sabato 5 gennaio 2013

Scendo in Strada e Manifesto

Lettera di Tiziana alla Redazione del Manifesto

Car* compagn*
come sapete sono in corso le procedure per formare la nuova cooperativa che dovrà fare in modo che il manifesto rimanga in edicola. La nuova coop è stata costituita prima di Natale da (credo) 9 persone, con uno statuto (credo sia stato ripreso quello della vecchia coop) senza che sia mai stata data una comunicazione ufficiale ai vecchi, nuovi e aspiranti soci. Se ne è parlato al giornale, sul giornale, sui social media ma chi abbia deciso i nomi dei “fondatori” e anche chi siano i fondatori io non lo so. Avrei potuto chiedere, certo, ma non ho voluto. Ho atteso invano una comunicazione ufficiale che non è mai arrivata.
E ora veniamo a “come” si sta formando la nuova cooperativa: si parte dal budget (calcolato sulle vendite attuali), si cerca di capire quanti posti di lavoro si possono salvare con quei soldi, si fanno alcune scelte (chiudere il centralino, chiudere il sito, ridimensionare l'archivio, ma questi sono solo esempi) e poi un comitato, formato da due persone, comunica ai singoli lavoratori il tipo di contratto che il giornale si può (o non si può) permettere per loro.
Il processo che io, insieme ad altri compagni, tutti ormai fuori dal giornale, compresi Rossana e Valentino, ho sempre caldeggiato, era esattamente l'inverso: prima si doveva parlare di progetto e poi di chi serviva per realizzarlo, cercando di fare un buon giornale, che aumentasse le vendite e fosse in grado di riassorbire progressivamente più persone possibili. Questo ovviamente comportava un grande e impegnativo dibattito politico che si è scelto di non fare.

I colloqui
siamo stati convocati dal comitato singolarmente (cosa che ovviamente mette le persone in condizione di debolezza) e ci è stato comunicato cosa il comitato aveva deciso per noi: contratto a tempo pieno, contratto a tempo parziale o nessun contratto, senza altra possibilità che prendere o lasciare. Ognuno poi, sempre in perfetta solitudine, ha accettato tirando un sospiro di sollievo, ha rifiutato cortesemente, ha cercato di contrattare, ha pianto le sue lacrime o ha sbattuto la porta. Questo è quello che non mi va giù: ognuno solo con le sue gioie o le sue pene, nessun processo collettivo. Ognuno che racconta “come è andata” ai suoi amici, come fosse un colloquio di lavoro in un posto qualsiasi.
Per questo ho voluto scrivere questa lettera: per rompere queste solitudini, per cercare di far sentire meno solo e rabbioso chi è rimasto tagliato fuori.
Che fosse necessario un drastico ridimensionamento del personale lo sapevamo tutti ma che questo fosse il modo migliore per farlo, no, questo proprio no.
Che dovessimo formare una nuova cooperativa lo sapevamo tutti, che si formasse in questo modo, con questi tempi, senza alcuna discussione collettiva sul chi e sul cosa, no, questo proprio non lo accetto.
Siccome sono abituata a partire da me, vi racconto il mio colloquio (avvenuto ieri, 28 dicembre, ultimo giorno utile prima della liquidazione della vecchia coop): qualcuno, non so chi, ha deciso che bisognava chiudere il sito. Inutile dire che chi ci ha lavorato non è stato coinvolto in questa decisione, è stato informato solo a decisione già presa. Nessuno ha chiesto al gruppo di lavoro del sito se si poteva trovare una soluzione transitoria, per cercare di tenerlo aperto comunque, solo colloqui personali in cui si poteva accettare o rifiutare una soluzione alternativa oppure prendere atto di essere stati tagliati fuori. Dei quattro che lavoravano al sito uno è in pensione, a due sono stati offerti contratti certo molto miseri ma pur sempre contratti, a me è stato detto che non c'era alcuna possibilità di contratto. L'unico vantaggio economico che viene al giornale, quindi, è il taglio del mio stipendio, solo del mio, a fronte dell'immenso danno di immagine che comporta la chiusura del sito del manifesto. Se poi mi viene da pensare che la decisione di chiudere il sito sia stata presa al solo scopo di eliminare una persona scomoda, praticamente l'unica rimasta del gruppo dei “dissenzienti” dite che sbaglio? Può darsi, ma io non posso fare a meno di pensarlo. 
A questo bisogna aggiungere un particolare: mi sono stati tolti i premessi di amministratore della pagina Facebook del manifesto. Inutile dire che neanche questo è stato oggetto di discussione, me ne sono accorta da sola, loggandomi alla pagina. Forse qualcuno ha pensato che potessi abusare dei permessi da amministratore per farne un uso improprio? Se così è quel qualcuno si sbaglia: non ho mai pensato di usare gli strumenti che il manifesto mi dava per scopi personali. Sono una persona seria e non tollero che questo sia messo in discussione.
Tanto per togliere qualche eventuale dubbio, non ho voluto scrivere questa lettera per cercare di strappare uno strapuntino, magari a scapito di qualcun altro. No, cari compagni, la guerra tra poveri non mi appartiene. La mia è, ancora una volta, una battaglia politica. Continuo, come faccio ormai da quando abbiamo deciso (tutti insieme) di mettere in liquidazione la cooperativa, a contestare il metodo. Ho condiviso l'idea dei Circoli della proprietà collettiva, ho scritto documenti, ne ho firmati altri, sono intervenuta in assemblea sempre con la stessa idea in mente: la rifondazione del manifesto non è un problema sindacale e nemmeno economico. E' un problema politico e come tale va trattato. 
So per certo che molti non hanno firmato documenti o ne hanno firmati altri solo temendo di perdere il posto di lavoro. E' una preoccupazione comprensibile che ha però inibito la discussione che dovevamo e potevamo fare sul futuro del manifesto. Questo modo di procedere con colloqui personali ha fatto il resto: nessun processo collettivo, nessuna condivisione, ognuno lasciato a decidere (o a subire) da solo. Per questo ho voluto socializzare la mia esperienza e mi piacerebbe che anche altri lo facessero. Chi ha deciso di rimanere contento, chi ha deciso di rimanere con molte perplessità, chi non ha potuto decidere niente, chi ha deciso, più o meno serenamente, di non voler prendere parte a questa nuova avventura. Mi piacerebbe. E ora a voi la palla.

