sabato 2 giugno 2018

LA FINE E L'INIZIO. LABORATORIO ITALIA



L’Italia è di nuovo laboratorio politico. Se ci fermiamo alla fine della guerra fredda, abbiamo avuto Berlusconi e una certa idea di democrazia e di potere, un’idea che ha messo in crisi l’opposizione, convinta di combatterlo sul piano giudiziario, lasciando ampi spazi politici alla magistratura, ma anche a altre potenziali forze politiche, che hanno trovato uno sviluppo impressionante negli ultimi dieci anni. Oggi siamo punto e capo, ma con la differenza, positiva, che la magistratura non ha più lo spazio degli anni berlusconiani. Al potere ci sono forze sovraniste (un nuovo modo di chiamare il nazionalismo novecentesco, di cui sono l’evoluzione), e populiste. Chiariamo cosa si debba intendere con questa ultima espressione, perché se ne sono sentite di ogni. Non c’entra nulla il populismo russo del XIX secolo, il “narodnichestvo”, al quale si sono richiamati alcuni importanti giornalisti. Senza entrare in lezioni di storia, quello era un piccolo movimento di persone illuminate che esortavano una “andata al popolo” (un popolo a loro abbastanza alieno) per trarlo fuori dalla propria ignoranza.
Oggi le forze populiste sono sostenute dal popolo, dalla gente, che di fronte a problemi sociali enormi, come la disoccupazione, la povertà e l’emarginazione ha trovato risposte facili: «sono i politici che rubano, sono gli immigrati che ci tolgono lavoro, è l’Europa che ci opprime». Le due forze che rappresentano in modo diverso queste istanze sono ad oggi il più vecchio partito italiano (Lega), con un presidente a vita - Bossi -, e un movimento nuovissimo, i 5S, che è un marchio registrato della Casaleggio Associati, che può concedere a chiunque il logo e la lista, ma può anche toglierlo in qualsiasi momento. È un nuovo modo di far politica alleato alla tradizione della Lega. Ma anche la Lega parla direttamente ai propri elettori in una sorta di campagna elettorale permanente. L’organizzazione della macchina propagandistica è fondamentale e la crisi dell’intermediazione (i politici rubano) è sostituita con una sorta di democrazia diretta (altro elemento di populismo) che si muove all’interno degli umori immediati della gente. A coordinare il tutto - un primo ministro sconosciuto fino a poche settimane fa, la figura ideale per dimostrare ai propri sostenitori che in fondo l’esperienza non serve, che il politico di professione (ricordate Berlusconi?) è un male non necessario e che se si è onesti e si segue un programma tutti possono fare tutto.
In questo contesto di democrazia diretta alle piazze e ai mercati della Lega si sono affiancati i social media, che non sono altro che la forma ultramoderna del megafono da piazza: dirette facebook e tweet hanno contribuito a cambiare paradigma e fase di sviluppo, al punto che il presidente della repubblica è stato accusato di tradimento attraverso una telefonata a Fabio Fazio. Almeno Berlusconi lo aveva chiamato, ormai secoli fa, per protestare contro di lui e il suo modo di condurre. Oggi si è lasciato usare come megafono. 
Non esiste un ministero propaganda solo perché non ce n’è più bisogno. La comunicazione è libera e inarrestabile.

Da un punto di vista politico vedremo cosa vorrà fare questo governo Jamaica. Il primo obiettivo del neo ministro Salvini è l’aumento degli stipendi della PS e la caccia agli immigrati clandestini: legge e ordine, ovviamente a discapito dei più deboli. Poi c’è lo stop alle grandi opere: Barbara Lezzi, ministro del Mezzogiorno, vuole la chiusura del Tap. Il gasdotto in costruzione che arriva in Puglia e i cui lavori sono stati contestati da una parte della popolazione.

Quindi si cercheranno i fondi per la riforma fiscale e per il reddito di cittadinanza, mentre il rapporto con l’Europa è tutto da scrivere.

Nel frattempo, l’opposizione è inesistente, priva di bussola, ritardataria, isterica e risentita, ma di slogan e ideologia straripano i fiumi della storia. Oggi servono idee e iniziative.

