lunedì 6 novembre 2017

CRONACHE DALLA RIVOLUZIONE 3

Dopo la partenza della missione diplomatica italiana da Pietrogrado, il consolato italiano fu posto alle dipendenze della legazione svizzera funzionando come II sezione dell’ambasciata. Pirone fu aiutato nel suo lavoro da Angelo Fratini, un italiano che viveva a Pietrogrado da molti anni e che sarebbe rimasto, da vice presidente della comunità italiana, anche dopo la conclusione della guerra civile, e da Giacomo Bastucchi. Essi cercarono di proteggere, tra l’altro, anche gli interessi dei pochi greci del Dodecaneso «contro l’applicazione di tasse di guerra, contribuzioni per la rivoluzione, leggi fiscali sul lavoro obbligatorio» e se in questo si riuscì sempre nell’intento, molto «più difficile fu lottare contro la confisca di beni terrieri in provincia o di esercizi di vendita in città: confische che rivestirono spesso il carattere di violenta rapina».
Come a Mosca, anche a Pietrogrado, del resto, l’attitudine delle autorità bolsceviche verso gli stranieri peggiorava con i mutamenti della situazione politica e strategica in Russia e quando ai primi di luglio del 1918 scoppiò a Pietrogrado la rivolta armata dei socialisti-rivoluzionari, prontamente repressa, Zinov’ev, («altro ebreo, di cognome Apfelbaum», commentò Pirone), e il capo della Čeka Urickij ricevettero poteri straordinari, divenendo in pratica i veri padroni. Cominciò anche lì «il periodo terribile dell’estate – autunno 1918: una sequela di delitti impressionanti, di violenze, di vendette».  Pietrogrado «che durante la guerra aveva visto pulsare più intensa la sua vita; che durante la rivoluzione parve presa in un turbine di follia, col terrore cominciò a morire: decadde, si spopolò, tra gli arresti e l’esodo della popolazione, cambiò aspetto, divenne tetra, soffocante [...]. Cadevano morti per fame i cavalli delle vetture, sempre più rare, e le carogne abbandonate, furono dapprima preda dei cani, più tardi degli uomini [...]. Spesso, con gli animali, cadevano per fame gli uomini; ma a questi si badava meno. I rari passanti, se della vecchia società, si riconoscevano al portamento signorile [...]; se della nuova borghesia dei soviety, la «sovbur», spiccavano per lo sguardo sfacciato ed insolente e assai più per i lineamenti tipici della razza ebraica, per il viso completamente raso e quegli occhiali a stanghetta, che non so se fossero moda o camuffamento di tutti gli ebrei del partito comunista». Raffaele Pirone ricorda, poi, che a partire dall’attentato a Lenin «la violenza vendicativa dei bolscevichi non ebbe più limiti: [...] migliaia di vittime cristiane furono sacrificate ai mani di Urickij ebreo; barconi interi di arrestati furono affondati allo sbocco della Neva fra Pietrogrado e Kronštadt; centinaia di inermi, ammassati sulla spiaggia di Oranienbaum e massacrati con le mitragliatrici». Il 4 settembre (il 31 agosto, secondo Pirone), poi, fu invasa l’Ambasciata britannica di Pietrogrado, fatto che costò la vita dell’addetto navale, il capitano F.A. Cromie, mentre lo stato maggiore del consolato britannico e della missione fu arrestato. «Ricordo», stigmatizzò da Mosca Majoni, «il gatto schiacciato dall’autocarro, fra le esclamazioni di commiserazione della folla. Il cadavere dell’ufficiale dilaniato non suscita invece nemmeno un timido richiamo al più elementare senso di umanità». I funerali, che si svolsero il 6 settembre, segnarono una nuova svolta negativa, perché da quel giorno «tutti i consoli cominciarono ad esser pedinati». 
