Leningrado, 6 luglio 1988, albergo «Sputnik».
Diario di Alessandra
I ponti sulla Neva che si alzano per permettere alle navi di passare sono tenuti assieme da un filo invisibile e se ne superi uno e passi sull’altra riva è come procedere dal giorno nella notte attraverso un soffio bruno come la cera consumata di una candela. Lungo le sponde del fiume passeggiano ragazzi e ragazze, sostano capannelli di gente intorno a una chitarra, si allungano e si accorciano le file di russi davanti ai vaporetti. Qui il tramonto non scompare nel nulla come a Venezia ma si dilata per ore acquisendo le sembianze di una scatola di giochi contenente la luna e l’alba, le due ali di un cavallo che dondola tra un cielo color pastello, le luci inconsistenti della città e la mia anima confusa dai tormenti della Neva. È stato così che ho incontrato Jaroslav. Stava seduto di fronte all’attracco di Ponte Palazzo, accanto a una delle sfingi. Io e Betta, immobili a osservare il dondolio, ci siamo sentite chiamare alle spalle.
- Salve, siete straniere? Italiane, spagnole, francesi?
- Eccone un altro - ha commentato annoiata Betta - Sarà il solito cambiatore al nero. Vedrai che ci chiede dollari o jeans.
Jaroslav era già vicino.
- Turiste?
- Non parliamo russo
ho risposto con un accento volutamente incerto.
- Peccato, io conosco solo il russo. Però, se fossi in voi, ci penserei su. Non siete stanche di passeggiare sempre per i soliti posti? Non volete vedere delle cose particolari?
Parlava molto lentamente, scandendo ogni sillaba.
- Avete fame? Sono le quattro del mattino, non mangerete da almeno otto ore. Venite con me.
Mentre Betta mi guardava sorpresa, Jaroslav ha fischiato a un suo amico (Ignat), vestito anche lui di jeans e canottiera a righe bianche e blu. Ignat ha fermato una macchina, siamo saliti, abbiamo attraversato il ponte che nel frattempo aveva riunito isola e terra ferma, e in cinque minuti eravamo lontani dal centro, in viale Karl Marx. Betta continuava a mandarmi delle occhiate micidiali; ogni tanto mi dava un pizzicotto sulla coscia seguito da:
- Sei diventata matta tutto insieme?
- Betta, la vuoi piantare? Siamo in Russia e non può accaderci nulla di male. Smettila di ragionare all'italiana.
Jaroslav e l'autista fumavano quelle puzzolentissime sigarette dal filtro di cartone che chiamano papiroski o belomory. Era colpa nostra, comunque, perché ci aveva cortesemente chiesto se poteva accenderla. Ci siamo arrestati in un strade deserta, siamo scesi, passati sotto un arco buio di un androne (Betta mi teneva stretta la mano cercando di non farlo vedere ai russi) e giunti di fronte a una porta di metallo che dava sul cortile ci siamo fermati. Jaroslav ha bussato ritmicamente e poco dopo è venuto ad aprire un ragazzo assonnato. Prego, ha fatto Jaroslav allungando la mano, e siamo entrate. Grossi contenitori di legno e alti scaffali posti su ingombranti rotelle traboccavano di pane appena sfornato. C’erano le classiche pagnottelle tonde di bianco, il pane nero a forma di mattone e quello che somiglia alle nostre michette. Jaroslav, visibilmente soddisfatto di averci sorprese, ha chiesto se volessimo del tè. Petja, il ragazzo che ci aveva aperto, ha posto la teiera sopra a un fornello elettrico, si è avvicinato al lavello e ha lavato le tazze (lerce). Esaurite le presentazioni anche con Petja, Jaroslav ci ha invitate a sedere intorno a un foglio di compensato che sostituiva il tavolo, sopra delle cassette, devo ammettere, incredibilmente comode.
- Questo è il retrobottega di una panetteria. Qui lavoriamo io, Petja e Ignat, alternandoci. Come vedete, comunque, anche quando non lavoriamo passiamo le notti svegli.
Jaroslav continuava a parlarci lentamente e anche i suoi amici seguivano il suo esempio. Che fossero abituati a conversare con gli stranieri? Il tè caldo mi rilassò al punto che raccontai chi fossimo e che cosa facessimo a Leningrado. Scoprimmo anche che Jaroslav, Petja e Ignat erano dei nostri colleghi o giù di lì. Nessuno di loro era di Leningrado. Avevano passato qui l’inverno per preparare l’esame di ammissione all’università. Ora, in attesa della prova, lavoravano per arrotondare i quaranta rubli della paga studentesca.
- E poi non osiamo neppure pensare alla possibilità di non superare l'esame. Se così fosse, dovremmo ritornare a casa per andare a lavorare in qualche fabbrica. Potremmo ritentare il prossimo anno, ma è pura teoria. In realtà se non rimani a Leningrado perdi i contatti con i professori, con il mondo universitario e anche con lo studio, e restare è difficile senza aver ottenuto la residenza. Paradossalmente l’esame di ammissione è la prova più difficile da superare. Una volta entrato non ci sono problemi, vai dritto alla laurea.
Tutto questo ci sembrava molto strano ma i ragazzi sono apparsi più increduli di noi nel sentire quanto fosse difficile preparare un esame a Venezia.
- Impossibile - ha detto Ignat - da noi ci vogliono tre giorni, a volte due. Un mio compagno di stanza studia solo la notte prima.
Quando la discussione stava per trasformarsi in una specie di disputa nazionalistica su quale università fosse la migliore, il suono di un clacson la troncò. Fuori aspettava uno di quei camioncini blu con la scritta Chleb sui lati. Petja, Ignat e Jaroslav hanno scaricato velocemente il pane, Ignat ha firmato una ricevuta e il camioncino è ripartito nel silenzio della corte illuminata a giorno. Jaroslav ci ha offerto una pagnotta di pane bianco ancora fumante e Ignat ha riempito di nuovo le tazze. Prima di bere, però, Jaroslav ci ha invitato a seguirlo e siamo passati in un’altra stanza dove Ignat ha aperto con un cacciavite una porta di metallo, l’accesso al magazzino del negozio. Il piccolo ripostiglio era pieno di sacchi contenenti biscotti, lunghi maccheroni simili ai nostri bucatini ma raccolti a mazzi (di un chilo, specificò Petja) cioccolata in confetti e uno strano dolce colore verde militare che si chiama chalva ottenuto dalla lavorazione dei semi di girasole.
- Questa è la nostra dispensa. In realtà tutti questi prodotti dovrebbero essere messi in vendita, ma il direttore del negozio preferisce gestirli altrimenti. Li vende sottobanco, al mercato nero. Lui non sa che noi sappiamo, altrimenti ci licenzierebbe.
Io e Betta ci siamo guardate incredule, come spesso ci capita da quando siamo arrivate; abbiamo cominciato a chiedere il perché, ma Ignat ha risposto che in Russia non esistono risposte: ci sono soltanto le situazioni. Erano le sei quando siamo usciti da lì; i ragazzi ci hanno accompagnato al métro più vicino e mezz’ora più tardi eravamo a letto; quindi, dopo tre ore di sonno, a lezione di russo. Nel primo pomeriggio gli altri del gruppo sono andati a visitare un museo, ma noi abbiamo dormito fino alle cinque. Adesso stiamo per scendere a cena e più tardi andremo al convitto dove vivono i ragazzi. Portiamo anche la riluttante Cinzia.
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