martedì 29 maggio 2018

LA MARCIA SULLA REPUBBLICA


LEGA e 5S stavano colpendo  le nostre istituzioni: hanno delegittimato  il ruolo del parlamento. Questa crisi è stata tutta extraparlamentare; i presidenti delle camere non hanno detto una parola, i capigruppo neanche; ruolo: meno di zero. 
Hanno delegittimato il ruolo del presidente del consiglio. Uno qualunque vuole dire: ci può andare anche il mio vicino Totoro. Non è lì che si decide. Stavano delegittimato il ruolo del presidente della Repubblica: prima imponendo Conte, poi non cedendo su Savona, provocando Mattarella e mettendolo in un angolo.  Se il capo dello stato cedeva su Savona non contava più niente, e con lui il suo ruolo. 
Dopo 20 minuti dal fallimento di Conte sono partite le prime ipotesi di impeachment. Una reazione immediata, politicamente grave, anche se costituzionalmente prevista.
Si è aggiunto, quindi, il richiamo a Roma per il 2 giugno, la festa della Repubblica. Mentre ai Fori Imperiali sfileranno i carri e i militari, di fianco ci saranno i 5S con le bandiere italiane contrapposte a Mattarella e a questa Repubblica. 
 Siamo di fronte a una spaccatura netta del paese sul nostro futuro. Il nostro modo di pensare, i nostri valori, il nostro rapporto con le istituzioni sono messe in discussione dai sostenitori di uno Stato etico nel quale pochi hanno in tasca i paradigmi di convivenza mentre il popolo bue li segue. Scardinando l'euro e costringendo Roma a uscire dall'UE si mette il paese in ginocchio economicamente. Chiuderanno le frontiere prima ai capitali, poi alle persone. La povertà spingerà il popolo a chiedere un governo ancora più forte in grado di proteggerle dal nemico esterno. Prima erano i migranti, poi la politica europea che permetteva gli sbarchi, infine gli stranieri europei di Berlino e Parigi. Il nemico esterno è impalpabile, inosondabile, invisibile e dunque sempre presente, dunque sempre minaccioso. Un paese già impaurito avrà sempre più timore e sarà manipolabile più facilmente. Il 2 giugno i 5S e i Leghisti non vanno a difendere la costituzione ma a darle una prima spallata sfidando il Quirinale a casa sua nel suo giorno. È la prima marcia sul colle, alla quale ne seguiranno altre. Prepariamoci a difenderci.

MC

lunedì 26 marzo 2018

VIA FANI. L'AVVOCATO DI FAMIGLIA


Via Fani, quando l’avvocato della famiglia Ricci accusava Moro «per la nauseante puzza di petrolio che si sentiva in aula»


Rivelazioni – Il carteggio tra l’avvocato Edoardo Ascari, legale della famiglia dell’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci e il Vice comandante dell’Arma dei carabinieri, generale De Sena. Un inedito che apre nuovi squarci sulla genesi del paradigma vittimario



