venerdì 21 dicembre 2012

STALIN



Oggi, 21 dicembre, è anche l'anniversario della nascita di Josif Dzhugazhvili (in georgiano, per chi lo sa leggere - non io - იოსებ ბესარიონის ძე ჯუღაშვილი), noto con il nome di battaglia di Stalin (dal russo Stal', acciaio).

Di Stalin si può, ed è stato detto tutto. Dall'ammirazione sperticata che di lui avevano i comunisti di tutto il mondo negli anni 30-50 del '900, alle ricusazioni di Chruscev durante il XX Congresso del Pcus (1956), fino al paragone lanciato dalla storiografia revisionista tedesca, che lo ha posto sullo stesso piano di Hitler. Oggi è quasi unanimemente collocato tra i peggiori uomini politici del XX secolo, con Mao, Pol Pot, lo stesso Hitler e un'altra schiera di dittatori di ogni risma. In questa speciale classifica (che ha tutto tranne lo spirito critico dello storico) il nostro duce si trova un gradino sotto.

Ma il problema non è fare una tabella o comporre classifiche, bensì inquadrare un avvenimento, un fatto, l'azione politica di un uomo all'interno del contesto in cui ha operato. Più lo si fa, più si incontrano difficoltà di ogni genere. Il terreno diventa scivoloso, la critica pronta a farti le penne. Così ci si rifugia nelle classifiche o nel sondaggio: "Lei è d'accordo o no che fu un dittatore sanguinario?"

Inutile aggiungere altro. Utile mi appare, altresì, un elenco di libri che trovo interessanti. Evito di inserirci i miei, avvertendo che i testi sono stati scritti da persone che la pensano in modo molto diverso tra loro.



Elena Aga-Rossi, Viktor Zaslavskij, ''Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca'', Bologna, Il mulino, 1997. ISBN 88-15-06199-1

Svetlana Alliluieva (la figlia di Stalin), ''Soltanto un anno'', Milano, A. Mondadori, 1970.

Anna Applebaum, GULAG, Milano, A. Mondadori, 2006.

Abdurachman Avtorchanov, ''La tecnologia del potere. Il potere nell'URSS da Stalin a Breznev'', Milano, La casa di Matriona, 1980.

Oleg V. Chlevnjuk, Storia del Gulag, Torino, Einaudi, 2006.

Robert Conquest, ''Il grande terrore. Le purghe di Stalin negli anni Trenta'', Milano, A. Mondadori, 1970.

Felix Cuev, Conversazioni con Molotov, La nostra lotta, 2004

Isaac Deutscher, ''Stalin'', Milano, Longanesi, 1951.

Elena Dundovich, Tra Esilio e Castigo, Roma, Carocci, 1998

Milovan Gilas, ''Conversazioni con Stalin'', Milano, Feltrinelli, 1962.

Moshe Lewin, Storia Sociale dello stalinismo, Torino, Einaudi, 1985.

Domenico Losurdo, ''Stalin. Storia e critica di una leggenda nera'', Roma, Carocci, 2008. ISBN 88-430-4293-7

Franz Marek, ''Che cosa ha veramente detto Stalin'', Roma, Ubaldini, 1970.

Ludo Martens, ''Stalin. Un altro punto di vista'', Verona, Zambon, 2005. ISBN 88-87826-28-5.

Roj Aleksandrovic Medvedev, ''Riabilitare Stalin?'', Roma, Tindalo, 1970.

[Roj Aleksandrovic Medvedev, ''Stalin sconosciuto'', Roma, Editori Riuniti, 1983; Milano, Feltrinelli, 2006. ISBN 88-07-17120-1

I. M. Nekric, ''Stalin apri le porte a Hitler?'', Roma, Tindalo, 1968.

Vojtech Mastny, Il dittatore insicuro: Stalin e la guerra fredda, TEA, Milano, 1998

Donald Rayfield, ''Stalin e i suoi boia. Una analisi del regime e della psicologia stalinisti'', Milano, Garzanti, 2005. ISBN 88-11-69386-1.

