sabato 8 giugno 2013

IN GUERRA

Giuseppe La Rosa, morto oggi in Afghanistan

Dall’Afghanistan non si torna a missione in corso. Questo il senso delle parole di tutti i ministri della Difesa che si sono succeduti dall'inizio dell'invasione del paese. La missione, finanziata da sempre con voto bipartisan, ha però cambiato volto da tempo: sono aumentati i Predator e la copertura dei Tornado. E' stata rafforzata la blindatura dei Lince e sono stati aggiunti mezzi blindati di ultima generazione. À la guerre come à la guerre, perché da tempo è guerra e non missione di pace. Qualcuno, non chiedo ai politici, ma qualcuno tra gli osservatori, spieghi in modo chiaro per quale motivo in Afghanistan ci sono tutti quei soldati mentre, che so, in Pachistan, il vero centro dell’integralismo, no. In attesa, tornano alla mente le parole di Palmiro Togliatti, scritte nell’inverno del 1943 a Vincenzo Bianco e che nel 1992 suscitarono tanto clamore in Italia quando le pubblicò “Panorama”.
Ricordo brevemente i termini della questione. Siamo nell’inverno del 1943, uno dei più freddi di tutta la guerra. Da pochissime settimane l’armata italiana in Russia (l’Armir) era stata costretta a una ritirata disordinata dopo la rottura del fronte a Stalingrado. Circa 90.000 italiani caddero prigionieri dei sovietici e di questi solo poco più di diecimila alla fine sarebbero sopravvissuti. La maggior parte di loro morì nei primi mesi di prigionia di malattia, freddo e stenti per le lunghe marce e alla fine la spedizione in Russia divenne la maggiore catastrofe di tutti i tempi in termini di vite umane per l’esercito italiano. Vincenzo Bianco, all’epoca rappresentante del Pci presso il Comintern e responsabile per la stessa organizzazione dei prigionieri italiani, aveva visitato alcuni campi e si era reso conto delle difficili condizioni nelle quali vivevano i soldati. Ne aveva scritto a Togliatti, all’epoca evacuato con il Comintern negli Urali, a Ufà, e si era anche attivato presso l’Armata rossa per migliorarne la condizione. Togliatti, però, rispondendo a Bianco, si dichiarò in disaccordo con le premure del dirigente italiano. Nella pratica, a dire di Togliatti, se un buon numero di soldati fosse morto egli non ci trovava nulla da ridire perché tali lutti sarebbero stati propedeutici a un drastico ripensamento della politica italiana, rappresentando il «più efficace degli antidoti» contro una nuova avventura bellica. Guardando al passato, egli ricordava che i rovesci subiti dall’esercito italiano a Dogali e Adua erano stati i più potenti freni allo sviluppo dell’imperialismo italiano e uno dei maggiori stimoli del movimento socialista. La distruzione dell’Armata italiana in Russia avrebbe dovuto avere lo stesso effetto. Togliatti, lo ripete, non sosteneva affatto che i prigionieri si dovessero sopprimere, ma nelle durezze oggettive, che potevano provocare la morte di molti, egli vedeva l’espressione di quella giustizia che Hegel considerava immanente in tutta la storia.
Sono trascorsi 70 anni da quei drammatici giorni e le parole di Togliatti tornano attuali. Abbiamo la prova che il tempo non solo ricuce le ferite, ma copre le cicatrici. Tutti hanno ormai dimenticato "il grande gioco" tra Russi e Inglesi in Afghanistan, svoltosi alla fine del XIX secolo. Lo racconta PEter Hopkirk in un libro uscito per Adelphi nel 2010. Poi venne la seconda guerra mondiale, quindi il 1979. I soldati sovietici morti tornavano in patria con il nome in codice di “Carico 200”. Non conosco quello che viene dato alle salme italiane. Comunque, se lo avessero chiesto a uno storico, avrebbe avvertito che da sempre - in Afghanistan - non ha mai vinto nessuno straniero.  