Tiziana

LODO MORO. 3


“Lodo Moro”: per comprenderlo bisogna conoscere chi era Stefano Giovannone, il “Lawrence d’Arabia italiano”

Attentato Romadi Tommaso Fabbri
Secondo un’ipotesi descrittiva del “lodo Moro” fornita da Francesco Cossiga e pubblicata da Valerio Fioravanti, “l’Italia avrebbe lasciato libertà di passaggio ai palestinesi; in cambio, i palestinesi s’impegnavano a non fare altri attentati in Italia, a non dirottare aerei italiani, a non colpire cittadini italiani all’estero. Inoltre, l’Italia s’impegnava ad impedire che i servizi segreti israeliani continuassero a compiere “omicidi mirati” di palestinesi sul suolo italiano”.
(Tratto da http://www.lesenfantsterribles.org/sette-gennaio/nar-in-principio-era-lazione ).
Questa ipotesi è riduttiva ma contiene un punto, l’ultimo, che merita di essere chiarito. Dire che l’Italia s’impegnava ad impedire nel proprio territorio l’esistenza stessa di attività sanguinarie israeliane contro i palestinesi significa che il “lodo Moro” presupponeva il coinvolgimento non solo dell’Olp ma anche dello Stato israeliano. E, com’è ovvio che fosse, comportava qualcosa in cambio non solo ai palestinesi ma pure ad Israele da parte dell’Italia. Il “lodo Moro” era quindi un accordo molto complesso. Ideato da un vero e proprio stratega politico e negoziato da qualche “tecnico”. Non a caso il sibillino ma intelligente ex diplomatico Sergio Romano così ne parla:
“Vi fu probabilmente un accordo, ma negoziato da qualche «tecnico» e composto da silenzi e ammiccamenti più che da clausole precisamente definite. Non è la prima volta comunque che un Paese, per evitare di essere coinvolto in un conflitto o di subirne le conseguenze, fa qualche concessione a uno dei contendenti, se non addirittura, a tutti e due” (“Craxi, Libia e «lodo Moro». Le ragioni dell’Italia”, Corriere della Sera, 15 novembre 2008).

