domenica 9 giugno 2013

PRIGIONIERI DEL SILENZIO


Sesto San Giovanni (Mi). La targa ricorda lo scontro a fuoco in cui rimase ucciso anche il giovane Walter Alasia. Il plurale "terroristi" è un "falso ricordo"
Un’intera generazione italiana, quella che ha fatto la lotta armata negli anni Settanta e Ottanta del ‘900, scontate quasi tutte le pene dopo i secoli di carcere con i quali lo Stato l’ha punita, deve tacere. Questo è il centro del discorso di molti tra storici e giornalisti, che trovò una sintesi in un articolo di Claudio Magris sul “Corriere della Sera” del 31 luglio 2009. Egli ammette che il brigatista possa recuperare i pieni diritti civili e politici (anche se nessuno dei condannati per fatti di lotta armata che in sentenza si sia visto infliggere pene accessorie perpetue viene reintegrato automaticamente nei suoi diritti. Per fare ciò occorre attivare la procedura di “riabilitazione”), che possa anche esprimersi sulle piattole, qualora nel frattempo il carcere gli avesse fornito l’istruzione adeguata, ma non una parola sul suo passato di combattente. Ma nel processo penale la responsabilità è personale. E così, il brigatista è un brigatista, e non un SS, non un mafioso, non uno stragista impunito. A ognuno il suo, per cominciare. E di brigatisti e brigatismo, si deve allora parlare, visto l’elenco di alcune delle vittime che fa Magris (non tutte peraltro colpite dalle Brigare rosse) considerate “le figure dell’Italia migliore, quella più libera e aperta e democratica, che avrebbe potuto e dovuto essere diversa da quella di oggi”. Come se il motivo per cui oggi siamo qui è perché in Italia c’è stata la lotta armata. O perché quelli che l’hanno fatta hanno perso, si potrebbe dire provocatoriamente, ma con la stessa efficacia? 
Intanto mi sembra uno strano recupero dei diritti quello di chi, riabilitato, può andare a votare per il parlamento italiano, ma non deve dire una parola sugli anni in cui fu protagonista. Da sempre i reduci hanno raccontato della propria guerra. Ma c’è dell’altro. I brigatisti, primi e unici nella storia di questo paese, scelsero di rivendicare i propri delitti e di assumersi tutti la medesima responsabilità di fronte alla legge, indipendentemente dal ruolo concreto avuto in una determinata azione. Al punto che molti sono stati condannati all’ergastolo per il sequestro Moro senza essere stati in via Fani, né in via Montalcini, né in via Caetani. Se avessero deciso di difendersi singolarmente, senza dichiararsi rei, la storia giudiziaria delle Br sarebbe andata molto diversamente e le condanne si sarebbero contate con numeri più piccoli. Che dire, poi, delle continue riforme del codice penale per adeguare la legge alla nuova situazione creata in Italia dalla presenza di questo gruppo armato? Tutto ciò induce a pensare che si trattò di una storia politica. Nessuno degli uccisori di allora lo fece per questioni personali; nessuno aveva un “conto aperto” da chiudere. Come ipotizza Magris, “pensava di costruire un’Italia migliore”. E le vittime, mi si dirà? E i parenti delle vittime? Perché è questo, in fondo, il contesto all’interno del quale si chiede, ovvero si impone ai brigatisti di tacere. Il punto è di fondamentale importanza, ma prima di arrivarci mi preme mettere in luce ancora un aspetto. A quali brigatisti ci si riferisce, quando si chiede loro di tacere? Ai pentiti, ai dissociati o ai cosiddetti “irriducibili”? Le confessioni dei pentiti e quelle dei dissociati (ché quando parlano con il magistrato, invece, va bene) sono state qualitativamente differenti: i pentiti hanno offerto parole utili alle tesi dell’accusa in sede processuale, oltre che permesso in casi clamorosi l’arresto di decine di militanti. I dissociati hanno fornito ricostruzioni politiche della propria esperienza militante in linea con i desiderata dello Stato. Lo hanno fatto molti anni dopo il loro arresto, contribuendo alla sconfitta politica della lotta armata, non a quella militare. A quanto risulta a chi scrive, i pochi ex-militanti della lotta armata che hanno partecipato in modo attivo alla memorialistica appartengono in maggioranza alla schiera dei cosiddetti pentiti o dissociati. Per quanto concerne, invece, gli irriducibili, essi per lo più tacciono (e spesso i commentatori li accusano proprio per questo!) e anche quando parlano, come nel caso di Mario Moretti con un libro sulle Br per nulla apologetico, si sottolinea quello che non sarebbe stato ancora detto, perché è una verità predeterminata, quella che si vorrebbe ascoltare, non il pensiero di Moretti.
Veniamo alla questione delle vittime e dei loro parenti. Il 9 maggio è il giorno della memoria delle vittime del terrorismo in Italia. Di tutte le vittime, senza distinzione di matrice, tipologia di attentato, obiettivo. Nel 2009 la vedova Pinelli è stata invitata al Quirinale, dove ha incontrato la vedova Calabresi. L’iperbole è complessa, e va analizzata e spiegata. Da tempo, ormai, il calendario italiano si è riempito di giorni della memoria e del ricordo e si cerca di far passare l’idea che la memoria abbia una sorta di dignità parallela a quella della storia. Forse perché la memoria appartiene alle vittime, mentre la storia ai vincitori? In realtà non è così. La differenza è un’altra e ben più sostanziale. La memoria appartiene spesso alla sfera privata, mentre la storia è pubblica. La memoria non si può verificare, laddove la storia attende un riscontro da parte della comunità scientifica. La memoria non sostituisce la storia, né si affianca ad essa; offre delle fonti. Per questo, un incontro tra la vedova Pinelli e la vedova Calabresi può avere luogo solo nel giorno della memoria. Perché nella memoria si perdono i ruoli e Pinelli e Calabresi sono visti semplicemente come vittime. Nella storia, però, i ruoli sono attribuiti in un altro modo. L’assassinio di Pinelli è stato perpetrato all’interno di una struttura dello Stato nel corso di un’indagine sulla strage di piazza Fontana. Quello di Calabresi, in un contesto diverso e qualcuno che potrebbe spiegarcelo non vuole farlo. E, stranamente, a questi non si chiede di tacere. Ora, nel diritto moderno è lo Stato che regola il rapporto tra il reo e la giustizia, tanto che il pubblico ministero non difende i parenti delle vittime, ma sostiene l’accusa in nome del popolo italiano. La vittima, o i suoi parenti, si possono costituire parte civile, con un avvocato a rappresentarli. Il giudice, quindi, è terzo rispetto alle parti e non potrebbe essere altrimenti, da quando la dottrina giuridica e le costituzioni moderne hanno tolto alla famiglia il diritto di vendetta, sostituendolo con quello della giustizia. La memoria, come detto, rientra nella sfera privata e sembra più vicina alla vendetta che alla giustizia, se usata come rivendicazione. Ovviamente i parenti di una vittima hanno tutto il diritto di scrivere, appellarsi e indignarsi. Non lo ha, però lo Stato, che ha compiuto il proprio dovere arrestando i brigatisti e riuscendo a farli condannare, debellando il fenomeno. Dato, però, che lo Stato non dovrebbe vendicarsi - non può condannare nessuno né al silenzio, né all’oblio. Anzi, ne guadagnerebbe se, ora che la guerra è finita da tempo, si impegnasse per capire il motivo che ha indotto una generazione e una classe sociale a dire “mai più senza fucile”, agendo di conseguenza. Gli ex lo possono spiegare, ed è interesse di tutta la comunità che lo facciano.


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