I diplomatici rimasti in città poterono poco: essi si recarono ripetutamente da Zinov’ev per protestare contro la violazione del diritto internazionale (molto significativo fu il fatto che le legazioni di Germania e Austria-Ungheria si unirono alla protesta), ma non riuscirono a ottenere la liberazione dei cittadini stranieri arrestati. Fu quello il momento in cui moltissimi italiani, decisi a restare in Russia nonostante la rivoluzione, furono infine «presi dalla febbre della partenza».
Coinvolto in prima persona anche negli affetti Pirone, che conosceva la Russia dal di dentro per avervi abitato diversi anni, cercò di leggere gli avvenimenti dando loro una spiegazione non contingente, ma di principio, proprio com’è abitudine dei russi dai quali, in parte, raccolse il giudizio, sebbene con alcune varianti. Egli, infatti, attribuì lo scoppio del terrore «all’odio degli ebrei per la Russia, da cui non avevano avuto che ingiustizie ed oppressione; e se ne adduceva a fondamento il fatto che gli autori del colpo di mano di ottobre fossero quasi tutti ebrei, proscritti o perseguitati dal regime zarista», ed era possibile, aggiungeva il console di Avellino, «che in ciò vi sia del vero», ma al contrario dei russi vide anche nel comportamento «agnostico» delle Potenze un contribuito decisivo all’ascesa dei bolscevichi dopo il 7 novembre: «se, invece della solita politica del fare e non fare, i governi occidentali l’avessero davvero rotta con la Russia, ma di un colpo, e seguendo una linea concorde; e se, infine, invece di tentare di uccidere il mostro con irritanti ferite, avessero pensato veramente al colpo mortale, forse il terrore non sarebbe stato quello che fu: lo scatenamento della più cieca e cinica barbarie. Io che ho assistito a strazi, dolori, rovine inenarrabili, ritengo che migliaia di vittime sarebbero state risparmiate, molte rovine evitate, se dal 1918 i bolscevichi non fossero rimasti senza controllo, assoluti padroni di una terra immensa». Il grave giudizio, dettato dall’emotività di chi ha vissuto in prima persona quelle vicende, attribuisce agli Alleati facoltà che essi non ebbero (decidere con la loro azione i destini di un Paese), né tiene conto di alcune contingenze ben precise in parte già osservate ma che è bene ripetere: tra il 1917 e il 1918 la guerra mondiale influì in modo profondo sulla politica delle Potenze, le quali non potendo concentrare gli sforzi nelle vicende russe, furono costrette ad agire in una situazione geopolitica poco chiara. Per loro, come si è già evidenziato, era fondamentale la prosecuzione della guerra da parte della Russia, ma quando questa firmò la pace con la Germania, la paura che i bolscevichi si trasformassero in pedine in mano al nemico condizionò nuovamente le decisioni degli uomini dell’Intesa. Le Potenze, inoltre, si trovavano ad agire in una terra che diventava per loro sempre più ostile, ed erano impossibilitate a usare i loro eserciti, impegnati altrove; cercarono, quindi, di appoggiare quelle forze russe che contrastavano i bolscevichi dal di dentro, senza, peraltro, riuscire a proteggerle in modo decisivo. I fronti, inoltre, come i governi in Russia in quel periodo, erano molteplici e poco chiara la situazione di vaste regioni come il Caucaso, occupato nel 1918 dai tedeschi, o l’Ucraina, divisa tra tedeschi, bolscevichi e truppe leali al governo provvisorio di Kerenskij, o i Paesi baltici. Le Potenze, insomma, non solo non poterono agire in modo deciso durante l’ultimo anno di guerra per cercare di destabilizzare il regime sovietico ma non poterono intervenire neanche dopo il novembre 1918 in quanto nessuno era disposto a impegnarsi in un nuovo conflitto dopo quattro anni di tragedie mentre anche l’epidemia di febbre spagnola, che mieté milioni di vittime, contribuì ad allargare i margini  della catastrofe europea. Si perse in tal modo nuovamente del tempo prezioso e quando, infine, il regime bolscevico si stabilizzò, furono troppi gli uomini politici, specialmente di sinistra, che a ovest descrissero, in buona o cattiva fede, la nuova realtà come un sistema diverso da quello che era, suscitando in alcuni strati della società europea infondate speranze e in altri, forse, insperati allarmi.

