osservare e di registrare». Quasi tutto il centro cittadino fu posto sotto il controllo delle forze rivoluzionarie, che organizzarono posti di blocco e il giorno dopo i giornali uscirono con un certo ritardo, così come la città stentava ad animarsi. Verso la fine della mattinata del 7 novembre l’occupazione dei posti chiave fu completata: furono sbarrate molte strade adiacenti a Palazzo Mariinskij, dove i membri del preparlamento erano in procinto di dar vita a una riunione, interrotta prontamente da marinai della guardia rivoluzionaria; le strade intorno al Palazzo d’Inverno, poi, furono pattugliate dai marinai e dai soldati del reggimento Pavloskij, fedeli al soviet. Nel primo pomeriggio il Nevskij cominciò a ripopolarsi: «l’insurrezione?» si chiedeva la gente, «ma questa è un’insurrezione? Si tratta solo di un cambio della guardia tra le sentinelle di febbraio e quelle di ottobre», al punto che in serata la via principale della città era di nuovo affollata e si «concedeva ai bolscevichi tre giorni di vita». Anzi, le truppe della guardia rossa «non facevano più paura» e sebbene attorno al Palazzo d’inverno cominciasse a concentrarsi una certa forza, la gente, secondo le parole di Trockij, non sembrava preoccuparsi più di tanto. Claude Anet, un giornalista francese, «era sinceramente stupito: questi assurdi russi fanno una rivoluzione in modo diverso da quello che raccontano i libri. La ville est tranquille». 
Se la memorialistica vicina ai bolscevichi tese a dipingere la presa del potere del partito di Lenin come un indolore, e quindi «naturale» passaggio tra il vecchio e il nuovo, i più attenti osservatori tra coloro che si trovarono allora a Pietrogrado hanno lasciato molte pagine in cui raccontano, assieme alle proprie vicende, quelle del Paese che li ospitava all’interno di una cornice fatta di impressioni generali e tentativi di spiegazione degli avvenimenti, che offrono la possibilità di ricostruire, accanto a quei frangenti, il retroterra culturale, il retaggio politico che in quegli anni sembrò essere denominatore comune per tutti loro. E ne risulta, intanto, che al città, quel giorno, fosse tutt’altro che «tranquilla». 
Il 7 novembre Raffaele Pirone si trovava nei locali della legazione italiana, di fronte al Conservatorio e al Teatro Mariinskij, relativamente distante dal Palazzo d’Inverno, quando qualcuno lo chiamò al telefono esortandolo a tornare a casa, perché sarebbero stati levati i ponti, tagliando in due la città, mentre presto il coprifuoco e la sospensione della circolazione dei tram avrebbero reso impossibile qualsiasi movimento. Pirone scese immediatamente in strada: «I passanti», raccontò, «si affrettavano tenendosi lungo le case, sicché le vie larghe apparivano anche più deserte; agli angoli del ponte Nicola un po’ di folla era tenuta d’occhio da pattuglie di marinai delle navi da guerra ancorate in mezzo alla Neva; su tutti i volti una preoccupazione, una tristezza, resa anche più cupa da un cielo scuro, e da un vento di tempesta, che urlava come solo sulla Neva sa fare». Secondo il più famoso testimone del colpo di mano bolscevico, John Reed, invece, «i tram correvano sul Nevskij; uomini, donne, fanciulli si aggrappavano a ogni sporgenza. I negozi erano aperti e la folla, nella strada, pareva molto meno inquieta che la vigilia. La notte aveva fatto sbocciare sui muri una nuova fioritura di appelli ai contadini, ai soldati del fronte e agli operai di Pietrogrado contro l’insurrezione». 