Jean-Paul Sartre, ''Il fantasma di Stalin'', Milano, A. Mondadori, 1957.

Simon Sebag Montefiore, ''Gli uomini di Stalin. Un tiranno, i suoi complici e le sue vittime'', Milano, Rizzoli, 2005. ISBN 88-17-00319-0

Giulio Seniga, ''Togliatti e Stalin. Contributo alla biografia del segretario del PCI'', Milano, Sugar, 1961.

Victor Serge, ''Ritratto di Stalin'', Venezia, Erre, 1944.

Victor Shalashinza, ''Togliatti fedelissimo di Stalin'', Roma-Milano, Oltrecortina, 1964.

Boris Souvarine, ''Stalin'', Milano, Adelphi, 1983.

Leone Trotzkij, ''I crimini di Stalin'', Roma, Casini, 1966.

Adam B. Ulam, ''Stalin. L'uomo e la sua epoca'', Milano, Garzanti, 1975.

Il Dossier Hitler, UTET, Torino, 2005


BELLI E TRILUSSA


Monumento al Belli

Monumento a Trilussa


Forse non è a tutti noto che i due maggiori poeti romaneschi, Gioacchino Belli e Trilussa, sono uniti oltre che dalla poesia, dalla data di morte, il 21 dicembre (Belli nel 1863, Trilussa nel 1950).
Strano destino dei due grandi interpreti della romanità.


Un paio di sonetti per ricordarli.



(Trilussa) LA POLITICA

Ner modo de pensà c'è un gran divario:
mi' padre è democratico cristiano,
e, siccome è impiegato ar Vaticano,
tutte le sere recita er rosario;

de tre fratelli, Giggi ch'er più anziano
è socialista rivoluzzionario;
io invece so' monarchico, ar contrario
de Ludovico ch'è repubbricano.

Prima de cena liticamo spesso
pe' via de 'sti principî benedetti:
chi vò qua, chi vò là... Pare un congresso!

Famo l'ira de Dio! Ma appena mamma
ce dice che so' cotti li spaghetti
semo tutti d'accordo ner programma.
(1915)






(Belli) COSA FA ER PAPA?

Cosa fa er Papa? Eh ttrinca, fa la nanna,
Taffia, pijja er caffè, sta a la finestra,
Se svaria, se scrapiccia, se scapestra,
E ttiè Rroma pe ccammera-locanna.

Lui, nun avenno fijji, nun z'affanna
A ddirigge e accordà bbene l'orchestra;
Perché, a la peggio, l'ùrtima minestra
Sarà ssempre de quello che ccommanna.

Lui l'aria, l'acqua, er zole, er vino, er pane,
Li crede robba sua: È tutto mio;
Come a sto monno nun ce fussi un cane.

E cquasi quasi goderìa sto tomo
De restà ssolo, come stava Iddio
Avanti de creà ll'angeli e ll'omo.

9 ottobre 1835

giovedì 20 dicembre 2012

AH, I TUOI OCCHI

Una canzone dalla Grecia, dove continuano gli scioperi: AX TA MATIA SOU



VOLA BLANCO VOLA



"Blanco" è il nome di uno dei bar più alla moda di Milano. Al sabato non c'è un posto libero dove parcheggiare e la piazza è piena di ragazzi e ragazzi con in mano l'aperitivo.
In Spagna il nome è legato a uno dei maggiori collaboratori di Francisco Franco, il dittatore fascista che ha guidato il paese per quaranta anni.
Si chiamava Luis Carrero Blanco ed era entrato nella Scuola Militare della Marina nel 1918. Nel 1936, quando scoppiò la guerra civile, Blanco si trovò tra le linee repubblicane. Si rifugiò nell'Ambasciata messicana e nel 1937 riuscì a raggiungere i nazionalisti. Dopo la vittoria del Caudillo, egli divenne uno dei maggiori collaboratori del Generalissimo come capo della Marina. Cattolico fervente, fu vicino all'Opus Dei. Nel 1957 entrò nel governo spagnolo; fu quindi nominato ammiraglio nel 1966. Dal 1967 al 1973 ricoprì anche la carica di vice presidente del Consiglio di Stato spagnolo. l'8 giugno 1973 divenne primo ministro, presentandosi agli occhi del mondo come il delfino di Franco.
Sei mesi più tardi, il 20 dicembre 1973, i compagni dell'ETA colpirono il secondo obiettivo per importanza nel paese con uno spettacolare attentato dinamitardo contro la sua automobile, che volò per trenta metri in altezza.




