Giuseppe La Rosa, morto oggi in Afghanistan |
Dall’Afghanistan
non si torna a missione in corso. Questo il senso delle parole di tutti i ministri
della Difesa che si sono succeduti dall'inizio dell'invasione del paese. La missione, finanziata da sempre con voto bipartisan, ha però cambiato volto da tempo: sono aumentati i Predator e la copertura dei Tornado. E' stata rafforzata la blindatura dei Lince e sono stati aggiunti mezzi blindati di ultima generazione. À la guerre come à la guerre, perché da tempo è guerra e non missione di pace. Qualcuno, non chiedo ai politici, ma qualcuno tra gli osservatori, spieghi in modo chiaro per quale motivo in Afghanistan ci sono
tutti quei soldati mentre, che so, in Pachistan, il vero centro dell’integralismo, no. In attesa, tornano alla mente le parole di Palmiro
Togliatti, scritte nell’inverno del 1943 a Vincenzo Bianco e che nel 1992
suscitarono tanto clamore in Italia quando le pubblicò “Panorama”.
Ricordo brevemente i termini della questione. Siamo nell’inverno del 1943, uno dei più
freddi di tutta la guerra. Da pochissime settimane l’armata italiana in Russia
(l’Armir) era stata costretta a una ritirata disordinata dopo la rottura del
fronte a Stalingrado. Circa 90.000 italiani caddero prigionieri dei sovietici e
di questi solo poco più di diecimila alla fine sarebbero sopravvissuti. La
maggior parte di loro morì nei primi mesi di prigionia di malattia, freddo e
stenti per le lunghe marce e alla fine la spedizione in Russia divenne la
maggiore catastrofe di tutti i tempi in termini di vite umane per l’esercito
italiano. Vincenzo Bianco, all’epoca rappresentante del Pci presso il Comintern
e responsabile per la stessa organizzazione dei prigionieri italiani, aveva
visitato alcuni campi e si era reso conto delle difficili condizioni nelle
quali vivevano i soldati. Ne aveva scritto a Togliatti, all’epoca evacuato con
il Comintern negli Urali, a Ufà, e si era anche attivato presso l’Armata rossa
per migliorarne la condizione. Togliatti, però, rispondendo a Bianco, si dichiarò in disaccordo con le premure
del dirigente italiano. Nella pratica, a dire di Togliatti, se un buon numero
di soldati fosse morto egli non ci trovava nulla da ridire perché tali lutti
sarebbero stati propedeutici a un drastico ripensamento della politica
italiana, rappresentando il «più efficace degli antidoti» contro una nuova
avventura bellica. Guardando al passato, egli ricordava che i rovesci subiti
dall’esercito italiano a Dogali e Adua erano stati i più potenti freni allo
sviluppo dell’imperialismo italiano e uno dei maggiori stimoli del movimento socialista.
La distruzione dell’Armata italiana in Russia avrebbe dovuto avere lo stesso
effetto. Togliatti, lo ripete, non sosteneva affatto che i prigionieri si
dovessero sopprimere, ma nelle durezze oggettive, che potevano provocare la
morte di molti, egli vedeva l’espressione di quella giustizia che Hegel
considerava immanente in tutta la storia.
Sono trascorsi 70 anni da
quei drammatici giorni e le parole di Togliatti tornano attuali. Abbiamo la
prova che il tempo non solo ricuce le ferite, ma copre le cicatrici. Tutti hanno ormai dimenticato "il grande gioco" tra Russi e Inglesi in Afghanistan, svoltosi alla fine del XIX secolo. Lo racconta PEter Hopkirk in un libro uscito per Adelphi nel 2010. Poi venne la seconda guerra mondiale, quindi il 1979. I soldati sovietici morti tornavano in patria con il nome in codice di “Carico 200”. Non conosco quello che viene dato alle salme italiane. Comunque, se lo avessero chiesto a uno storico, avrebbe avvertito che da sempre - in
Afghanistan - non ha mai vinto nessuno straniero.