Verso la parte alta del Nevskij, dopo il canale Ekaterinskij, si vedevano ancora «la folla, le vetrine illuminate, le réclame elettriche dei cinematografi; la vita continuava come al solito». Tutta la città, anzi, «sembrava essere uscita a passeggiare sul Nevskij. A ogni angolo di strada folle immense si accalcavano attorno a gruppetti che discutevano animatamente. Ai crocicchi, picchetti di soldati con le baionette in canna, uomini anziani avviluppati in pellicce lussuose, tendevano i pugni contro di essi, rossi di furore. Donne eleganti li ingiuriavano». Solo verso l’imbrunire, poco prima che Pirone scendesse in strada, all’angolo tra il Nevskij e la via Morskaja fu sistemata un’autoblinda. Alcune altre sopraggiunsero (portavano i nomi dei primi condottieri kieviani, Oleg, Rjurik, Svjatoslav), mentre i tram smisero di circolare e i passanti si fecero più rari. 
Quel 7 novembre si trovava a Pietrogrado un altro funzionario del governo italiano, F. M. Taliani, inviato in Russia con incarichi speciali, che fu messo al corrente degli eventi in modo analogo a Pirone: «Sono ancora a letto quando una voce che non riconosco mi annunzia per telefono che i bolscevichi hanno assediato il palazzo del Governo. Mi precipito fuori. Nella piazza del Teatro, nelle strade adiacenti non c’è nessun sintomo nuovo. Continuo verso il centro: strade tranquille. All’imbocco della Morskaja un soldato mi viene incontro [...]. Mi dice che non solo il palazzo del Governo ma tutta la città è in mano ai bolscevichi [...]. Soldati appaiono a poco a poco dovunque: sbarrano i ponti e i crocevia, tengono sgombra la Prospettiva Nevskij. Qualche colpo di fucile [...] mi hanno fermato tre volte per chiedermi il passaporto». Taliani provò repentino disprezzo per i primi rappresentanti del nuovo potere; la guardia rossa era composta da «operai di ogni età, facce scavate dalla miseria, occhi bruciati, sventolare di stracci, grida rauche: sono armati di vecchi fucili, di carabine rugginose»; è «un’accozzaglia nella quale sono stati gettati i rifiuti della società». Proseguendo nel suo cammino vide un’autoblinda guidata dagli junker che «ferma all’imbocco di un ponte, lo spazzava con la sua mitragliatrice. Allora dieci guardie rosse strisciando sull’asfalto l’hanno aggirata [...]. Dallo spiraglio hanno scaricato nell’interno i revolver [...]. I quattro junker sono stati tirati fuori che si dibattevano ancora e gettati nella Mojka». Taliani e Pirone si trovarono negli stessi minuti intorno al Palazzo d’Inverno, dove stava per raccogliersi il governo provvisorio per una seduta di emergenza e videro entrambi le prime sparatorie, sempre più fitte finché esse, come ricorda Pirone, «verso le 10 [le 22] si intramezzarono con fuochi di mitraglia nutriti e colpi di cannone sempre più frequenti tirati da vari punti, ma specialmente dalle navi. Noi potevamo vedere i tiri, perché l’incrociatore Aurora si trovava proprio dirimpetto alla nostra casa. Né fu difficile capire che si tirava sul Palazzo Imperiale, la cittadella della resistenza, guardato dalle uniche truppe fedeli al governo provvisorio: i cadetti delle scuole militari. Verso le 4 del mattino l’uragano scemò, i colpi si diradarono e si ebbero le prime notizie. Forti nuclei di bolscevichi dalle caserme, dalle navi, armati come per un vero e proprio assalto […] si erano impadroniti dei punti nodali della città, poi avevano fatto convergere i loro sforzi sul palazzo imperiale, la cui difesa aveva dovuto cedere. Gli assalitori, durante l’attacco, non avevano dimenticato le cantine del palazzo e, nell’ubriachezza, si erano perfino uccisi tra loro. Infine si erano abbattuti sui difensori e ne avevano fatto scempio in un’orgia di sangue, di cui molti più tardi menarono vanto».