E infatti l’accordo coinvolgeva sia l’Olp che Israele e prevedeva dei favori dell’Italia a tutti e due i contendenti. Il “lodo Moro”, detto in parole più semplici, era un doppia operazione italiana contraddistinta da un accordo di massima approvato in modo separato dalle parti in causa e da due mutevoli sottoaccordi relativamente compartimentati: da un lato con l’Olp e dall’altro con Israele. L’Olp e Israele, come stabiliva l’accordo di massima, non dovevano compiere attentati sanguinari nel territorio italiano. Per il resto, ognuna delle due parti avrebbe ricevuto in cambio qualche specifico favore dall’Italia.
La dimostrazione che quello e non altro era il modus operandi concreto del “lodo Moro” si evince da un lato dall’analisi di cosa fu veramente la “politica filoaraba” della Prima Repubblica e dall’altro dalla vera biografia di Stefano Giovannone, il capocentro del Sismi a Beirut che, fra le varie cose, aveva il compito di garantire l’applicazione del “lodo Moro”.
Leggiamo perciò cosa recentemente ha detto Carlo Mastelloni, attuale Procuratore della Repubblica aggiunto a Venezia, a proposito di questi due lati del problema:
“La politica filoaraba è un atteggiamento che aveva il Potere allora ma noi siamo sempre stati fedeli all’Alleanza Atlantica. Per esempio, quando si trattava di dare armamento a Gheddafi sicuramente l’ambasciata americana dava il suo placet. Anche perché armare significa controllare un paese. Certamente non gli davamo materiale di tecnologia avanzata. Quindi il ragionamento è molto complesso. Tant’è che alla fine di tutto, con Giovannone detenuto, chiuso il verbale lui (Giovannone stesso, ndr) dice: ‘Dottore, io lavoravo per la Cia’”.
(Mastelloni a Radio Rai, 28 ottobre 2012).
Il signor Stefano Giovannone quindi, oltre che per il Sismi, aveva lavorato per la Cia. Di conseguenza, non è per niente strano che proprio lui, “la spia di Moro” come è stata definita da Francesco Grignetti nell’omonimo ebook (e-letta Edizioni Digitali, 2012, euro 9,50), abbia collaborato anche alla difesa strategica di uno Stato alleato degli Usa come quello israeliano.
Quest’ultima vicenda l’ha raccontata, senza timore di smentita, l’ex ammiraglio Fulvio Martini che fu responsabile del Sismi dal 5 maggio 1984 al 26 febbraio 1991:
“La mia amicizia con il Mossad nasce da un episodio particolare, avvenuto nel 1971, ed è proseguita con la missione a Damasco, che ho fatto con il colonnello Giovannone (abbiamo risolto un grosso problema ed Israele era traumatizzato dalla guerra del Kippur). (…) Sono l’uomo che, insieme a Giovannone, nel 1975, fece di persona la ricognizione di tutta la retrovia siriana per il nuovo schieramento radar fornito dai sovietici. E questa non era cosa da poco”.
(Vedasi: Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo; seduta di mercoledì 6 ottobre 1999; Presidenza del Presidente Pellegrino, indi del Vice Presidente Manca)
Nel 1975, partecipando alla missione di Damasco e dando un aiuto di portata strategica al Mossad, Giovannone non tradì la “politica filoaraba” dell’Italia. Lui rispettava i protocolli e gli indirizzi stabiliti dai governanti italiani e avallati dagli Usa. Era uno specchio delle ambiguità, del cinismo affaristico e delle trasformazioni politiche dell’Italia e degli Usa. Favoriva triangolazioni commerciali di armi destinate ai palestinesi, spianava la strada alla conquista italiana di fette del mercato bellico mediorientale, puntava a far mantenere buoni rapporti economici dell’Italia con i paesi arabi produttori di petrolio ma in pari tempo svolgeva delle attività a favore diretto o indiretto del Mossad. E il Mossad non realizzò attentati sanguinari sul territorio italiano dalla fine del 1973 all’inizio di ottobre del 1981.
La storia però non finisce qui. Giovannone morì a metà luglio del 1985, mentre da qualche settimana si trovava agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Roma. L’ex spia cessò di vivere nel periodo peggiore di tutta la propria esistenza, tant’è vero che a ricordarlo in modo benevolo, addirittura nei manuali, rimase solo ed esclusivamente un servizio segreto dal nome di per sé significativo: il Mossad.
A farlo sapere pubblicamente, in particolare tramite il libro di memorie intitolato “Nome in codice: Ulisse” (Rizzoli, 1999), fu l’ex ammiraglio Martini, l’unico ex agente dei servizi segreti militari italiani che cercò di far capire chi era davvero Stefano Giovannone, il “Lawrence d’Arabia italiano”.