LA CASA DEI ROMANOV


Gli ultimi giorni di una dinastia. Quest’anno coincide con il quattrocentesimo anniversario della casa imperiale russa dei Romanov. Con la morte di Dmitrij, figlio di Ivan IV (noto come “il Terribile”), avvenuta nel 1591, si estinse la precedente dinastia dei Rjurikidi, di nobili origini scandinave, che aveva dato alla Russia grandi principi, ma mai un imperatore. Dopo un ventennio di torbidi, nel 1613 l’Assemblea delle famiglie aristocratiche (loZemskij Sobor) elesse imperatore Michail Romanov, dando origine a quella che sarebbe divenuta una delle più importanti famiglie regnanti della storia. Cento anni fa, in occasione del trecentesimo anniversario, l’Italia inviò una sua delegazione in Russia per omaggiare lo zar e la sua famiglia; il resoconto di quella visita, scritto in russo da G. Rummel, fu tradotto in italiano da Valerio Narducci (La delegazione italiana in Russia: Maggio-Giugno 1913), un poeta che da anni viveva a San Pietroburgo e che era tra gli animatori della piccola ma molto attiva e stimata comunità italiana della capitale.
Oggi, invece, la circostanza sta passando abbastanza in sordina nella Russia putiniana. Non mancano, ovviamente, i convegni sul tema, ma sono troppo pochi rispetto all’importanza dell’argomento; allo stesso modo, sui giornali se ne parla meno di quanto ci si possa attendere (e parallelamente non mi sembra ci sia qui da noi un gran discutere intorno alla questione). Forse perché ricordare i Romanov significa, inevitabilmente, imbattersi nella figura melodrammatica dell’ultimo zar Nicola II (oggi santo) e la fine tragica del suo regno: il bolscevismo, la guerra civile, il terrore rosso, i gulag – una memoria che il regime attuale non ama.
E pensare che uno dei primi simboli del terrore rosso, la Fortezza di Pietro e Paolo, ha accolto per decenni i milioni di turisti che hanno visitato la "Palmira del Nord". Subito dopo la rivoluzione d’ottobre, infatti, la prigione del bastione Trubeckoj della Fortezza divenne luogo di segregazione per i nemici del popolo: ministri del governo provvisorio di Kerenskij, partecipanti della "rivolta degli Junker", membri della disciolta Costituente, reduci dell’insurrezione di Kronshtadt e rappresentanti della ex casa regnante. Inoltre, durante la guerra civile la zona intorno alla Fortezza fu usata come poligono per le esecuzioni capitali. Di fronte ai bastioni vennero messi a morte centinaia di ostaggi, tra cui tre principi Romanov.
Il 6 settembre 1918 il giornale “Severnaja Komuna” (la Comune del Nord) pubblicò un lungo elenco di prigionieri della fortezza. I primi nomi erano quelli dei gran principi Dmitrij Konstantinovich, Nikolaj Michailovich, Georgij Michailovich, Pavel Aleksandrovich. Il 31 gennaio 1919, quindi, la “Petrogradskaja Pravda” (la Pravda di Pietrogrado) annunciò la loro avvenuta fucilazione: senza una data, una sentenza o un luogo. Si disse che fu una vendetta per l’uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, avvenuta a Berlino pochi giorni prima. E si diffuse inoltre la voce, poi sostenuta da conferme documentali, che il maggiore scrittore russo, Maksim Gor’kij, avesse perorato di fronte a Lenin la causa di quei nobili, tutti studiosi di fama internazionale in diversi campi del sapere. È accertato che Gor’kij seppe dell’avvenuta fucilazione alla stazione di Mosca, dove stava per prendere il treno per l’ex capitale imperiale, mentre non si è sicuri del fatto che fosse riuscito a ottenere da Lenin un decreto di grazia. Se ciò accadde, a Pietrogrado si sbrigarono a ignorare la cosa. E questa non fu l’unica volta.
Nel 1921, solo due anni più tardi, il poeta Aleksandr Blok ebbe urgente bisogno di cure mediche in Finlandia, ma le autorità pietrogradesi gli negarono il visto. Ancora una volta Gor’kij si recò a Mosca a protestare con Lenin, ma quando ottenne finalmente il permesso d’espatrio, apprese che il poeta era morto. "La ghigliottina pensante": così Gor’kij definì Lenin dopo quella volta. E anche per questo prese la strada dell’esilio volontario nell’Italia fascista.
Solo con la perestrojka, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, nei pressi del Bastione Golovkin cominciarono i primi scavi che portarono alla luce le fosse comuni del periodo 1917 - 1920. Gli scavi sono però andati avanti a singhiozzo, sia per mancanza di fondi, sia per scarsa volontà o per opportunità politica, e ancora oggi non possono dirsi conclusi. Sappiamo con certezza, comunque, che tra i resti umani tornati alla luce si trovano anche quelli dei principi, fucilati nel gennaio 1919.