Dall’ambasciata italiana partirono immediatamente i primi, confusi rapporti sugli avvenimenti. Il 7 novembre l’ambasciatore Carlotti informò Sonnino che le truppe di Pietrogrado e «masse disordinate e imbelli» passate dalla parte dei bolscevichi, avevano occupato e tenevano sotto controllo alcuni uffici governativi. Di Kerenskij si diceva che avesse abbandonato la città per porsi alla testa delle truppe fedeli al governo provvisorio, con le quali avrebbe presto riconquistato la capitale. Destava, comunque, preoccupazione, il fatto che il governo «avrebbe da tempo potuto padroneggiare situazione ove avesse proceduto con energia contro i perturbatori». Come detto, però, Carlotti non poté dare un ulteriore contributo perché lasciò inspiegabilmente la capitale russa il 9 novembre; la direzione della legazione italiana fu provvisoriamente presa dal  consigliere Giuseppe Catalani, che il 10 novembre scriveva a Roma di aver incontrato il ministro del Belgio Jules Destrée; questi lo aveva rassicurato riguardo alla decisa intenzione dei funzionari statali e degli ufficiali di boicottare il nuovo potere, destinato, quindi, a fallire. Non si escludeva, inoltre, un intervento diretto della Germania al fine di rovesciare i comunisti e occupare Pietrogrado. Sempre in quel giorno Catalani confermava la prossima fine del movimento bolscevico, il ritorno di Kerenskij, ormai a Carskoe Selo, pochi chilometri a sud di Pietrogrado, e la fuga di Lenin e Trockij verso un luogo imprecisato.
Tra i funzionari italiani presenti a Pietrogrado il 7 novembre un posto particolare è occupato dal già ricordato Zabughin, inviato nel maggio 1917 in Russia da Vittorio Scialoja, ministro senza portafoglio per la Propaganda di guerra, con incarichi di propaganda da assolvere a stretto contatto con la diplomazia ufficiale e la missione militare. Giunto Russia, dopo aver lavorato in diverse regioni russe nonché in Romania per tutta l’estate, era rientrato nella zona delle due capitali poco prima del 7 novembre. A Mosca aveva seguito per diversi giorni le manifestazioni che si susseguivano in attesa dell’apertura del congresso dei Soviet a Pietrogrado ed era stato colpito dal discorso «caldo, forte, convincente» di «un avvocato ebreo di Mosca, uno di quegli ebrei che non vollero mai cambiare cognome, come fecero tanti suoi correligionari», a parere del quale, la Russia era in grave pericolo perché i veri Russi, «l’ex razza dominante» sarebbe decaduta «per l’abuso della vodka, per il groviglio di sfacciate bugie onde fu avvelenato l’animo suo e per la sfrenata bestiale ingordigia. Se la Russia sarà salva, lo sarà per opera dei polacchi, degli ebrei, dei piccoli russi, dei fratelli slavi oppressi d’oltre confine: mai per opera della Grande Russia»; «La civilissima Mosca», del resto, «vedeva dilagare un cocainismo e morfinismo epidemico, un’orgia di perversioni più atroci», e neanche la capitale, da cui Zabughin scrisse il 5 novembre, sembrava foriera di novità positive: «Degli umori dell’enorme folla assiepata sulla piazza Kazan’ un osservatore europeo avrebbe potuto indurre la possibilità di un colossale massacro degli ebrei [...]. Mi ricorderò finché avrò vita una donna sulla quarantina [...] che arringava un gruppetto di studenti, di commessi del Gostinnyj Dvor e di impiegatucci: «I maledetti – urlava – non ci lasciano nemmeno pregare! Aspettate ancora, chiuderanno le nostre chiese e vorranno essere pagati per lasciarci entrare [...]. Ci vorranno convertire al giudaismo»». La notte tra il 5 e il 6 novembre Zabughin vide Pietrogrado «percorsa da decine di automobili, blindate ed ordinarie, piene di gente seria, affaccendata, cupa [...]