martedì 1 gennaio 2013

Новогоднее обращение президента Путина 2013 ОРИГИНАЛ

In grande stile @Cremlino, Putin si rivolge al paese con un discorso che viene mandato ogni ora lungo i sette fusi del paese.
Registrato dunque con ore di anticipo, pieno di retorica, in alcuni passaggi ridicolo (societa' libera), passera' alla storia come il peggior discorso per l'ultimo dell'anno finora pronunciato da un presidente russo. Segue l'inno sovietico-russo.


PS. Avevo postato il  video prima che i dementi di Repubblica, che di cose russe notoriamente non ne prendono quasi una, mettessero sul sito un passaggio del discorso presidenziale 2012, ventilando il sospetto che si tratti di un montaggio voce-video, registrati in momenti diversi. Potrebbe anche essere (anche se appare difficile), ma non perche' Putin stia male, semplicemente per far vedere al paese che NON sta leggendo il "gobbo".
E poi fanno così: gli posti un commento che scrivono cavolate e dopo nemmeno un'ora tolgono dal sito la notizia.


domenica 30 dicembre 2012

KODAK. CORRIERE. UN ANNO DOPO



L'avevamo scritto su questo blog un anno fa, in concomitanza con la crisi della Technicolor. La Kodak era in fallimento.
Oggi la notizia viene ripresa dal "Corriere" on line


Viaggio alla fine del rullino
Come è morta la fotografia analogica

Pellicole e macerie. Camere oscure profanate dalla luce, stabilimenti deserti, vecchi ritratti ingialliti sulle pareti mangiate dall’umidità. In più di sei anni passati a raccontare la fine della fotografica analogica, il reporter canadese  Robert Burley, ha raccolto in un libro e in un progetto multimediale centinaia di testimonianze di un mondo che non esiste più. “The Disappearance of Darkness: Photography at the End of the Analog Era” (realizzato rigorosamente con apparecchi e tecniche non digitali) è l’epitaffio del rullino, un lungo viaggio negli ex “santuari” della fotografia cancellati da mega pixel e schede di memoria.
Molto prima che nascesse Instagram, Burley ha documentato l’implosione di Kodak e Polaroid, visitando ciò che resta delle fabbriche, dagli Usa al Canada, fino a Belgio, Francia e Inghilterra. Scatti spettrali, immagini forti ottenute di nascosto – perché nessuna azienda voleva mostrare a occhi esterni  la propria agonia-  che svelano  l’altra faccia della rivoluzione digitale. Quella meno nota.
“E’ sconvolgente pensare quanto veloce sia avvenuto il passaggio”, osserva questo cinquantenne di Toronto, “ quelle aziende davano lavoro a migliaia di persone, possedevano interi grattacieli. Un impero costruito in un secolo è svanito in meno di dieci anni”.
Lo spartiacque è il 2003, quando per la prima volta le vendite di fotocamere digitali superano quelle tradizionali. Oltre ai reperti di archeologia industriale , le saracinesche sigillate di fotografi di provincia dopo una vita passata a immortalare matrimoni e prime comunioni. “Quando ho iniziato a lavorare al progetto (nel 2005, quando la Kodak era davanti alla Apple nella classifica delle 500 multinazionali più grandi stilata da Fortune) la transizione era ancora in corso, ora posso dire che si è conclusa

Lettera aperta a Putin di Alexander D'Jamoos



Alexander D'Jamoos, an International Relations and Global Studies sophomore in the College of Liberal Arts, spent his summer
climbing Africa’s highest peak, 
Mt. Kilimanjaro. Born in Penza, Russia, he grew up in an orphanage for children with disabilities. At
age 16, he was adopted by an American family and moved from Russia to Texas, where he learned how to walk on prosthetic legs.
His goal is to show other disabled orphans in Russia – and countries throughout the world – that nothing is impossible or unreachable.



He wrote a open letter to the president Putin



Dear President Putin, 

My name is Alexander D’Jamoos. I am 21 years old. I am currently a sophomore at the University of Texas at Austin where I am planning to major in Government and International Relations. 