(Acs, Migs, Busta 11, E. Ascari, Lettera al Vice comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale Mario De Sena, p. 3)
Era franco e diretto l’avvocato Edoardo Ascari, autore delle parole indicate nel riquadro, scritte per conto della signora Maria Rocchetti, vedova dell’appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci ucciso la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani da un gruppo di fuoco delle Brigate rosse mentre conduceva la Fiat 130 con a bordo il presidente del Consiglio nazionale della Dc Aldo Moro. Originario di Modena, ritenuto un principe del foro, ex ufficiale degli alpini scampato alla campagna di Russia, difensore storico dell’Arma dei Carabinieri, Ascari è scomparso nel 2011 all’età di 89 anni. I cronisti della giudiziaria lo consideravano uno dei “quattro moschettieri” dell’avvocatura, insieme a Franco Coppi, Vittorio Chiusano e Gioacchino Sbacchi. Nella sua lunga carriera di penalista, oltre al processo Moro aveva seguito altre importanti vicende giudiziarie che segnarono la storia della prima Repubblica: nel primo dopoguerra si era occupato dei procedimenti contro i partigiani accusati delle uccisioni di ex esponenti del regime fascista nel cosiddetto “triangolo della morte” (Castelfranco, Manzolino, Rastellino), successivamente patrocinò le parti civili nel giudizio sul disastro del Vajont, sostenne anche i parenti di undici dei sedici morti nella strage fascista di Piazza Fontana, prese parte al processo per il sequestro dell’Achille Lauro da parte di un gruppo di guerriglieri palestinesi, partecipò al giudizio sulla morte del commissario Calabresi e difese Giulio Andreotti, insieme a Franco Coppi, accusato della morte di Mino Pecorelli.
Ma torniamo al 6 dicembre 1985 quando, incassata da pochi settimane (il 15 novembre 1985) la sentenza di Cassazione che metteva fine all’iter giudiziario del primo processo Moro, nel quale erano confluite le istruttorie Moro 1 e 1 bis, confermando per i 57 imputati chiamati a giudizio i 22 ergastoli pronunciati in appello, sommati ad altre centinaia di anni di carcere (per 17 di loro ci fu un rinvio in appello per una nuova rideterminazione della pena), l’avvocato Ascari scriveva una lettera al Vice comandante dell’Arma dei carabinieri, Generale De Sena, lamentando il comportamento delle altre parti civili.
Nella missiva contestava la posizione minimalista tenuta dagli avvocati Fausto Tarsitano, Guido Calvi, Giuseppe Zupo, Armando Costa, Luciano Revel e Antonio Capitella, che su mandato del Partito comunista – secondo quanto scrive Ascari – avevano rappresentato nel processo gli interessi dei familiari degli agenti di polizia Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, oltre che della famiglia del giudice Palma. In sostanza, il legale della famiglia Ricci, a sua volta incaricato dall’Arma dei Carabinieri, riteneva che «gli avvocati di ubbidienza comunista» avevano operato nel corso del processo «in modo da non danneggiare le tesi del loro partito […] avendo il Pci sposato la causa di pentiti e dissociati», come sintetizza il rapporto [pubblicato a fine articolo] che accompagnava la lettera di Ascari, redatto il 23 dicembre 1985 dal II Reparto dello Stato maggiore, Ufficio criminalità organizzata dei Carabinieri, testo che porta, tra gli altri, timbro e sigla dell’allora Capo sezione coordinamento, tenente colonnello Mario Mori (Acs, Busta 11).
Scriveva Ascari:
«Anzitutto i patroni delle famiglie degli Agenti di P. S. Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera – Avv.ti Tarsitano, Calvi ed altri – hanno semplicemente letto le loro conclusioni senza discuterle. Il fatto è che il P.C.I., che era il vero mandante – era dalla parte dei “dissociati” e dei “pentiti” e, quindi, l’Avv. Tarsitano e i suoi colleghi hanno preferito ubbidire agli ordini del Partito che li pagava, anziché ai doveri che loro derivavano dal mandato ricevuto, almeno formalmente, dalle famiglie degli Agenti di P.S. assassinati».
A questo punto il legale della famiglia Ricci rivelava al Generale De Sena un episodio accaduto prima dell’avvio del processo Moro in Corte d’Assise, nel 1983:
«Desidero qui ricordare che la cosa, da me largamente prevista, dette luogo a un aspro – molto aspro – scambio di “opinioni” tra il Gen. Corsini [capo di Stato maggiore dell’Arma dei Carabinieri] e l’allora Ministro dell’Interno Rognoni: l’episodio accadde quando io segnalai che il P.C.I. si era attivato avvicinando le famiglie degli Agenti, lasciate sole, sussidiandole e promettendo loro ogni assistenza gratuita».
Nella seconda parte della lettera Ascari rivendicava a sé (escludendo polemicamente tutte le altre parti civili, compreso il collega patrocinante la vedova del maresciallo dei carabinieri Leonardi) il merito di aver condotto la Suprema Corte, presieduta per l’occasione da Corrado Carnevale, a rivedere la propria giurisprudenza restrittiva sulla disciplina del concorso morale, estendendola «ai capi promotori» per i delitti commessi dagli altri associati sulla semplice base di questa «loro qualità». Impostazione che in due precedenti sentenze non era stata recepita dai giudici di Cassazione.
La corte d’Assise, presieduta da Severino Santiapichi, aveva comminato ben 32 ergastoli. Sempre in primo grado vennero inflitte 27 condanne per un episodio mai avvenuto [leggi qui, qua e ancora qui], come i fantomatici spari che da una moto sarebbero stati indirizzati contro Alessandro Marini, un occasionale passante che transitava all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Nel successivo giudizio di appello, una più attenta definizione delle responsabilità personali e l’applicazione della legislazione premiale sulla dissociazione e la collaborazione permisero una parziale riduzione del numero degli ergastoli e dello stratosferico monte pene iniziale.
Ma è la parte finale della lettera che riserva le maggiori sorprese:
«Per quanto riguarda i patroni della famiglia Moro, il loro comportamento è stato vicino alla vergogna.
Infatti, essi hanno chiesto sostanzialmente alla Corte di dichiarare che Moro era un brav’uomo – il che non è, anche per la nauseante puzza di petrolio che si sentiva in aula – e che i terroristi, poi, in fondo, andavano “compresi” nelle loro motivazioni e nei loro “retroterra culturali”.
Quanto, poi, ai dissociati, il perdono della famiglia doveva portare con sé tutti gli altri perdoni umani e divini.
Per dire le cose da vecchio alpino, uno schifo».
Ascari non risparmiava parole per censurare la linea processuale dei legali della famiglia Moro, accusata di avere avuto attenzione solo per la tutela della onorabilità dello statista e ritenuta troppo disponibile al perdono verso i dissociati. Attaccava pesantemente la stessa figura del leader democristiano, alludendo al suo coinvolgimento nello “scandalo petroli”, un gigantesco giro di frodi fiscali (2 mila miliardi di lire) venuto alla luce nei primi anni 80 e da cui scaturivano anche finanziamenti occulti per alcune correnti Dc. L’inchiesta e il successivo processo videro coinvolti Sereno Freato, capo della segreteria personale di Moro, altri dipendenti dello studio personale dello statista democristiano, situato in via Savoia, il capo del servizio informazioni della Guardia di Finanza, Donato Lo Prete, il Generale Raffaele Lo Giudice, Comandante generale della Guardia di Finanza, numerosi petrolieri, tra cui Bruno Musselli, grande elemosiniere della corrente politica del dirigente democristiano, molto attivo nei giorni del sequestro quando fornì la propria disponibilità a coprire una eventuale richiesta di riscatto, al pari dell’avvocato Agnelli. Alla fine dell’iter giudiziario, dopo la metà del decennio 80, Freato che trascorse anche un periodo in carcere uscì indenne dalle accuse di partecipazione diretta alla frode e alla truffa. Il processo lambì la stessa moglie dello statista democristiano. Anche se le responsabilità politiche non vennero evidenziate, l’episodio in qualche modo annunciò quanto sarebbe accaduto di lì a pochi anni con le inchieste di “Mani pulite” che travolsero il sistema politico della Prima repubblica.
Seguendo le indicazioni dell’ufficio che aveva redatto un’analisi dei contenuti della lettera, e nella quale si segnalava come Ascari sottolineasse di «essersi trovato col solo appoggio del PM a sostenere i buoni diritti delle vittime dei terroristi» (accanto alla frase si legge una glossa manoscritta, «posizione giustificabile»), e auspicasse «che il comportamento delle parti civili sia reso noto in opportuna sede», a fine anno il Generale De Sena rispose con un diplomatico ringraziamento – preparato dallo stesso ufficio – per «le notizie fornitemi» congratulandosi con il legale per il suo operato processuale. (Acs, Migs, Busta 11)
Il rapporto dell’ufficio tecnico dello Stato maggiore dei CC che analizza la lettera dell’avvocato Ascari (Acs, Migs, Busta 11):