. Sulle vie principali una folla fitta, taciturna, curiosa, stazionava avida di sensazioni e di novità», mentre la sera del 7 novembre registrò le medesime impressioni di Pirone e Taliani: «il fracasso era infernale. Cannonate di medio calibro, mitragliatrici, fucilate. Credevo che al riapparire del giorno almeno mezza Pietrogrado sarebbe [stata] demolita. L’albergo tremava, i vetri tentennavano, il pubblico, benché avvezzo alle più apocalittiche situazioni, s’informava premurosamente delle prossime partenze dei treni. Una notte d’inferno, insonne». Nell’alba leninista, poi, «si ammazzava alla spicciolata», si violentava «alla tedesca», come pure «teutonica fu la sorte riservata agli allievi ufficiali». Gli uomini di Lenin sono definiti senza mezzi termini «agenti turco-teutonici» e «fanatici imbottiti di denaro tedesco», mentre «la storia insegnerà un giorno l’esatta portata dell’aiuto prestato ai cavalieri della Germania [...]. La presenza di ufficiali tedeschi tra le guardie rosse mi viene affermata da buona fonte, né credo che senza un comando straniero codesta plebaglia si sarebbe battuta così bene [...]. Non saranno stati molti: ma bastarono». L’8 novembre Zabughin si recò assieme all’ambasciatore italiano alla vigilia della sua partenza al commissariato agli Esteri e osservò che molte guardie non sapessero bene quale governo servissero: «chiedevano meticolosamente dei lasciapassare, accontentandosi però, come di prammatica, di qualunque carta timbrata», mentre «una folla discreta stazionava dinanzi al Palazzo d’Inverno, il naso per aria, a mirare le impercettibili screpolature della facciata [...]. Manifesti bianchi e gialli ingiungevano al popolo di riprendere le abituali occupazioni, annunziandogli altresì in termini pomposi la caduta del regime borghese e l’avvento dell’era millenaria sotto un Governo operaio e contadino. [...] Tutti aspettavano Kerenskij. Dov’era?». La domenica, quattro giorni dopo il colpo di mano bolscevico, la situazione era tale da far pensare ad una imminente riconquista di Pietrogrado, ma arrivò il lunedì, e «Kerenskij non si faceva ancora vivo». Ormai prossimo alla partenza, Zabughin ebbe un incontro con Trockij allo Smol’nyj, dove si era recato il 14 novembre per ottenere i visti di uscita. La sede del governo sembrava «un festino aristocratico dei più bei tempi dell’impero. Nell’interno era un formicaio operoso [...]. Membri del Soviet che correvano alla seduta; facce convinte della propria alta missione, unti dal Signore, per davvero, seri e composti, soldati, marinai [...]. Trockij [...] è in rendigote, come si conviene a una non eccellenza socialista, e ha l’aria annoiata di colui che aspetta un mondo d’affari, senza che ne venga neppur uno. [...] Il compagno è chiomato, barbuto e molto brizzolato: somiglia vagamente al Černov». Dopo aver ottenuto il permesso di partire Zabughin si recò in un ufficio per la vidimazione del visto: «un estremo lembo porporino fendeva netto le nubi nerissime. Il mio interlocutore era chino sulla tavola, pensoso. Era piccolo, grassoccio, simpatico. Un anno fa doveva appartenere a qualche Lega di Michele Arcangelo per lo stermino degli Ebrei», ma ora tutto era mutato.