Il giudizio di Pirone appare dettato dalla disperazione di chi si sentì abbandonato dai suoi superiori e visse in prima persona le drammatiche esperienze della guerra civile russa. L’autunno del 1918, poi, segnò l’inizio di nuovi e più drammatici avvenimenti. Dopo aver saccheggiato i palazzi dell’aristocrazia, racconta Pirone nelle sue memorie, «i proletari si dettero alla distruzione delle case di legno, per ricavarne il legname, che vendevano poi a prezzi favolosi e sempre più alti con l’incalzare del freddo. L’inverno del 1918 – 1919! Un inverno senza luce: mancava elettricità per mancanza di combustibile; mancava il petrolio; le candele steariche, una rarità, [...] si mangiavano invece del grasso [...]. Che non si mangiò allora! La putrida carne di cavallo era una ghiottoneria. L’olio di ricino rancido, che una cooperativa straniera [...] vendeva a prezzo d’oro, era un grasso ricercatissimo. Cereali non ve ne erano. Il pane, un tritume di paglia, segatura di legno e crusca, non si aveva tutti i giorni. Le patate fradice andavano a ruba». Convinto di poter comunque lasciare Pietrogrado, dopo l’evacuazione di un congruo numero di italiani avvenuta verso la fine del 1918 Pirone si rese conto di essere divenuto un ostaggio «sia per gli italiani partiti, sia per gli atti di ostilità che l’Italia compiva verso la Russia con l’occupazione insieme agli ex alleati di Arkangel’sk e la partecipazione dei nostri soldati, partiti per la Siberia, alle mosse di Kolčak».
Con il 1919 Pietrogrado la situazione di Pietrogrado peggiorò ulteriormente, tanto che all’inizio di febbraio fu abbandonata anche dalle rappresentanze dei paesi neutrali; partì, con esse, la legazione svizzera e solo i pochi consoli «o piuttosto una finzione di corpo consolare», commenta Pirone, «rimasero ormai il tenue filo che legava ufficiosamente i bolscevichi all’Europa». Prima di partire l’ambasciatore svizzero Jounod convocò i rappresentanti consolari di Italia, Belgio, Gran Bretagna e Olanda per un incontro con il rappresentante del commissariato agli Esteri della comune di Pietrogrado, Šlovskij, che chiese ufficialmente il riconoscimento del governo rivoluzionario. Questi parlò anche di una tassa di guerra da applicare agli stranieri, abbastanza onerosa e diversa a seconda si trattasse o meno di appartenenti a uno stato belligerante. Šlovskij promise la sicurezza degli immobili e delle persone e Pirone ebbe l’impressione che questi «volesse trattare con noi a ogni costo e con ogni mezzo». Gli sembrò anche che la Svizzera, in definitiva, non era aliena all’idea di entrare in trattative con il governo bolscevico «e non con il solo scopo di compenso per l’esonero degli svizzeri dalla tassa straordinaria». A distanza di poche ore, però, Pirone mandava un’ulteriore e più drammatica nota a Roma dove parlava della soppressione morale «di ogni libertà umana» e di una vita «ridotta a una primitività che fa pensare all’uomo delle caverne». Pietrogrado «è squallore, miseria, desolazione, rovina; vi si muore di fame e freddo più che di tifo petecchiale e vaiolo», mentre il prezzo degli alimenti era salito ad altezze inverosimili. I negozi, per la maggior parte, erano stati requisiti e chiusi e la merce confiscata era finita al mercato nero. Il denaro latitava in quanto il sistema bancario era bloccato e continuava una certa fuga di capitale all’estero. Fu quella, commenta Pirone, «l’epoca in cui le autorità stesse divennero rigidissime in fatto di partenze degli stranieri, ciò che contribuì a rendere la posizione di molti nazionali quanto mai critica». Restavano a Pietrogrado una trentina di famiglie, circa 150 persone, per lo più «malate o rovinate dalle sofferenze e dalle privazioni che non sono assolutamente in condizione di tentare un lungo viaggio». In questo contesto il console rammenta che la società di beneficenza di Pietroburgo di cui era presidente aveva esaurito i fondi «dopo aver per cinquant’anni esplicato un’opera altamente patriottica e filantropica, per la quale non vi saranno mai lodi sufficienti». 
