La curatela dal titolo Verso la lotta armata. La politica
della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, pubblicata dal Mulino pochi anni fa e messa insieme da Simone Neri
Serneri cercò di orientare la discussione storiografica che finalmente si era
aperta sugli anni Sessanta e Settanta anche in Italia, verso categorie poco
chiare come, appunto, quella della violenza politica, o politica della violenza. Tra errori fattuali e una molto lunga prefazione teorica,
il saggio pretendeva di dare una lettura di quel periodo come dell’epoca della
violenza, dimenticando due elementi di non poco conto: il primo, che all’epoca
l’uso o meno della “violenza” come elemento di lotta (ma detto meglio, l’opzione della lotta armata) era stato un
problema politico di primissimo piano, discusso all’interno dei maggiori gruppi
della sinistra extraparlamentare in Italia allo stesso modo in cui era stato a
suo tempo valutato all’interno del Partito comunista e di quello socialista
durante e subito dopo la Resistenza. Il secondo, è che una parte non secondaria
di quella che noi chiamiamo Storia è proprio un’indagine su violenze compiute a nome e per nome di uno
Stato, un gruppo etnico, religioso, rivoluzionario. L’allegro uso di una
terminologia non codificata da studi universalmente riconosciuti (la parola
terrorismo, per esempio, indica per questa genia di studiosi tanto le bombe sui
treni quanto l’assalto a una scorta armata, così come la parola strage vale
indistintamente per i morti di Bologna del 1980 e di via Fani del 1978), la
presenza dei parenti delle vittime come elemento di studio, confronto e analisi
(basti pensare ai libri di Tobagi e Calabresi, mentre quello di Ambrosoli
appare porsi su un altro piano) hanno inquinato e inquinano la riflessione
storiografica che, in mancanza (ma solo fino a poco tempo fa) della possibilità
di una approfondita e accurata indagine documentale in archivio, si rifugia
dietro i ricordi e le dichiarazioni dell’epoca, dimenticando o facendo finta
di, che la memoria è sempre una ricostruzione a posteriori e per questo va
usata con molta circospezione. A questo approccio non sfugge in parte Gabriele
Donato con un saggio, riproposto da DeriveApprodi appena due anni dopo la sua
prima edizione, dal titolo “La lotta è
Armata”. Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972).
Il testo ha il merito di aver tentato la ricostruzione di un periodo
cronologicamente non ampio ma denso di fatti e svolte (la parabola di Potere
Operaio e Lotta Continua è qui così come quella, miserella, delle primissime
BR), ma lo ha fatto, a nostro giudizio, usando una metodologia vecchia di
almeno 15 anni, un lessico post-moderno superato e incomprensibile (non capisco
cosa voglia dire nella prefazione Deborah Ardilli: «Questa coordinata sarebbe
insufficiente, tuttavia, se non integrasse anche un’altra posta in gioco,
direttamente legata alle modalità di trasmissione e di ricezione dell’oggetto
storiografico “Anni Settanta”»), una bibliografia viziata dalla presenza di
libri dal dubbio valore storiografico (anche a detta di commissioni concorsuali
nazionali che, per carità sappiamo come va il mondo, e comunque…) e una tesi di
fondo che è un assioma: il terrorismo di sinistra sarebbe stata “l’attività di
quelle organizzazioni clandestine di dimensioni ridotte che, attraverso un uso
continuato e quasi esclusivo di forme d’azione violenta, mirano a raggiungere
scopi di tipo prevalentemente politico». Questa definizione di Donatella Della
Porta risale addirittura al 1990. A prescindere dai 24 anni trascorsi (certo
anche Marc Bloch in alcuni momenti appare vetusto, ma in generale resta con Lucien
Febvre un maestro per genìe di storici a venire), la definizione merita
un’analisi. Intanto, se si parla di organizzazioni clandestine si devono
togliere subito dal microscopio BR, PO, AN e LC. Nessuna di queste lo è stata
mai. Al loro interno ci sono stati militanti che operavano in clandestinità, ma
il termine non indicava “nascondersi e attendere l’azione”, bensì muoversi e
fare politica avendo rotto il ponte con la propria provenienza anagrafica per
dedicarsi alla lotta armata in modo totalizzante. Ricorre, poi, l’uso “quasi
esclusivo della violenza”. E anche qui l’analisi si scontra con la volontà di
quelle organizzazioni non clandestine (lo stesso autore tra l’altro afferma che
i militanti erano conosciuti da tutti, addirittura dal Pci in Emilia) di usare
l’azione armata come uno strumento politico che non rimase esclusivo o
preminente, ma culmine di campagne complesse e articolate, come le lotte
operaie, quelle per la casa, per la chiusura delle carceri speciali, la
liberazione dei prigionieri politici ecc. Una generazione (minoritaria scrive
l’autore, e allora? È quella che ha fatto la storia), che su questa decisione
politica ha tenuto in scacco uno Stato “diciamo” democratico come quello della
Prima Repubblica, fino a raggiungerne il cuore con l’attacco contro il
presidente della DC Aldo Moro. E non è un caso che, come osserva l’autore (ma
anche qui, nulla di nuovo), militanti di PO e LC passarono alla lotta armata
negli anni successivi, chi nelle BR chi in Prima Linea. Quell’opzione politica,
che prevedeva anche l’uso delle armi, fu incisiva tra i giovani politicizzati
di quella generazione e come tale non può essere limitata a “violenza politica”
ma andrebbe studiata nel suo contesto politico. Né si dovrebbe incorrere
nell’errore di pensare a una teoria alla base della prassi rivoluzionaria, come
l’interessante analisi della guerriglia sudamericana fatta da Donato (novità
solo nell’approfondimento, non certo nelle suggestioni) potrebbe far
sospettare. La prassi rivoluzionaria delle organizzazioni armate in Italia
crebbe di pari passo con la loro pratica. E se, giustamente osserva Donato, le
Br non furono il braccio armato di nessuno, come avrebbero voluto invece quelli
di PO, in questo caso ci si trova clamorosamente di fronte proprio a quanto
andiamo sostenendo: una visione terzointernazionalista come quella di PO venne
superata da un nuovo modo di intendere la lotta rivoluzionaria, dove
un’organizzazione formata da regolari, irregolari e simpatizzanti (più il mare
per nuotare – le lotte dei proletari per la casa, la scuola, il lavoro ecc.)
riuscì a inventare una prassi totalmente nuova in Italia e parzialmente in
Occidente, che nella sua maggiore potenzialità si allontanò decisamente dalle
teorie terzomondiste e movimentiste di Curcio e Franceschini, che condussero, da
parte loro, al vicolo cieco del Partito
Guerriglia. E se i due furono un fattore importante per la vittoria
politica della scelta armata nel 1972, l’analisi del rapporto tra loro e
Corrado Simioni all’interno del CPM manca di un capitolo importante, direi
fondamentale: l’attentato del 1970 ad Atene che costò la vita a Georgios
Tekousis e Maria Elena Angeloni, al posto della quale doveva essere presente in
un primo tempo Mara Cagol, la compagna di Curcio. Infine, la svolta del 1969. Un'analisi zoppicante, che isola la firma del contratto nazionale dei metalmeccanici dal contesto stragista provocato dalla bomba di Piazza Fontana. Un gran bel ardire.