RODI, 1943





JUDERIA


Quasi dispiace abbandonare Rodi 
anche se sempre un’isola ci attende 
altre coste fronzute altri villaggi silenziosi 
più uguali dove incalza la fuga dei tramonti il quotidiano ticchettìo del presente.

Con le doppie
triple muraglie torri minareti 
Rodi mi ha richiamato in queste strade selciate un po’ dirute 
e qui ho cercato
la finestra il sottarco 
il barbacane che sostenne la culla 
e diede inizio al tuo corso vitale destinato
a fondersi col mio senza il riparo di bianchi baldacchini.
Juderia si chiamava.
Traversando la vuota sinagoga 
una guardiana ciarliera sefardita mi aprì un varco al sole del cortile al pozzo antico
alle foto che si arrestano alla data solo per noi felice del tuo ignaro inizio d’esistenza

Era arrivato il tempo delle stragi. Ora ci resta
rigida la figura di una sposa in frac
questo sposo marito 
per sei giorni biciclette sul prato 
quattro amici troppo ridenti al clic dell’obiettivo 
nella stiva di un cargo in verticale
il passo del fuggiasco 
in trasversale.



Meeten Nasr
AL TRAGUARDO DI MALAGA
(Poesie 2000-2009)

martedì 4 giugno 2013

CASCINA SPIOTTA

Foto di V. Baruda Perniciaro
Sono passati 38 anni.

BALLATA PER MARA
(anonimo)


Un'ambulanza a fari spenti
le colline di cesare pavese
mia sorella si lava i denti
e poi si veste e va a far la spesa
nessuno avrebbe pensato mai quella mattina
che qualcosa di importante era successo
c'era la solita foschia sulla collina
il sole era sempre lo stesso
e tu per noi
fotografia sbiadita
e tu per noi
hai dato la tua vita
la tua vita
quello in cui credevo allora
me lo ricordo ancora bene
avevo un'ossessione rivoluzionaria
che mi pulsava nelle vene
con i miei occhi di post-adolescente
lo sguardo fisso nel futuro
dalla finestra di un albergo di acqui terme
vidi una stella disegnata sopra un muro
e tu per noi
eri già storia
e tu per noi
eri gia' memoria
gia' memoria
chissa' che cosa si e' presentato
alla cascina spiotta
davanti agli occhi del primo carabiniere
forse una finestra rotta
e un po' di vino in un bicchiere e un po' di latte
e un forte odore di lavanda
e il tuo corpo supino con ai piedi le ciabatte
rubate da alberto in una standa
e tu per noi
eri la' distesa in terra
e tu per noi
vittima di una guerra
di una guerra
chissà Renato quante volte
ha immaginato quella scena
e ti ha spedito un pensierino nella notte
in diciott'anni di galera
e la tua stella, Mara, ormai e' tramontata
e la realta' si e' capovolta
la tua bandiera e' caduta sulla strada
forse qualcuno l'ha raccolta
e tu per noi
i miei occhi il tuo fucile
e tu per noi
non dovrai mai morire
mai morire

TURKEY CLASHES



Mentre in Turchia i mezzi di informazione tacciono e il leader Erdogan si trova in visita ufficiale, le proteste continuano. 
La BBC copre da giorni gli accadimenti. In Italia ci si rifiuta, al solito, di capire. Buoni e cattivi. Ma i poliziotti turchi non beccano mille euro al mese come i nostri? Non sono anche loro "servitori dello Stato"? 