Nei mesi successivi la realtà della Russia si incupì ulteriormente. Nel marzo 1919 Pirone si ammalò; fu dapprima colpito da una retinite all’occhio sinistro, quindi da un attacco di appendicite. Ciò nonostante il medico e console italiano continuava il lavoro, dopo essere riuscito ad ottenere dal rappresentante a Pietrogrado del commissariato agli Esteri nuove immunità per sé e per il consolato e dal commissiariato agli Approvvigionamenti il permesso per gli italiani di acquistare mensilmente viveri nelle cooperative sovietiche attraverso una tessera. «Mi vedevo talvolta al consolato», ricorda Pirone, «facce sospette di ebrei, che venivano a domandarmi le cose più insignificanti; altra volta mi accorgevo per via di essere pedinato. Non vi era notte senza perquisizioni, arresti di conoscenti o amici, con interrogazioni dirette o indirette sulle relazioni con me». I sospetti del console si rivelarono esatti e dopo qualche tempo i bolscevichi, in risposta all’offensiva delle truppe bianche contro Pietrogrado cominciata il 13 maggio, decisero di procurarsi dei nuovi ostaggi. Il 2 giugno 1919 Pirone e gli altri consoli alleati rimasti a Pietrogrado furono arrestati dalla Čeka. Di ritorno dall’Istituto, egli trovò l’abitazione piena di agenti diretti da un uomo e una donna, «faccia e  portamento degli ebrei di bassa provenienza: lui era il commissario, lei era la segretaria, interprete, non so». Nel corso della perquisizione che seguì furono trovate, tra l’altro, minute di articoli scientifici scritti da Pirone, oltre che in italiano, in tedesco, francese e inglese; anche in questo caso il medico italiano non nasconde la propria attitudine verso i bolscevichi: «Mi domanda perché scrivessi in tante lingue oltre il russo; e poi perché avessi tanti libri stranieri, e tante vedute, e carte geografiche di vari Paesi. Era la curiosità dell’inquisitore, o quella dell’ebreo vissuto fino allora in qualche oscuro fondaco di rigattiere, e portato di botto alla luce del giorno dai confratelli della rivoluzione bolscevica?». Mentre la perquisizione procedeva anche il vice console Angelo Fratini fu condotto con la forza in casa di Pirone e fino al 4 giugno entrambi furono trattenuti in casa mentre il consolato italiano veniva saccheggiato. Una collega di Pirone, la dottoressa Nakonečnaja, che sarebbe divenuta in seguito la sua seconda moglie, fu arrestata, mentre lo stesso medico italiano, dopo un ennesimo attacco di appendicite, fu trasferito in un ospedale per essere operato dal suo amico, il dottor Gol’dberg, dove ebbe modo di conoscere la figlia di un degente suo vicino di letto; la descrizione che egli fa di un colloquio con lei merita di essere riletta: «Era una israelita e, come molti correligionari, lontana dalla sinagoga; ma lontana pure dal tempio di Cristo. Sentiva, però, l’aridità del suo spirito ed il bisogno di sollevarsi; e non nascondeva la sua poca simpatia per le idee del padre: un rigido sionista ed osservante al punto da imporre al figlio, fidanzatosi con una ortodossa, che questa passasse all’ebraismo per essere degna di entrare nella casa loro. Parlammo dell’Italia, di Roma, dove lei sognava di andare per vedere soprattutto San Pietro, i musei vaticani e il papa, specialmente questi. Chissà, forse perché il padre affermava che i papi erano stati assai più remissivi verso gli ebrei di molti liberalissimi príncipi?». 