I was born in Russia with deformed hands and legs, which prevented me from walking. I grew up in a state orphanage for children with physical disabilities in Nizhniy Lomov. At the age of 15, I was lucky to be adopted by a loving family in Dallas. It is because of my experience that I, like thousands of other adopted children throughout the world was in shock by the passing of the Anti-Magnitsky Law by the Russian parliament. The law, which bans international adoption of Russian orphans by American citizens, victimizes the estimated 800,000 orphans in Russia.

Throughout my childhood I had never expected to be loved by a family. My biological parents had left me in the hospital because of my disabilities. My orphanage housed about 100 children, all of whom were physically disabled and had been neglected by their parents. Some of the horrible conditions at the orphanage included no heating during harsh winters, lack of water during summer-time, rudimentary education, lack of sanitary facilities, inadequate accessibility equipment, and the worst of all, lack of love and care. Like millions of disabled Russian orphans, I expected a gloomy future in a state-run nursing home full of people rejected by Russian society merely because of their physical conditions.

I was adopted and my life has changed more than I could have ever hoped. Today, like never before, I am fully in control of my life and have great hopes and goals for my future. At Texas Scottish Rite Hospital my legs were amputated so that I would be able to wear prosthetic limbs. For the first time in my life I was able to walk. This has dramatically transformed my life. As a result of my academic success, I received many scholarships that enabled me to attend one of the best universities in the world. I learned to ski. Last summer I climbed Mount Kilimanjaro on my prosthetic legs to raise hope for disabled orphans in Russia. I now have caring parents and a little brother, whom I love dearly. I value my upbringing. I continue speaking Russian, and I stay in touch with all of my childhood friends and teachers.

These orphaned children, to whom I feel a very strong connection, are victims of an incentive-based, cruel political retaliation. The anti-adoption law claims that Americans abuse Russian children and adopt them simply to get financial benefits. These claims are not only preposterously false - they are insensitive to thousands of adopted children and their families in the U.S. Of the nearly 60,000 children who had been adopted from Russia in the past 20 years, 19 have died, while in Russia hundreds of children die in Russian families and Russian orphanages regularly. The fundamental right of every child to have a family and have a successful life is being brutally violated by this law. Every child in every country should have a right to be adopted by Russians, British, Americans or any other family regardless of their origin. The rhetoric of the Anti-Magnitsky legislation is illogical, heartless, and simply inhumane. The victims of this political demagoguery are the thousands of children who will not have hope for a bright future. Like most of my childhood friends, they are destined to spend their lives in unsanitary nursing homes or on the streets.

Like many adopted children in America, I believe the Anti-Magnitsky Law insults the very concept of a family. Had this law been introduced 6 years ago – today I would have no home, no family, I wouldn’t be able to hug my little brother, wouldn't attend a university and wouldn't experience the joy of walking and having full control of my life. 

Every civilized country ought to improve the lives of their children by closing orphanages and encouraging domestic adoption. This law includes no determination to takes such actions. It merely deprives children of all last hope they had for a life with a family. Banning adoptions due to the Anti-Magnitsky law is inhumane and is an immoral act which uses vulnerable children for meeting political goals. It does not help the orphaned children. They will be simply forgotten.

Dear Vladimir Vladimirovich, on behalf of thousands of children in Russia and the United States, I strongly urge you not to sign this law into effect.