Secondo l’analisi di Zabughin, contenuta anche in un rapporto compilato per il ministero romano (e coincidente con il giudizio di Taliani), la rivoluzione bolscevica era non giunta inattesa: «Il suo graduale appressarsi e le misure di precauzione che il governo provvisorio di coalizione [...] era in dovere di adottare, mi tolsero la possibilità di proseguire l’opera mia di propaganda nelle scuole militari e nelle caserme di Pietrogrado». La rivoluzione «la prevedevano tutti sino dal mese di agosto». La «fenomenale illimitata insipienza e debolezza del governo provvisorio, basato sul vuoto e scevro di qualsiasi autorità in provincia, la criminosa condiscendenza del ministro di grazia e giustizia Maljantovič, che man mano rimise in libertà dietro cauzione quasi tutti i capi bolscevichi arrestati dopo i moti di luglio [...] il crescente disagio delle masse popolari, tra le quali la propaganda pro “pane e pace” [...] esercitava l’effetto di una lampada accesa su di uno stuolo di farfalle, tutto insomma cospirava ad affrettare l’avvento al potere di codesti cavalieri dell’Elmo Chiodato». Nessuno, però, si sarebbe aspettato una durata sensibile dei bolscevichi, essendo due settimane il massimo «che si concedeva di governo alla lega tedesco-romanovista-anarchico-ladresca». Infatti Lenin giunse al potere per demerito altrui, sebbene Kerenskij «difficilmente avrebbe potuto agire, nei giorni di martedì 6 e mercoledì 7 novembre diversamente dal come si comportò scappando cioè sotto bandiera americana». Il giudizio sugli uomini della diplomazia occidentale, comunque, in parte responsabili secondo Zabughin di non aver contrastato il colpo di stato bolscevico, è negativo: l’ambasciatore inglese George Buchanan, che è considerato «ostetrico e padrino della prima rivoluzione di marzo», addirittura «aveva perso quella non eccessivamente grande quantità di cervello che tiene in testa. Agevolò indirettamente la defezione dei cosacchi, giacché in un ricevimento solenne [...] li assicurò che l’Inghilterra non li avrebbe mai abbandonati né avrebbe fatto una pace separata a spese della Russia». Ma come Buchanan, neanche gli altri diplomatici, digiuni di cultura e storia russa, potevano comprendere la gravità di quanto stava accadendo. Anche nel rapporto ministeriale, infine, Zabughin tornò sulla presenza tedesca accanto ai bolscevichi: l’assalto al potere «si svolse con un programma prestabilito con un’accuratezza tedesca e con disciplina idem» e la presa stessa del Palazzo d’inverno fu condotta «sembra, sotto il comando di ufficiali germanici». 
Questo, in sintesi, il suo giudizio sulla rivoluzione bolscevica. Come altri suoi colleghi, il funzionario non sembra brillare per equilibrio e si ha la sensazione che ricavasse le impressioni fondendo le voci di strada con l’osservazione empirica, senza un riscontro oggettivo. A cavallo tra la vendetta ebraica e il complotto filotedesco, neanche per lui la rivoluzione di ottobre fu «una storia russa», bensì «anzitutto una Rivoluzione asiatica». Per questo, enfatizzava, «gli alleati non possono abbandonare la Russia al suo triste destino [...]. Essi debbono lottare anche sul teatro orientale per restituire la Russia a se stessa, alle sua forze sane, ai suoi uomini onesti. Unico mezzo è [...] un intervento rapido, energico, compiuto d’accordo tra le potenze dell’intesa, ma soprattutto da forze americane e giapponesi. [...] Se vogliamo, e dobbiamo volerlo a ogni costo, che il mostro teutonico sia schiacciato per sempre, dobbiamo aiutare la parte migliore della Russia a darsi un governo degno di lei e aiutare l’esercito russo a guarire e ricostruirsi. [...] Cosacchi, vecchi credenti, polacchi, romeni, caucasiani - ecco quanto basterebbe per tenere a bada assieme a qualche armata americana e giapponese, le scarsissime forze tedesche sulla fronte russa, anzi, per batterle e togliere a esse parte del frutto delle facili vittorie [...] occorre anche un intenso e continuo apostolato intellettuale».