Nonostante l’interessamento dell’Istituto dove lavorava, dell’Accademia delle scienze e dell’associazione dei medici russi, Pirone non fu rilasciato e poco dopo l’operazione, il 28 giugno, fu prelevato dalla polizia politica e portato al carcere della Spalernaja. Ancora convalescente fu rinchiuso in una cella di isolamento le cui pareti erano «muffite, sozze; un telaio di ferro fissato al muro con su un lurido sacco era il giaciglio; uno sgabello di ferro pure attaccato al muro; in un angolo del pavimento una buca aperta da cui esalava un fetore pestilenziale [...]. Guardai il sacco prima di buttarmici su, formicolava di insetti». L’infermiere che lo venne a trovare poco dopo il suo ingresso era «un ebreo; guardò attorno nella cella e mi domandò, prima di tutto, perché avessi gettato via il pagliericcio; gli feci vedere che era pieno di insetti; egli scattò violento e mi disse che ero in carcere, e non in un sito di villeggiatura, dove mi sarei potuto far passare i miei capricci borghesi». 
Nonostante l’accoglienza, in pochi giorni Pirone riuscì a farsi trasferire nell’infermeria del carcere, dove incontrò personaggi a lui noti, tra cui un vecchio funzionario del regime zarista, un chirurgo professore della Facoltà di Medicina, il lettore di inglese della facoltà di Lingue e un «professore dell’Istituto elettrotecnico, vittima di un suo ex alunno ebreo, diventato uno dei più duri commissari della Ceka». 
All’inizio di luglio Pirone fu trasferito assieme ad altri reclusi a Mosca. Il viaggio, in condizioni estreme, durò tre giorni, dal 6 al 9, finché il convoglio di prigionieri giunse in un sobborgo della capitale, il campo di Novopeskovskij; questo «campo deposito» somiglia, nella descrizione di Pirone, a tutti i campi di concentramento che a diverse latitudini e in periodi differenti del secolo appena trascorso hanno segnato le vite di tanti uomini: «era un fabbricato mezzo diruto che, durante la guerra, era stato un lazzaretto per disinfezioni; e conservava della primitiva destinazione una stufa a vapore, un bagno a doccia e la conduttura d’acqua. Il dormitorio era un’unica sala, malridotta, che avrebbe potuto contenere forse duecento persone, ma dovette accoglierne più di quattrocento». La permanenza in questo lager non durò molto e già il 14 luglio il medico fu trasferito, senza un processo o una precisa accusa ai lavori forzati al campo dell’Andronevskij Monastyr, uno dei monasteri più antichi di Mosca, trasformato dai bolscevichi prima in caserma, quindi in campo di concentramento. «Nel 1919», ha scritto Solženicyn, «ramazzando intorno a veri e presunti complotti [...] a Mosca, a Pietrogrado e altre città si fucilava secondo elenchi (ossia si prendeva chiunque, direttamente, per la fucilazione) e si rastrellava l’intelligencija cosiddetta paracadetta», ossia «tutta la cerchia scientifica, universitaria, artistica e letteraria». Pirone, però, si salvò grazie alla sua professione; svolse all’interno del campo le mansioni di medico, arrivando a percepire un paradossale salario «da quel governo che, in nome della stessa legge, mi aveva privato della libertà e depredato di tutto». Per i reclusi, del resto, la vita inizialmente non fu molto dura; le donne e gli uomini dai 18 ai 52 anni, infatti, cominciavano il lavoro dopo le otto indistintamente dentro o fuori dal campo. Si pulivano i cortili, i viali del cimitero, si andava in città a comprare, o a cercare, le cose più diverse «specialità dei reclusi ebrei», commenta Pirone, «che sapevano far sorgere ogni giorno nuove necessità per tentare di uscire». L’amministrazione cittadina, comunque, richiedeva anche uomini di fatica per le stazioni ferroviarie o i mercati, che erano forniti dal campo di concentramento. Tutto questo, però, durò pochi mesi: il liberalismo delle autorità, infatti, era direttamente proporzionale alla situazione militare, e a ogni avanzata delle truppe bianche, tanto a sud sotto la guida di Denikin, quanto a nord con Judevic, corrispondeva un giro di vite nei confronti dei prigionieri. A peggiorare le cose si aggiunse l’epidemia di tifo che colpì il campo a partire dalla fine del luglio 1919.  
