giovedì 30 aprile 2015
mercoledì 29 aprile 2015
GLI OCCHI DI M*
M*
è alto sì e no un metro e cinquanta. Una zazzera di capelli neri,
sparati sulla fronte, dritti come spaghi. La testa spesso piegata un
po' in avanti, la nuca bloccata in una posizione rigida. Due
occhietti da cinesino - anche se cinese non lo è affatto -, uno è
strabico. Non ti guarda mai negli occhi M*. Ha lo sguardo puntato
verso il basso, come se sul pavimento o su quella linea di
congiuntura tra muro e pavimento si celasse il senso del mondo. M*
non parla. Non dice una parola, non le articola nemmeno le parole.
Tutto quello che esce dalla sua gola sono versi, ringhi. A labbra
serrate. A volte all'improvviso il volto si apre in un sorriso
enorme, luminoso e poi parte in una risata senza suono. Tutto il suo
corpo ti dice che quella è una risata. Non so neppure quanti anni
abbia, non è un allievo delle mie classi, studia in seconda al liceo
delle scienze umane, che sta nello stesso edificio del mio. Quando mi
capita di incontrarlo per i corridoi, lo saluto con un brioso “Ciao
M*!” che non produce alcun effetto. Lui sembra impermeabile a me,
io inesistente per lui. È il beniamino della docente di italiano e
storia, che non è neppure la sua professoressa. Capita che M* sia
agitato e così l'insegnante di sostegno lo tiene per un po' fuori
dalla classe. Allora la professoressa di italiano e storia se lo
prende in un vorticoso giro di valzer, ballano, ballano con la musica
fatta con la voce. M* non dimostra alcuna emozione, il volto resta
impassibile, ma si lascia trasportare da quel volteggiare leggero
senza protestare. Finito il volo, ringhia con un suono rauco, neppure
una vocale, un suono e basta. Oggi sta in sala insegnanti, seduto sul
divanetto. Si torce le manine paffuttelle, con le dita piegate in
modo innaturale, guarda in basso e dondola col busto avanti e
indietro avanti e indietro. L'insegnante di sostegno lo stimola con
dolcezza a finire la sua merenda: cubetti di formaggio che la mamma
adottiva gli prepara nella giusta dimensione e che a lui piacciono da
morire. Mangiatone uno esprime tutta la sua soddisfazione con un
rauco “MMMMMMM!” e tu capisci che vuole anche dire: ancora! Io
siedo al tavolone, gli do le spalle, ma con la coda dell'occhio lo
vedo ugualmente. Cerco di concentrarmi sul voluminoso libro che ho
davanti, ma sono piuttosto stanca e il periodo non è dei migliori,
perciò mi capita più volte di sprofondare in qualche pensiero e di
ritrovarmi con la guancia appoggiata alla mano e lo sguardo perso
fuori dalla finestra. Ora M* si è fatto silenzioso, sembra più
tranquillo, ha smesso di dondolare. Torno con gli occhi sulle righe
fitte e nere. Ad un tratto sul mio braccio sinistro si appoggia il
braccio dalla felpa rossa di M*, sento appoggiato alle mie spalle
quel corpicino che mi sta abbracciando. Per un attimo resto di sasso
dallo stupore, poi anche il mio corpo si placa, si abbandona. Riesco
solo a dire, sorpresa, il suo nome e dargli una carezza sulla guancia
e lungo tutto il braccio.
domenica 26 aprile 2015
NESSUNO SPARO' AL TESTIMONE
LA RICOSTRUZIONE DI PAOLO PERSICHETTI DI UNA DELLE BUFALE PIU' DIFFICILI DA METTERE IN DISCUSSIONE O SMONTARE DEL CASO MORO. LA MOTO HONDA, I SERVIZI, IL MOTORINO
Il ciclomotore Ciao della Piaggio che vedete raffigurato nella foto è il motorino del famoso super testimone di via Fani, quell’Alessandro Marini che aveva dichiarato d’aver visto una moto Honda partecipare al rapimento di Aldo Moro e successivamente di aver ricevuto dei colpi di arma da fuoco (singoli in alcune deposizioni, a raffica in altre) da uno dei passeggeri della stessa moto (per poi, in realtà, tornare sulle sue parole in altre circostanze). Colpi che a suo dire avevano distrutto il parabrezza del ciclomotore, mentre la moto si allontanava a tutta velocità verso via Stresa dietro la 132 che portava via il presidente della Democrazia cristiana. Anche un senatore, Luigi Granelli, membro della commissione Stragi, nel febbraio del 1994 scrisse in una relazione che il parabrezza era stato attinto da un colpo di pistola, come avrebbe stabilito una perizia. Gianremo Armeni, nel suo libro appena pubblicato, Questi fantasmi. il primo mistero del caso Moro (Tra le righe libri), ha dimostrato prove alla mano che quella perizia non venne mai realizzata perché il parabrezza, acquisito dalla Digos solo nel settembre 1978, non uscì mai dall’ufficio corpi di reato, salvo in due brevi circostanze (marzo e maggio 1994) per essere sottosposto a ricognizione.
Poco prima della scorsa estate, rileggendo le deposizioni di Marini, avevo notato che in quella del 1994 dichiarava di non ricordare bene quando era tornato a prendere il motorino che aveva lasciato incustodito. A quel punto mi sono chiesto se tra le tantissime foto che raffigurano via Fani la mattina del 16 marzo, non ce ne fosse qualcuna dove era visibile un ciclomotore. Non un ciclomotore qualunque ma un motorino (Marini aveva un Ciao) munito di parabrezza. Non un parabrezza qualunque ma – come precisava lo stesso testimone – un parabrezza tenuto trasversalmente da un nastro da pacchi a causa di una caduta dal cavalletto avvenuta nei giorni precedenti.
In ogni caso sufficienti a stabilire che si trattava del motorino descritto da Marini. Era la prova, l’ennesima – come poi ha dimostrato Armeni nel suo saggio – che il super testimone aveva mentito su tutta la linea. Devo riconoscere che l’estrema facilità con la quale sono arrivato a questo risultato mi ha stupito molto, possibile che in tutti questi decenni a nessuno sia venuto in mente di fare una verifica del genere? Comprendo che le verifiche non siano materia per i complottisti, che quando incontrano elementi del genere che smentiscono le loro ipotesi fanno capriole e passano oltre, ma l’esercito di inquirenti e magistrati che si sono occupati della vicenda dove guardavano? Un singolare strabismo investigativo su cui torneremo più avanti.
Nelle settimane scorse, Nicola Lo Foco, autore di un saggio pubblicato nel gennaio 2015,Il caso Moro. Misteri e segreti svelati (Gelsorosso editrice), una accurata demistificazione delle ricostruzioni dietrologiche del rapimento Moro, rivolgendo la propria attenzione non solo a quel che accadde in via Fani la mattina del 16 marzo 1978 ma anche ad altri toposdella vulgata misteriologica sulla vicenda, come la base delle Brigate rosse di via Gradoli e l’appartamento prigione via Montalcini, nel quale l’uomo di Stato venne tenuto per tutti i 55 giorni del rapimento, dopo aver letto l’inchiesta in 5 puntate apparsa su Insorgenze.net e sul Garantista, nella quale pubblicavamo le foto del motorino di Marini, ha messo in rete un formato molto più grande della foto a colori in cui è raffigurato il ciclomotore. Immagine di migliore qualità che permette di ingrandire con un efficacia superiore il dettaglio. Lo ringraziamo per questo prezioso contributo.
A questo punto possiamo dire che il cerchio è chiuso!
A questo punto possiamo dire che il cerchio è chiuso!
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