  












































martedì 9 maggio 2017

MACRON E IL POPULISMO

C'è un errore di fondo nelle analisi mainstream che si leggono in questi giorni e cioè che l'elezione di Macron avrebbe fermato il populismo della Marine Le Pen e contribuito a salvare l'Europa. Non credo che con Marine presidente della Repubblica Francese l'Europa sarebbe stata fritta in qualche festa di partito: non ci sono dichiarazioni al riguardo da parte della donna politica, né la cosa appare così semplice da realizzare, visto anche quello che sta accadendo in Gran Bretagna dove la May, ovviamente per considerazioni solo elettorali (si vota tra poco), sta resistendo all'applicazione delle regole. Ma il discorso va oltre, nel campo più concreto dello sviluppo politico reale e immediato. Tralascio la questione del banchiere perché ci porterebbe a parlare per slogan, cosa che in questo momento non serve a nessuno, e mi soffermo brevemente su due punti: la distruzione del passato e le analogie con gli Stati Uniti d'America.
Macron ha "finalmente" realizzato quello che da due decenni si va dicendo in lungo e in largo, ossia che non esistono più la destra e la sinistra e che i partiti tradizionali sono superati. E' accaduto proprio questo: ha sbaragliato i partiti tradizionali, infischiandone del passato e guardando giustamente avanti, come un neanche quarantenne può a ben diritto fare. In Italia abbiamo assistito a un fenomeno simile con i 5S con la differenza che non sono riusciti a vincere le elezioni per governare il paese. Inoltre, essendo il loro leader un ultrasessantenne, non guardano avanti ma indietro: vogliono distruggere i partiti tradizionali, meno pensano a un programma di governo.
Negli Stati Uniti e in Francia si sono scontrati un uomo e una donna e in entrambi i casi ha vinto l'uomo. A Washington si è parlato della predisposizione del nuovo presidente per le gonne fuori dal matrimonio; in Francia per il rapporto con una donna ben più grande di lui. In nessun caso la nostra presidente della Camera ha preso cappello indignata perché le due società si sono apertamente dimostrate maschiliste, relegando le donne al ruolo di perdenti. Ancora, forse, negli Usa il rammarico per la non elezione della Clinton è stato quasi sincero, ma in Francia la Le Pen, essendo di destra, perde proprio la connotazione femminile e diventa un ibrido asessuato.
Macron non è una rottura del trend del 2017; lo sarebbe stata l'elezione di Marine. Macron è la continuazione di una linea politico-sociale che è partita in sordina con Berlusconi in Italia (sempre all'avanguardia per le deformazioni politiche), ha raggiunto l'apogeo con Trump (passando per esempi minori in Asia) e si conferma con Macron. L'alta finanza del mondo globalizzato in un sistema capitalistico in crisi ha necessità del controllo diretto delle leve politiche. Diretto, non mediato dai partiti che più o meno la rappresentano e che oggi non servono più, perché non rappresentano più. Le classi subalterne sono istericizzate dalla presenza dell'immigrato e non si accorgono che quella guerra che costringe i fratelli africani e asiatici a scappare riguarda anche loro; le classi dirigenti sono povere di spirito, di cultura politica e di prospettiva, impegnate in una rincorsa affannosa di una gestione del potere che si fa sempre più lontana e complicata. Hanno perduto il passo nel 2008 e adesso devono lasciare la strada al nuovo corso del capitale.
Triste dirlo, ma Marine è stata un'occasione persa. Il populismo, come vedete, non c'entra niente. Anzi, è solo fantasia.













venerdì 10 marzo 2017

CRITICA DELLA RAGION DIETROLOGICA PARTE SECONDA

L'onorevole Gero Grassi, componente della Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro, si è risentito dell'articolo di Annachiara Valle ed ha scritto a "Famiglia Cristiana". Riportiamo la sua lettera e la coraggiosa risposta della giornalista e scrittrice. Per la prima volta il fronte giornalistico è rotto con decisione e sono poste le giuste domande alla Commissione, fino ad oggi francamente poco utile alla comprensione di quegli avvenimenti se si escludono poche audizioni di storici, magistrati e uomini delle forze dell'Ordine. 