In qualità di medico Pirone ebbe modo di conoscere tutti gli uomini del GULag, tra i quali si distingueva «il fior fiore dell’aristocrazia russa» o, almeno, il fiore che non era riuscito ad emigrare in tempo. Tra gli altri sono ricordati un principe Dolgorukij, un Gorčakov, un Volkonskij, un Gagarin e un Šerinskij – Šachmatov. Vi erano anche governatori di provincia, generali e ammiragli, magistrati, senatori, professori universitari, industriali. Era l’inizio di quella grande purga che avrebbe colpito dapprima la società russa, quindi lo stesso partito bolscevico, per trasformare il Paese in altro da sé nel giro di un paio di lustri. Si colpì, dunque, la base sociale più solida, il nucleo produttivo e intellettuale, per sostituirlo con la nuova leva di direttori – burocrati, i futuri uomini del regime stalinista o, per dirla con Milovan Gilas, la «nuova classe». Quando Denikin prese ad avanzare, il campo si riempì ulteriormente di nuovi arrivati, tutti «testimoni di strazi, di uccisioni, di orrori», tra cui «i più avevano anche subito sevizie inaudite».
La precaria situazione e il clima generale sempre più cupo influirono direttamente sui giudizi di Pirone in merito agli ebrei russi: se fino a poche settimane prima vedeva in essi i principali capi della rivoluzione, il GULag gli sottopose soggetti diversi, come un certo Israil Haikin, che «veniva dalla zona di confino degli ebrei; era proprio uno di quei paria della sua razza di cui vi erano in Russia più di quanto non si credesse. Conosceva gli orrori dei pogromy ed era fuggito con la moglie e i figlioletti dinanzi al saccheggio della sua terra da parte dei russi, che gli avevano tolto ogni cosa e gli avevano ucciso perfino il vecchio padre». Gli ebrei prigionieri, secondo Pirone, finirono per creare una rete di informazioni in grado di riportare con una certa correttezza quanto stesse accadendo al fronte; oltre a loro, comunque, era indice degli sviluppi esterni la stessa frequenza con la quale venivano condotti nuovi reclusi, il cui numero cresceva proporzionalmente ai successi dei bolscevichi. Si giungeva, a volte, alla paradossale situazione per la quale l’aumento della sorveglianza e del rigore era salutato dai prigionieri come l’indice di una prossima probabile liberazione, mentre la mollezza e l’indisciplina come il segno che tutto fosse passato e che sarebbe tornato l’ordine rivoluzionario. 
Verso la fine dell’estate la gestione dei campi di concentramento passò direttamente in mano alla Čeka e tutto cambiò: furono introdotte nuove regole, fu vietato il lavoro esterno e fu avviata una certa campagna propagandistica tesa al «recupero» dei borghesi e degli aristocratici che attraverso il duro lavoro avrebbero «finalmente» compreso la realtà della nuova società socialista. In ogni angolo dei GULag comparve perfino la frase, firmata «Lenin», «kto ne rabotaet, tot ne est», ossia «chi non lavora non mangia», in un Paese dove «mangiare» diventava comunque ogni giorno più complicato.  In quel periodo il campo divenne qualcosa «fra la casa di pena, il domicilio coatto, i lavori forzati, la casa di correzione, il deposito temporaneo di giudicabili», dove si trovavano insieme politici e delinquenti comuni, civili e prigionieri di guerra, «galantuomini e omicidi e ladri, gentildonne e prostitute», ma Pirone non poté più seguire l’evoluzione di quella realtà perché il 22 agosto giunse per lui l’ordine di trasferimento in un nuovo monastero moscovita, l’Ivanovskij, fondato nel XVI secolo sotto il gran principe Vasilij III. 