Da Istanbul, assieme a una persona che di quel mondo conosceva moltissimo, assistemmo all'impiccagione di Saddam Hussein. Un incrocio di destini per qualcuno che, con Saddam, aveva avuto rapporti quasi diretti. Lei pianse. 

Ecco le ultime notizie

Turkey has been rocked by days of anti-government protests. Travel reporter Angelica Malin was in Istanbul as the unrest spread, enveloping her hotel, and was forced to get the first plane out.
The excitement was contagious. At 14:00 we were standing on Dolmabahce Cadessi, the road leading to Taksim Square, a mere 2km (1.4 miles) away, in our best sandals and sun dresses, watching thousands and thousands of people pour into the streets.
The same repetitive chant, demanding Erdogan's resignation, could be heard all across the city - along with car horns, rioters hitting saucepans, pots and drums.
It was exciting. Tour buses had been taken over, filled to the brim with rioters, and people waved their flags gleefully in the air.
But as we had lunch at a rooftop bar things started to get serious.
Unrest in Istanbul. Pic by Angelica Malin, Serena Guen and Emily AmesThousands of demonstrators faced riot police outside the Shangri-La hotel
We watched in horror as staff pointed out the clouds of tear gas floating our way from Taksim, asking us to move inside the restaurant. Someone told us that the items we had seen being sold on the street earlier - bottles of milk and halves of lemons - were being used to counteract the effects of the gas.
Within hours, everything had descended into chaos. Back at our hotel, we were forced out of the terrace bar as our eyes stung and it felt like we'd swallowed pepper.

Start Quote

Anjelica Malin. Pic by Angelica Malin, Serena Guen and Emily Ames
The gas was too strong and we could not stay in the lounge without weeping”
As soon as we were inside, we realised the full extent of the conflict. Right in front of the lounge bar window, the courtyard was a site of utter chaos - thousands filled the street, as the riot police outside the Shangri-La hotel were violently pushing protesters further into the side streets with tear gas and water cannons.
We watched in horror as men covered in sweat poured lemon into their eyes, women clutched their friends, and some of the bravest of the protesters who had been at the very front, their shirts torn, sat on the floor in fits of coughing.
As night began to fall, it brought with it anarchists and more violent protestors.
The more peace-loving protesters in the lounge next to uscondemned this violence. We witnessed rioters pulling security cameras off the walls and yelping with joy, graffiting the walls, and picking up pavement slabs to throw at the riot police.
At this point, the lounge contained a mix of a Turkish protesters - what we believe were friends and family of hotel staff - and horrified tourists wearing gas masks.
We felt trapped. We had no information - the Turkish news channels seemed to be focusing on other stories, and we could not reach the British Embassy on the phone.
Protesters affected by tear gas in Istanbul. Pic by Angelica Malin, Serena Guen and Emily AmesMany protesters were overwhelmed by tear gas
We turned to Twitter as a news source, using the hashtags #direngeziparki or #occupgezi to find the most up-to-date information and posting live reports on social media ourselves.
It was hard to know what was fact - reports that the police were using Agent Orange had us spooked.
But there was a real sense of camaraderie in the hotel, as we all poured around a single TV in the lounge, desperate for information.
Unrest in Istanbul. Pic by Angelica Malin, Serena Guen and Emily AmesThe streets around the hotel became a conflict zone
The bottom floor had been turned into a make-shift hospital, with the in-house hotel doctor treating the effects of gas.
At one point, when the room service arrived (after five hours, but this was hardly a time to complain), we realised the extent of the damage inside the hotel - the waiter apologised profusely, explaining that it had be hard to prepare the food as the gas had got into the kitchen. His eyes were red and swollen and we gave him our gas masks - the least we could do.
By the early hours of the morning, the hotel had become a conflict zone in its own right as the riot police had managed to push all the protesters up a side street to its right.
We were told to stay away from the windows, as a brick came crashing towards us at one point. The gas was too strong and we could not stay in the lounge without weeping.
A Turkish person informed me that the group we saw protesting was the youngest, most fundamentalist group, known for its violence.
When we left at 04:00, desperate to catch the first plane out of Istanbul - direct flights to the UK were full so we had to go via Paris - the streets were eerily quiet. There were barricades, a few small fires dotted around, and only a handful of protesters still in the streets.
Everything had been scrawled with an "A" for anarchy, and the city we had seen earlier in the day was unrecognisable.