Ecco la lettera che ci ha inviato l'onorevole Gero Grassi:

Ho letto sconcertato un articolo sulla testata on line di Famiglia Cristiana secondo il quale cambia poco sapere se il presidente della Dc sia stato ucciso da seduto o da sdraiato. Non volevo credere ai miei occhi. La questione nasce dalla perizia sulla dinamica dell’ uccisione di Aldo Moro chiesta dalla Commissione guidata da Giuseppe Fioroni al Reparto investigativo dei Carabinieri. Durante una lunga audizione il colonnello Luigi Ripani e il tenente colonnello Paolo Fratini hanno esposto gli esiti del loro lavoro – non sono stati ‘tirati di qua e di là dalle domande dei membri della Commissione’ , come si scrive nell’ articolo, semplicemente gli abbiamo chiesto chiarimenti – mostrando le evidenze scientifiche fin qui, paradossalmente, mai notate, in base alle quali Aldo Moro fu colpito da davanti: la versione brigatista delle ultime ore di vita di Moro è dunque fatta a pezzi.

Il Ris non dice, come di nuovo sostiene l’ articolo, evidentemente scritto senza aver seguito con attenzione i nostri lavori, che la «scena del crimine» è “certamente” la Renault 4 dove il corpo di Aldo Moro fu ritrovato la mattina del 9 maggio. Niente affatto. Il colonnello Ripani ha anzi detto il contrario, cioè che in base alla loro perizia l’ ipotesi che tutto sia avvenuto in un garage è alquanto improbabile. Proprio a tal fine svolgeremo un incidente probatorio in via Montalcini, per escludere definitivamente che quello sia stato il luogo dell’ uccisione.

Se il principale settimanale italiano, uno tra i pochissimi ormai autorevoli, propone ai propri lettori una versione così superficiale e falsa dei nostri lavori, dobbiamo preoccuparci oltre che rammaricarci. Noi, infatti, pensiamo che la verità del caso Moro sia un dovere, oltre che un contributo alla buona politica dell’ oggi. Per questo siamo impegnati a capire: perché l’ allora capo della Digos Spinella arrivò troppo presto in via Fani, chi sparò da destra, visto che i membri noti del commando stavano tutti su un lato, se i trafficanti d’ armi e gli ‘ndranghitisti che si incontravano nel bar Olivetti, proprio di fronte al luogo dell’ agguato, hanno contribuito all’ operazione, chi fossero coloro che hanno ospitato un covo brigatista nell’ elegante palazzina dello Ior di via Licinio Calvo, perché i brigatisti hanno detto così tante bugie e perché gli investigatori se le sono bevute … e tanti altri nodi critici.

Riusciremo a ricomporre il puzzle? E’ molto difficile, noi ci proviamo, auspicando che proprio Famiglia Cristiana non si sottragga all’ esigenza di un impegno per la verità e non si unisca al coro del qualunquisti.      

Gero Grassi, componente della Commissione parlamentare di inchiesta


LA RISPOSTA DI FAMIGLIA CRISTIANA

Gentile onorevole Grassi,

l’ articolo pubblicato ha avuto, come ben potrà comprendere, i più ampi riscontri prima di essere messo online. In particolare sono state attentamente ascoltate le audizioni ed è stata attentamente vagliata la perizia presentata dal Ris. Non riscontriamo invece la stessa precisione nelle sue affermazioni. In particolare sottolineiamo tre affermazioni quantomeno superficiali della sua lettera. Laddove afferma che «Il Ris non dice, come di nuovo sostiene l’ articolo, evidentemente scritto senza aver seguito con attenzione i nostri lavori, che la «scena del crimine» è “certamente” la Renault 4 dove il corpo di Aldo Moro fu ritrovato la mattina del 9 maggio», rileviamo, invece che dall’ audizione del colonnello Ripani del 23 marzo (il cui resoconto stenografico è stato pubblicato nel sito della Camera, si desume proprio quanto da noi pubblicato.