La situazione che l’ormai ex console italiano incontrò nel nuovo GULag, dove avevano stazionato Fratini e Bastucchi, liberati prima del suo arrivo,  era notevolmente peggiore rispetto a quella lasciata all’Andronevskij; il campo era sporco oltre ogni limite e la gente, polacchi, inglesi, americani, serbi, romeni, svizzeri, francesi, cechi e slovacchi, dormiva per terra in mezzo ai rifiuti e all’umidità. Pirone era lì da pochi giorni quando la pessima situazione sanitaria impose l’inizio di una  vaccinazione di massa tra la popolazione carceraria, in quanto le epidemie di  tifo e colera scoppiate a Mosca si erano ormai estese anche al campo. All’inizio di ottobre, poi, si assisté a un nuovo giro di vite. Il 28 settembre 1919 le truppe bianche comandate dal generale Judenič lanciarono una possente controffensiva dall’Estonia e riuscirono a conquistare i sobborghi di Pietrogrado. La situazione nel campo divenne pessima, in quanto i bolscevichi annunciarono, in caso di sconfitta, una rappresaglia nei confronti dei detenuti. Il 15 ottobre l’ufficio politico del comitato centrale del Partito comunista russo bolscevico ordinò alle truppe impegnate nella difesa della città di non arrendersi, mentre il 19 ottobre fu pubblicato l’appello di Lenin «Agli operai e ai soldati della guardia rossa di Pietrogrado» nel quale il capo bolscevico chiedeva di resistere fino all’ultima goccia di sangue. Il 21 ottobre, infine, cominciò la controffensiva bolscevica, che si concluse con una schiacciante vittoria sulle truppe bianche. Come previsto, gli arresti e le esecuzioni sommarie si moltiplicarono e i campi di concentramento si gonfiarono di nuovi inquilini: «Con i soldati e ufficiali di Denikin sempre affamati, laceri, disfatti fisicamente e moralmente, cominciarono a venire da Kronštadt, dalle frontiere della Finlandia, da Luga, da Pskov ostaggi in gran numero, in massima parte donne. Vedove e orfane di ufficiali di marina, uccisi a Kronštadt, le quali dovevano aver conosciuto chi sa quali orrori della fame, per trovare un tesoro il nostro già scarso e orribile cibo [...]. E poi vecchie cadenti e bambini che non sapevano neppure dire dove fossero e perché; e contadine della Carelia, che spesso non parlavano una parola di russo. Fra queste, una aveva un bambino di poco più di una settimana che le agonizzava fra le braccia per il freddo e la fame». Il numero dei prigionieri del campo triplicò in breve tempo e tutto prese l’aspetto di «qualcosa tra la fiera, la piazza, il marciapiede e talora la bolgia, in cui una accozzaglia di gente si moveva, si agitava, si esprimeva nei più diversi modi e nelle più diverse lingue». Gli uomini e le donne presenti provenivano dalle parti più lontane di quello che era stato l’Impero russo ed erano di nazionalità e astrazione sociale le più diverse: «[...] ebrei e tartari; armeni e russi; polacchi, ucraini, stranieri; ufficiali con la divisa a brandelli e borghesi stracciati; monaci e preti, vecchi gentiluomini che conservavano, sotto i vestiti laceri, residui di nobiltà nel portamento, e sfacciati bolscevichi che male nascondevano, sotto la divisa delle guardie rosse, la loro criminalità [...]. E fra le donne: donne del popolo sguaiate e sciatte e dame della vecchia aristocrazia compassate e raccolte nei loro cenci; contadine del litorale estone-finlandese [...] e delle province baltiche; ucraine nei loro costumi e signore della nobiltà polacca; propietarie di campagna della Siberia e operaie della città; suore di carità e donne equivoche; e poi artiste, letterate, studentesse [...]». Nel giro di pochi giorni quelle persone diventarono «anime a nudo» impegnate in «bassezze morali e viltà», in «manifestazioni di egoismo brutale», mentre dilagavano «immoralità e vizio [...] nelle forme più basse e senza ritegno dal fondo della putredine»