lunedì 3 giugno 2013

QUANDO L'ARTE E' ARTE

non sono laziale, ma quando l'arte supera le barriere non posso resistere.
Non se ne vogliano i romanisti.




LENINGRADO, 6 LUGLIO


Leningrado, 6 luglio 1988, albergo «Sputnik».
Diario di Alessandra

I ponti sulla Neva che si alzano per permettere alle navi di passare sono tenuti assieme da un filo invisibile e se ne superi uno e passi sull’altra riva è come procedere dal giorno nella notte attraverso un soffio bruno come la cera consumata di una candela. Lungo le sponde del fiume passeggiano ragazzi e ragazze, sostano capannelli di gente intorno a una chitarra, si allungano e si accorciano le file di russi davanti ai vaporetti. Qui il tramonto non scompare nel nulla come a Venezia ma si dilata per ore acquisendo le sembianze di una scatola di giochi contenente la luna e l’alba, le due ali di un cavallo che dondola tra un cielo color pastello, le luci inconsistenti della città e la mia anima confusa dai tormenti della Neva. È stato così che ho incontrato Jaroslav. Stava seduto di fronte all’attracco di Ponte Palazzo, accanto a una delle sfingi. Io e Betta, immobili a osservare il dondolio, ci siamo sentite chiamare alle spalle.
-       Salve, siete straniere? Italiane, spagnole, francesi?
-       Eccone un altro - ha commentato annoiata Betta - Sarà il solito cambiatore al nero. Vedrai che ci chiede dollari o  jeans.
Jaroslav era già vicino.
-       Turiste?
-       Non parliamo russo
ho risposto con un accento volutamente incerto.
-       Peccato, io conosco solo il russo. Però, se fossi in voi, ci penserei su. Non siete stanche di passeggiare sempre per i soliti posti? Non volete vedere delle cose particolari?
Parlava molto lentamente, scandendo ogni sillaba.
-       Avete fame? Sono le quattro del mattino, non mangerete da almeno otto ore. Venite con me.
Mentre Betta mi guardava sorpresa, Jaroslav ha fischiato a un suo amico (Ignat), vestito anche lui di jeans e canottiera a righe bianche e blu. Ignat ha fermato una macchina, siamo saliti, abbiamo attraversato il ponte che nel frattempo aveva riunito isola e terra ferma, e in cinque minuti eravamo lontani dal centro, in viale Karl Marx. Betta continuava a mandarmi delle occhiate micidiali; ogni tanto mi dava un pizzicotto sulla coscia seguito da:
-       Sei diventata matta tutto insieme?
-       Betta, la vuoi piantare? Siamo in Russia e non può accaderci nulla di male. Smettila di ragionare all'italiana.
Jaroslav e l'autista fumavano quelle puzzolentissime sigarette dal filtro di cartone che chiamano papiroski o belomory. Era colpa nostra, comunque, perché ci aveva cortesemente chiesto se poteva accenderla. Ci siamo arrestati in un strade deserta, siamo scesi, passati sotto un arco buio di un androne (Betta mi teneva stretta la mano cercando di non farlo vedere ai russi) e giunti di fronte a una porta di metallo che dava sul cortile ci siamo fermati. Jaroslav ha bussato ritmicamente e poco dopo è venuto ad aprire un ragazzo assonnato. Prego, ha fatto Jaroslav allungando la mano, e siamo entrate. Grossi contenitori di legno e alti scaffali posti su ingombranti rotelle traboccavano di pane appena sfornato. C’erano le classiche pagnottelle tonde di bianco, il pane nero a forma di mattone e quello che somiglia alle nostre michette. Jaroslav, visibilmente soddisfatto di averci sorprese, ha chiesto  se volessimo del tè. Petja, il ragazzo che ci aveva aperto, ha posto la teiera sopra a un fornello elettrico, si è avvicinato al lavello e ha lavato le tazze (lerce). Esaurite le presentazioni anche con Petja, Jaroslav ci ha invitate a sedere intorno a un foglio di compensato che sostituiva il tavolo, sopra delle cassette, devo ammettere, incredibilmente comode.