Dice il colonnello dei Ris:  «…Questa attività è stata svolta per ricercare elementi oggettivi desumibili: dal sopralluogo e dal repertamento sia sulla scena del crimine (sicuramente la Renault 4) sia anche dagli atti a disposizione della Commissione (parlo dei verbali di sopralluogo della Polizia scientifica all'epoca dei fatti); dalle analisi scientifiche delle tracce e dei reperti disponibili, che abbiamo svolto in laboratorio; dagli esami medico-legali eseguiti sul corpo e accertamenti balistici...». Su un’ altra delle sue affermazioni, quella in base alla quale il garage di via Montalcini non sarebbe stato il luogo in cui l’ onorevole Moro è stato ucciso, rileviamo che nella stessa audizione del 23 marzo il colonnello Ripani si limita a illustrare i dati della perizia e non dice mai che sia improbabile che il luogo dell’ omicidio sia il garage di via Montalcini. Tra l’ altro - questo del luogo dell’ omicidio - non era neppure tra i quesiti posti al Ris.

È il presidente Fioroni che, alla fine della seduta, esprime il suo personale punto di vista, non suffragato dalle parole del colonnello Ripani che anzi dichiara: «…I primi 3 colpi potrebbero essere stati esplosi in un luogo magari non tanto distante (adesso poi vi dico perché), ma in un locale, un garage, e la macchina fuori o la macchina dentro, ma non ne ho la più pallida idea e non voglio avanzare ipotesi». È invece il presidente Fioroni che, al termine della audizione e senza che ci sia alcuna prova a sostegno del suo pensiero, dice: «Credo che non sfugga a nessuno che, silenziatore o non silenziatore, nel garage di via Montalcini è difficile ipotizzare questa sicurezza di movimenti. Poi il bossolo fa rumore, fa rumore sulla porta chiusa, fa rumore sul soffitto, fa rumore dappertutto, e con gragnuola di dieci colpi magari non fa rumore il silenziatore, ma fa rumore tutto il resto. Il bossolo da qualche parte ha battuto e stiamo parlando di 12 colpi, non di uno o di due». Opinioni, fin qui, del tutto personali che non hanno trovato riscontro in prove scientificamente inoppugnabili. Ci chiediamo inoltre perché, di fronte a chiare dichiarazioni, per esempio la polizia scientifica (dottor Boffi) che nell’ audizione del 10 giugno 2015 dichiara «Non c’ è alcuna possibilità, per l'assenza totale di impatti di proiettili provenienti dalla destra, che il maresciallo sia stato colpito da colpi esplosi da destra. …. Di nuovo, noi non abbiamo alcuna evidenza di colpi esplosi dalla destra, perché non abbiamo alcun impatto all'interno e all'esterno dell'autovettura. Abbiamo impatti provenienti da sinistra che hanno certamente attinto il maresciallo», la Commissione continua a ritenere che in via Fani si sia sparato immediatamente anche da destra. Ci fermiamo qui per non alimentare ulteriormente la polemica.

Le chiediamo però perché la Commissione non riesce ad andare oltre una sistematica volontà di demolire quanto già ampiamente accertato dalla magistratura. Perché non aggiunge i tasselli mancanti, piuttosto che cercare di contestare gli elementi che sono già stati accertati e collocati al loro posto? A chi giova far finta che nulla si sappia, ignorare i riscontri, le indagini, le perizie, le testimonianze? A chi giova dare interpretazioni distorte di perizie e audizioni? Cercare di far chiarezza alzando polveroni piuttosto che analizzando con oggettività i fatti non è certo un buon metodo per cercare la verità.

Cordiali saluti

Annachiara Valle