venerdì 14 novembre 2014

LOTTA ARMATA, VIOLENZIA POLITICA, FARE STORIA CON METODO E VECCHI MERLETTI


La curatela dal titolo Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, pubblicata dal Mulino pochi anni fa e messa insieme da Simone Neri Serneri cercò di orientare la discussione storiografica che finalmente si era aperta sugli anni Sessanta e Settanta anche in Italia, verso categorie poco chiare come, appunto, quella della violenza politica, o politica della violenza. Tra errori fattuali e una molto lunga prefazione teorica, il saggio pretendeva di dare una lettura di quel periodo come dell’epoca della violenza, dimenticando due elementi di non poco conto: il primo, che all’epoca l’uso o meno della “violenza” come elemento di lotta (ma detto meglio, l’opzione della lotta armata) era stato un problema politico di primissimo piano, discusso all’interno dei maggiori gruppi della sinistra extraparlamentare in Italia allo stesso modo in cui era stato a suo tempo valutato all’interno del Partito comunista e di quello socialista durante e subito dopo la Resistenza. Il secondo, è che una parte non secondaria di quella che noi chiamiamo Storia è proprio un’indagine su  violenze compiute a nome e per nome di uno Stato, un gruppo etnico, religioso, rivoluzionario. L’allegro uso di una terminologia non codificata da studi universalmente riconosciuti (la parola terrorismo, per esempio, indica per questa genia di studiosi tanto le bombe sui treni quanto l’assalto a una scorta armata, così come la parola strage vale indistintamente per i morti di Bologna del 1980 e di via Fani del 1978), la presenza dei parenti delle vittime come elemento di studio, confronto e analisi (basti pensare ai libri di Tobagi e Calabresi, mentre quello di Ambrosoli appare porsi su un altro piano) hanno inquinato e inquinano la riflessione storiografica che, in mancanza (ma solo fino a poco tempo fa) della possibilità di una approfondita e accurata indagine documentale in archivio, si rifugia dietro i ricordi e le dichiarazioni dell’epoca, dimenticando o facendo finta di, che la memoria è sempre una ricostruzione a posteriori e per questo va usata con molta circospezione. A questo approccio non sfugge in parte Gabriele Donato con un saggio, riproposto da DeriveApprodi appena due anni dopo la sua prima edizione, dal titolo “La lotta è Armata”. Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972). Il testo ha il merito di aver tentato la ricostruzione di un periodo cronologicamente non ampio ma denso di fatti e svolte (la parabola di Potere Operaio e Lotta Continua è qui così come quella, miserella, delle primissime BR), ma lo ha fatto, a nostro giudizio, usando una metodologia vecchia di almeno 15 anni, un lessico post-moderno superato e incomprensibile (non capisco cosa voglia dire nella prefazione Deborah Ardilli: «Questa coordinata sarebbe insufficiente, tuttavia, se non integrasse anche un’altra posta in gioco, direttamente legata alle modalità di trasmissione e di ricezione dell’oggetto storiografico “Anni Settanta”»), una bibliografia viziata dalla presenza di libri dal dubbio valore storiografico (anche a detta di commissioni concorsuali nazionali che, per carità sappiamo come va il mondo, e comunque…) e una tesi di fondo che è un assioma: il terrorismo di sinistra sarebbe stata “l’attività di quelle organizzazioni clandestine di dimensioni ridotte che, attraverso un uso continuato e quasi esclusivo di forme d’azione violenta, mirano a raggiungere scopi di tipo prevalentemente politico». Questa definizione di Donatella Della Porta risale addirittura al 1990. A prescindere dai 24 anni trascorsi (certo anche Marc Bloch in alcuni momenti appare vetusto, ma in generale resta con Lucien Febvre un maestro per genìe di storici a venire), la definizione merita un’analisi. Intanto, se si parla di organizzazioni clandestine si devono togliere subito dal microscopio BR, PO, AN e LC. Nessuna di queste lo è stata mai. Al loro interno ci sono stati militanti che operavano in clandestinità, ma il termine non indicava “nascondersi e attendere l’azione”, bensì muoversi e fare politica avendo rotto il ponte con la propria provenienza anagrafica per dedicarsi alla lotta armata in modo totalizzante. Ricorre, poi, l’uso “quasi esclusivo della violenza”. E anche qui l’analisi si scontra con la volontà di quelle organizzazioni non clandestine (lo stesso autore tra l’altro afferma che i militanti erano conosciuti da tutti, addirittura dal Pci in Emilia) di usare l’azione armata come uno strumento politico che non rimase esclusivo o preminente, ma culmine di campagne complesse e articolate, come le lotte operaie, quelle per la casa, per la chiusura delle carceri speciali, la liberazione dei prigionieri politici ecc. Una generazione (minoritaria scrive l’autore, e allora? È quella che ha fatto la storia), che su questa decisione politica ha tenuto in scacco uno Stato “diciamo” democratico come quello della Prima Repubblica, fino a raggiungerne il cuore con l’attacco contro il presidente della DC Aldo Moro. E non è un caso che, come osserva l’autore (ma anche qui, nulla di nuovo), militanti di PO e LC passarono alla lotta armata negli anni successivi, chi nelle BR chi in Prima Linea. Quell’opzione politica, che prevedeva anche l’uso delle armi, fu incisiva tra i giovani politicizzati di quella generazione e come tale non può essere limitata a “violenza politica” ma andrebbe studiata nel suo contesto politico. Né si dovrebbe incorrere nell’errore di pensare a una teoria alla base della prassi rivoluzionaria, come l’interessante analisi della guerriglia sudamericana fatta da Donato (novità solo nell’approfondimento, non certo nelle suggestioni) potrebbe far sospettare. La prassi rivoluzionaria delle organizzazioni armate in Italia crebbe di pari passo con la loro pratica. E se, giustamente osserva Donato, le Br non furono il braccio armato di nessuno, come avrebbero voluto invece quelli di PO, in questo caso ci si trova clamorosamente di fronte proprio a quanto andiamo sostenendo: una visione terzointernazionalista come quella di PO venne superata da un nuovo modo di intendere la lotta rivoluzionaria, dove un’organizzazione formata da regolari, irregolari e simpatizzanti (più il mare per nuotare – le lotte dei proletari per la casa, la scuola, il lavoro ecc.) riuscì a inventare una prassi totalmente nuova in Italia e parzialmente in Occidente, che nella sua maggiore potenzialità si allontanò decisamente dalle teorie terzomondiste e movimentiste di Curcio e Franceschini, che condussero, da parte loro, al vicolo cieco del Partito Guerriglia. E se i due furono un fattore importante per la vittoria politica della scelta armata nel 1972, l’analisi del rapporto tra loro e Corrado Simioni all’interno del CPM manca di un capitolo importante, direi fondamentale: l’attentato del 1970 ad Atene che costò la vita a Georgios Tekousis e Maria Elena Angeloni, al posto della quale doveva essere presente in un primo tempo Mara Cagol, la compagna di Curcio. Infine, la svolta del 1969. Un'analisi zoppicante, che isola la firma del contratto nazionale dei metalmeccanici dal contesto stragista provocato dalla bomba di Piazza Fontana. Un gran bel ardire.