-       Questo è il retrobottega di una panetteria. Qui lavoriamo io, Petja e Ignat, alternandoci. Come vedete, comunque, anche quando non lavoriamo passiamo le notti svegli.
Jaroslav continuava a parlarci lentamente e anche i suoi amici seguivano il suo esempio. Che fossero abituati a conversare con gli stranieri? Il tè caldo mi rilassò al punto che raccontai chi fossimo e che cosa facessimo a Leningrado. Scoprimmo anche che Jaroslav, Petja e Ignat erano dei nostri colleghi o giù di lì. Nessuno di loro era di Leningrado. Avevano passato qui l’inverno per preparare l’esame di ammissione all’università. Ora, in attesa della prova, lavoravano per arrotondare i quaranta rubli della paga studentesca.
-       E poi non osiamo neppure pensare alla possibilità  di non superare l'esame. Se così fosse, dovremmo ritornare a casa per andare a lavorare in qualche fabbrica. Potremmo ritentare il prossimo anno, ma è pura teoria. In realtà se non rimani a Leningrado perdi i contatti con i professori, con il mondo universitario e anche con lo studio, e restare è difficile senza aver ottenuto la residenza. Paradossalmente l’esame di ammissione è la prova più difficile da superare. Una volta entrato non ci sono problemi, vai dritto alla laurea.
Tutto questo ci sembrava molto strano ma i ragazzi sono apparsi più increduli di noi nel sentire quanto fosse difficile preparare un esame a Venezia.
-       Impossibile - ha detto Ignat - da noi ci vogliono tre giorni, a volte due. Un mio compagno di stanza studia solo la notte prima.
Quando la discussione stava per trasformarsi in una specie di disputa nazionalistica su quale università fosse la migliore, il suono di un clacson la troncò. Fuori aspettava uno di quei camioncini blu con la scritta Chleb sui lati. Petja, Ignat e Jaroslav hanno scaricato velocemente il pane, Ignat ha firmato una ricevuta e il camioncino è ripartito nel silenzio della corte illuminata a giorno. Jaroslav ci ha offerto una pagnotta di pane bianco ancora fumante e Ignat ha riempito di nuovo le tazze. Prima di bere, però, Jaroslav ci ha invitato a seguirlo e siamo passati in un’altra stanza dove Ignat ha aperto con un cacciavite una porta di metallo, l’accesso al magazzino del negozio. Il piccolo ripostiglio era pieno di sacchi contenenti biscotti, lunghi maccheroni simili ai nostri bucatini ma raccolti a mazzi (di un chilo, specificò Petja) cioccolata in confetti  e uno strano dolce colore verde militare che si chiama chalva ottenuto dalla lavorazione dei semi di girasole.
-       Questa è la nostra dispensa. In realtà tutti questi prodotti dovrebbero essere messi in vendita, ma il direttore del negozio preferisce gestirli altrimenti. Li vende sottobanco, al mercato nero. Lui non sa che noi sappiamo, altrimenti ci licenzierebbe.
Io e Betta ci siamo guardate incredule, come spesso ci capita da quando siamo arrivate;  abbiamo cominciato a chiedere il perché, ma Ignat ha risposto che in Russia non esistono risposte: ci sono soltanto le situazioni. Erano le sei quando siamo usciti da lì; i ragazzi ci hanno accompagnato al métro più vicino e mezz’ora più tardi eravamo a letto; quindi, dopo tre ore di sonno, a lezione di russo. Nel primo pomeriggio gli altri del gruppo sono andati a visitare un museo, ma noi abbiamo dormito fino alle cinque. Adesso stiamo per scendere a cena e più tardi andremo al convitto dove vivono i ragazzi. Portiamo anche la riluttante Cinzia.   