Sincerely, Alexander D’Jamoos

21 December, 2012


Magnitsky Act.2


Nikolaj Malishevskij, 18 dicembre 2012


Theoretically, the «Sergei Magnitsky Rule of the Law of Accountability Act», became law in the United States, imposing personal sanctions against those allegedly responsible for detention, abuse , death and other serious violations of human rights in Russia. In practice it was hastily adopted to replace the so-called Jackson-Vanik amendment, which had turned into a burden for U.S. companies, preparing to enter the Russian market which has already joined the WTO... The swiftness of organization in which the Americans are well-versed in terms of the practices of the WTO, and gave them a competitive advantage over Russian entrepreneurs who are still adapting to the new conditions.
Experts have already thrown to the media several options for Russia  in response to the allegedly unexpected and unfriendly acts from the U.S. For example, the suspension of the export of beef and pork from the United States (the formal pretext being that the meat contains the very harmful additive ractopamine which is used extensively by the Americans to build muscle on animals, and is banned in 160 countries, including China). One can say that beyond the threat to «meat» exports, which is estimated annually at $ 500 million, it may prevent the U.S. Senate approving a bill to expand bilateral trade and strike a blow against the futures market on the Chicago Mercantile Exchange. Or temporarily «freeze» the activities of the structures of the Presidential Commission, established in 2009, between Dmitry Medvedev and Barack Obama and includes over two dozen working groups covering all the main areas of cooperation between Russia and the U.S., science, energy, anti-terrorism, etc.
I must say, these options are not only asymmetrical, but also can create unnecessary problems inside Russia (in the stopping of exports of harmful beef, it is not necessary to link it to human rights). The answer to the «Magnitsky Act» can only be symmetrical. This, incidentally, has already been said by Russian Foreign Minister Sergei Lavrov, who said that the answer to the enactment of the law «will be balanced and include a ban on the entry into Russia of U.S. citizens, which the Russian side believe to be guilty of actual human rights violations».
Unfortunately, until a clear answer to the question is formulated in respect of which U.S. citizens are responsible for the detention, abuse, death, and other gross violations of human rights, Russia should impose personal sanctions. Meanwhile, everything is on the table.
According to official data, over the last decade, U.S. citizens have killed 19 children adopted from Russia (also several more children have died allegedly as a result of disease and accidents). According to non-profit organizations that monitor the deaths of Russian children in American families, this figure is understated by more than half. Also it does not include children who are «lucky» and which, after the Americans throw them out, Russian-speaking authorities on Children's Rights literally stated the following: «The boy is healthy, there are no signs of injuries, there are only a few old scars».
In many of the cases where children from Russia were brutally murdered or maimed (more than 40 people), the American courts and lawyers passed unduly lenient sentences against their citizens - murderers and sadists like the Leschinsky couple from Colorado, who for 4 years abused their adopted daughters from Russia. There are clear examples, such as the case of Daniil Bukharov (American Jessica Beagley participated in talk shows and even leaked online videos showing footage of her abusing her 7 year old child) and of Vanya Skorobogatov (deemed to have died from «complications from a traumatic brain injury,» despite that on the child's body, doctors counted more than 80 injuries, more than 20 of them to the head, and also during the examination of the body, it turned out that the child was malnourished, was utterly exhausted and did not receive any medical care, his adoptive «father,» said Vanya «just fell and hit his head»).
The operation in the U.S. of «concentration camps» for Russian children is a deeply kept secret. Their existence is carefully concealed. But some things have yet been made public. For example, the so-called ranch for abandoned children «Ranch for kids» (owned by Joyce Sterkel in Montana), is as far away as possible from the outside world and is located at the Canadian border, contains dozens of children from Russia. The owner of «Ranch for Kids» failed to submit accurate data to licensing inspectors (J. Sterkel was deprived of a license a few years ago) about just how many children have been kept at the ranch during the time of its operation.
Regarding the conditions described eloquently by an escaped 9-year old Russian girl, in statements by the district attorney claimed that the children were exposed to violence. According to the words of a representative of the American Themis, Lady of Justice, despite all this, the owner of the ranch «manages to resolve all these questions».
It is significant that not all such private 'colonies' contain children abandoned by American adoptive parents. Some come here immediately after adoption. Some are still listed on the documents as «happily living in foster care». Judging by the way the U.S. government hides the existence of such children «in storage»; they know the answer to the question: can the U.S. government in fact be an honest partner with Russia, and acknowledge the failure of a significant number of American adoptive parents. Although every effort is made to hide the true state of affairs from the Russian side, this is not the only reason.
In the U.S., «adoption» of children from Russia has long since become a very profitable business. Numerous intermediaries make many millions of dollars out of Russian children, and have their own lobby in the government and the media, assuring citizens that «it is impossible to find cheaper white children».
It is the case, that in the United States (where officially there are registered more than 200,000 patients waiting for years for donor organs from children and are willing to pay from 200 thousand dollars for each «dismantled» part from a child), there are over 100 thousand children, mostly orphans, sent for international adoption. It is worth mentioning last year's official recognition by the Italian Interior Minister Roberto Maroni, who said that 1260 «foster» children from Russia that went «missing» in recent years, had been found in private hospitals for organ transplants.
That is why the symmetrical and fair Russian answer to the American «Magnitsky Act» should be a conviction and admission of guilt for: a) sadists from the U.S., that abuse children from Russia and b) the American judges and others «in law enforcement» who do not apply justice to these rapists and murderers…