sabato 8 giugno 2013

IN GUERRA

Giuseppe La Rosa, morto oggi in Afghanistan

Dall’Afghanistan non si torna a missione in corso. Questo il senso delle parole di tutti i ministri della Difesa che si sono succeduti dall'inizio dell'invasione del paese. La missione, finanziata da sempre con voto bipartisan, ha però cambiato volto da tempo: sono aumentati i Predator e la copertura dei Tornado. E' stata rafforzata la blindatura dei Lince e sono stati aggiunti mezzi blindati di ultima generazione. À la guerre come à la guerre, perché da tempo è guerra e non missione di pace. Qualcuno, non chiedo ai politici, ma qualcuno tra gli osservatori, spieghi in modo chiaro per quale motivo in Afghanistan ci sono tutti quei soldati mentre, che so, in Pachistan, il vero centro dell’integralismo, no. In attesa, tornano alla mente le parole di Palmiro Togliatti, scritte nell’inverno del 1943 a Vincenzo Bianco e che nel 1992 suscitarono tanto clamore in Italia quando le pubblicò “Panorama”.
Ricordo brevemente i termini della questione. Siamo nell’inverno del 1943, uno dei più freddi di tutta la guerra. Da pochissime settimane l’armata italiana in Russia (l’Armir) era stata costretta a una ritirata disordinata dopo la rottura del fronte a Stalingrado. Circa 90.000 italiani caddero prigionieri dei sovietici e di questi solo poco più di diecimila alla fine sarebbero sopravvissuti. La maggior parte di loro morì nei primi mesi di prigionia di malattia, freddo e stenti per le lunghe marce e alla fine la spedizione in Russia divenne la maggiore catastrofe di tutti i tempi in termini di vite umane per l’esercito italiano. Vincenzo Bianco, all’epoca rappresentante del Pci presso il Comintern e responsabile per la stessa organizzazione dei prigionieri italiani, aveva visitato alcuni campi e si era reso conto delle difficili condizioni nelle quali vivevano i soldati. Ne aveva scritto a Togliatti, all’epoca evacuato con il Comintern negli Urali, a Ufà, e si era anche attivato presso l’Armata rossa per migliorarne la condizione. Togliatti, però, rispondendo a Bianco, si dichiarò in disaccordo con le premure del dirigente italiano. Nella pratica, a dire di Togliatti, se un buon numero di soldati fosse morto egli non ci trovava nulla da ridire perché tali lutti sarebbero stati propedeutici a un drastico ripensamento della politica italiana, rappresentando il «più efficace degli antidoti» contro una nuova avventura bellica. Guardando al passato, egli ricordava che i rovesci subiti dall’esercito italiano a Dogali e Adua erano stati i più potenti freni allo sviluppo dell’imperialismo italiano e uno dei maggiori stimoli del movimento socialista. La distruzione dell’Armata italiana in Russia avrebbe dovuto avere lo stesso effetto. Togliatti, lo ripete, non sosteneva affatto che i prigionieri si dovessero sopprimere, ma nelle durezze oggettive, che potevano provocare la morte di molti, egli vedeva l’espressione di quella giustizia che Hegel considerava immanente in tutta la storia.
Sono trascorsi 70 anni da quei drammatici giorni e le parole di Togliatti tornano attuali. Abbiamo la prova che il tempo non solo ricuce le ferite, ma copre le cicatrici. Tutti hanno ormai dimenticato "il grande gioco" tra Russi e Inglesi in Afghanistan, svoltosi alla fine del XIX secolo. Lo racconta PEter Hopkirk in un libro uscito per Adelphi nel 2010. Poi venne la seconda guerra mondiale, quindi il 1979. I soldati sovietici morti tornavano in patria con il nome in codice di “Carico 200”. Non conosco quello che viene dato alle salme italiane. Comunque, se lo avessero chiesto a uno storico, avrebbe avvertito che da sempre - in Afghanistan - non ha mai vinto nessuno straniero.  

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