domenica 2 giugno 2013

UNA COMPAGNA CHE CI HA LASCIATO

Si avvicina l'anniversario della morte di Margherita Cagol, uccisa il 5 giugno 1975 alla Cascina Spiotta (per inciso, wiki italiano la definisce terrorista, wiki russo "revoljutsionerka").
Mi torna in mente un pezzo che scrissi anni fa in occasione della "scoperta" di una storia a "fumetti" dal titolo particolare. Eccolo.

"Il perché, è quel ragazzo morto la scorsa settimana in quanto cattolico. Si muore per gli stessi motivi di allora". Con queste parole Ken Loach rispose alla domanda di un giornalista, che gli chiedeva spiegazioni sulla storia dell’Ulster negli anni Venti del secolo scorso.
"Violiamo la verginità del realismo socialista!" gridarono per alcuni minuti i giovani poeti bohémien moscoviti, gli SMOGisti, scalmanati sotto alle finestre dell’Unione degli scrittori sovietici il 14 aprile 1965, anniversario del suicidio di un grande poeta russo, Majakovskij. Erano partiti in corteo dalla piazza che porta il suo nome e avevano raggiunto il centro burocratico della letteratura di regime, per violarlo. E alcuni testimoni giurano di aver sentito distintamente, in alcuni casi, al posto di "violare", il verbo "violentare"...
Da tempo ci tormenta una risma di carta rilegata intitolata Il codice Da Vinci (per inciso ricordo che nei paesi di lingua tedesca si intitola Sacrilegio, chissà mai perché); è intrattenimento puro. Chi lo legge non è un lettore, è un consumatore.
Da molto meno tempo del Codice circola un libro nel quale, come dice l’editore, "il fumetto si confronta con gli anni di piombo", La storia di Mara.
Che cosa hanno in comune questi quattro episodi così apparentemente disparati?
In qualche modo, spiegano una trasformazione epocale, il passaggio dalla creazione all’assemblaggio, dall’arte all’abilità, dall’umiltà alla volgarità.
Ken Loach, il regista di Terra e Libertà, prende un momento storico e lo riduce attraverso l’uso di una camera in narrazione. Non c’è inganno. La ricostruzione è fedele. I bianchi sono bianchi, i neri, neri, chi spara per uccidere uccide senz’altro, e così via. Il passato resta passato, ma viene investigato, analizzato, spiegato. È mimesi artistica.
Gli SMOGisti (SMOG stava per CoraggioPensieroImmaginazioneInteriorità) erano dei poeti giovanissimi - nessuno di loro superava i vent’anni. Vivendo in un paese dove la poesia era la forma artistica più diffusa e importante (al punto che Osip Mandelshtam fu ucciso per una poesia), ci tenevano a dire la loro in un mondo nel quale il conformismo dell’arte di Stato aveva ingessato la creazione. Non ignoravano il realismo socialista, tutt’altro. Alla fine di un percorso cominciato nel 1953 con un coraggioso articolo pubblicato sulla maggiore rivista dell’epoca da un letterato di secondo piano, passando per una serie di lotte e processi, tra cui quello al futuro premio Nobel, Iosif Brodskij, accusato di parassitismo, essi avevano deciso di violentare la cultura ufficiale, violarne la verginità. Ma non potevano ignorarla. Il passaggio era obbligato, se volevano andare oltre, perché l’arte è lunga, e il principio di quella strada non lo segna il neofita.