lunedì 8 gennaio 2018

ROBERTO GUERRA DETTO BIBBI

Dopo il terremoto del 2016 si sono avute moltissime manifestazioni di impegno e solidarietà. Oggi il Rotary Club di Amatrice ha deciso di premiare alcune persone particolari. Per questo serve il nostro sostegno.

Invito i lettori a collegarsi alla pagina http://www.rotaryeclubamatriceitalia.org e votare per Roberto Bibbi Guerra, un amico, un fratello, a cui tutti vogliamo bene.




Roberto Guerra, detto Bibbi, è nato a Roma l’8 gennaio 1964. Primo Maresciallo dell’Aeronautica, è da sempre Capricchiaro e Amatriciano ed è conosciuto praticamente in tutte le frazioni. Fin da adolescente, spinto dalla volontà di fare per il proprio paese, ha organizzato un solido gruppo di giovani che, affiancati alla Pro Loco di Capricchia, ha sensibilmente migliorato la frazione: campi di calcio, un campo da tennis e uno di pallavolo, giochi per i più piccoli e, quando sono state progressivamente chiuse le osterie, un bar con spazi per i giochi di carte e il forno per le pizze. Da 25 anni organizza l’estate capricchiara, che ha come fiore all’occhiello la Sagra della panonta. Dopo essere stato presidente della Pro Loco di Capricchia, nel 2015 ha favorito la riorganizzazione del comitato con l’ingresso di una nuova generazione di capricchiari. 
La notte  del 24 agosto 2016 Roberto si trovava ad Amatrice, dove aveva appena finito di lavorare al festival delle frazioni per lo stand di Capricchia. Dopo la scossa è riuscito a mettere in salvo sé e la sua famiglia e ha aiutato persone in gravissima difficoltà. Da quel momento si è trasferito a Capricchia, prima facendosi distaccare presso il 3 stormo di Villafranca, impegnato ad Amatrice, quindi ottenendo il trasferimento presso la stazione dell’Aeronautica del Terminillo. 
A Capricchia, Roberto ha assistito moltissimi capricchiari che venivano a recuperare qualcosa nelle case, ma soprattutto si è occupato della logistica, della razionalizzazione degli aiuti e di tenere aperta per tutto il 2016 e il 2017 la Pro Loco, che ha fornito un numero indefinibile di pasti a squadre di soccorso, amatriciani, forze dell’ordine e giornalisti; inoltre, dalla mattina del 24 agosto e fino al 7 agosto 2017 il bar è rimasto aperto e gratuito per tutti. Unendo i suoi sforzi a quelli delle associazioni Capricchia nel Cuore, Pro Loco e SOS Capricchia, la frazione non solo è rimasta viva, ma è cresciuta come numero di abitanti rispetto a prima del sisma, né ha ceduto dopo i terremoti di ottobre e del gennaio 2017. Proprio nel 2017 è stata organizzata una nuova estate capricchiara con presenze medie giornaliere di 70 persone.

Oggi Roberto vive assieme alla famiglia a Capricchia in una SAE, dove continua a svolgere la sua attività di sostegno al paese.