Dan Bronwn ha deciso che Maria è l’unica vergine della sua famiglia. Gesù, il candidato numero due, aveva una donna, la Maddalena, che gli diede una figlia, divenuta in qualche modo il Santo Graal. Per difendere questo segreto sarebbero cominciate le Crociate, nel XII secolo. Da Vinci Leonardo dovrebbe aver capito tutto e oggi si continua a uccidere come allora (le crociate), per difendere il segreto. Come allora? Come Ken Loach? No. La differenza è che in questo caso si tratta di una storia inventata usando personaggi realmente esistiti. Proprio il contrario di Loach. Una storia per consumo e intrattenimento del pubblico, una mistificazione che miscela la fantasia e trasforma il reale (poco ma fondamentale, direi portante) in verosimile, che mente sapendo di mentire. Altro che verginità del realismo socialista! Qui si tratta di una bagascia che per denaro vende le virtù altrui. O, forse, non di bagascia si tratta, ma di paraninfo, di usuraio che per poche ore di lavoro donate all’assemblaggio universale richiede al lettore uno sforzo inusuale per poterlo evitare, ignorare, dimenticare, cancellare.
Ma se la letteratura mistificata diventa intrattenimento, cos’è il fumetto? Arte minore? Pur sempre arte, dunque. Ambigua? Per certi versi. Uno dei suoi nomi, per esempio, si presta a usi indesiderati. S-t-r-i-s-c-i-a la notizia. Una trasmissione di pettegolezzi. Mondo papero. Mondo cane. Storia di Mara. L’ultimo libro a fumetti di un bravo disegnatore, Paolo Cossi,  premio "Rino Albertarelli" 2004 come miglior giovane autore italiano, che quando parla del suo fumetto dice "il mio libro". Dunque è un libro. Che, come afferma la fascetta, "si confronta con gli anni di piombo" e al quale Marcello Buonomo ha allegato un saggio intitolato La storia difficile. Quest’ultimo, citando Hannah Arendt, afferma che gli individui creano il male attraverso un crescendo di particolari situazioni che sono piccole, banali. La Storia di Mara conferma, a suo dire, che dal punto di vista storiografico solo attraverso la ricostruzione delle vite personali di chi vi ha aderito si possa comprendere nel profondo il fenomeno sociale delle Br e la sua parabola storica. Questo dice. E nel fumetto che racconta la sua vita, Mara afferma che per entrare nelle Br, nella "banalità del male" (la Arendt, lo ricordo, ne parlava riguardo agli autori dell’Olocausto – circa sei milioni di morti), ci si doveva semplicemente vestire di falsità. Per entrare lì, da dove non era più possibile uscire. Dunque, in questo fumetto si fa storia. Dunque, qui si ricostruisce una vita, perché l’insieme delle vite fa la Storia. È la somma che dà il totale.
Mara è morta nel 1975, credo. Uccisa da un carabiniere, a freddo, mentre stava con le braccia alzate dopo uno scontro a fuoco. Il 6 giugno le Br diffusero il seguente volantino, scritto da Renato Curcio, il marito: "è caduta combattendo Margherita Cagol ‘Mara’, dirigente comunista e membro del comitato esecutivo delle Brigate rosse. La sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà mai dimenticare [...]. Non possiamo permetterci di versare lacrime sui nostri caduti, ma dobbiamo imparare la lezione di lealtà, coerenza, coraggio ed eroismo [...]. Che tutti i sinceri rivoluzionari onorino la memoria di Mara meditando l’insegnamento politico che ha saputo dare con la sua scelta, con la sua vita. Che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile! Noi , come ultimo saluto le diciamo: Mara, un fiore è sbocciato e questo fiore di libertà le Brigate rosse continueranno a coltivarlo fino alla vittoria".
Poi vai avanti nella lettura del fumetto e ti accorgi che Mara non è Mara. Ovvero, è Mara, perché si chiama così, ma non è morta nel 1975. Si chiama Mara Nanni, è un’altra Mara. Nelle Br è entrata nel 1978. È stata arrestata nel 1979. È stata condannata all’ergastolo al primo processo Moro (una follia giuridica), nel 1981. Poi si è dissociata e la sua pena è stata ridotta (altra follia giuridica). Quest’ultimo passaggio il fumetto lo omette. La storia non è quella che credevamo di leggere. E non è neanche completa. Non è una storia. È solo un fumetto. Puff. E non c’è più.