Alla vicenda è stato dedicato un film, "Operacion OGRO", il nome in codice (significato: ORCO) usato dall'ETA per l'attentato, regia di Gillo Pontecorvo, e una canzone, "Así voló, Carrero" (segue il video).

Il film di Pontecorvo, con un grande Volonté, lo potete veder qui:




Ante, ante ¿Quien hizo volar al almirante??

Jueves antes de almorzar,
Carrero tenía que ir a rezar,
pero no pudo ir a rezar,
porque tenía que volar.

Así voló, Carrero voló,
así voló, muy alto llegó,
así voló, Carrero voló,
así voló, muy alto llegó.

Siendo Carrero ministro naval,
su único sueño fue siempre volar...
Hasta que un día ETA militar,
hizo su sueño por fin realidad.

Un petardito
hizo estallar, PUM
y hasta un tejado PUM,
le hizo saltar.

Carrero voló, voló, voló
y desde lo alto del tejado cayó
Carrero voló, voló, voló
y desde lo alto del tejado cayó

Y voló, voló, Carrero voló
Y voló, voló , Carrero cabrón.




mercoledì 19 dicembre 2012

La dietrologia non muore mai. Specialmente a sinistra

Questo il testo del ricordo di Guido Rossa, ucciso dalle Br nel 1979 per aver denunciato un loro militante. Il sito da cui è preso è quello dei Proletari Comunisti Italiani.
Si notino le congetture e le deduzioni mai corroborate da uno straccio di documento.
Solo date e "deve essere così". In grande stile dietrologico.


Guido Rossa

di Norberto Natali 

Il compagno Guido Rossa è sulle nostre bandiere rosse con la falce e il martello. Insieme a Ciro Principessa, Rocco Gatto, Giannino Lo Sardo, Beppe Valarioti, Pio La Torre e Rosario Di Salvo, come le decine di migliaia di compagne e compagni che sono caduti nel corso della gloriosa e incompiuta storia del grande Partito Comunista Italiano e della F.G.C.I. 
Insieme a loro, con la stessa passione, ricordiamo tutti gli altri caduti antifascisti, quanti lottavano per la pace ed il progresso come Valerio Verbano, Peppino Impastato e tutti gli altri fino a Renato Biagetti. 
Questo modesto omaggio si propone di suscitare e poter partecipare ad un dibattito trasparente e pacato (che difficilmente ci sarà) e non ha quindi pretese esaustive. Andiamo subito “al sodo” come forse sarebbe piaciuto a lui. 

Giustizia non è stata fatta. L’attentato a Guido Rossa è stato particolarmente vile perché i suoi assassini lo fecero illudere che sarebbe stato ferito ad una gamba e invece lo uccisero ferocemente. Di questo si vergognarono le stesse B.R. che tennero atteggiamenti imbarazzati e diedero versioni contraddittorie sull’accaduto, rivendicandolo in pieno ma anche giustificandolo con un incredibile “errore di mira” e alla fine sostenendo di aver deciso che dovesse essere “solo” ferito mentre poi uno degli assassini, all’ultimo momento e di testa propria, lo uccise. Quest’ultima fu poi la versione della quale tutti si accontentarono dopo un processo lacunoso e superficiale. 
La verità (mai considerata nei suoi risvolti) è che il compagno Rossa fu ucciso esattamente quarantotto ore dopo che il PCI aveva deciso il passaggio all’opposizione e la caduta del governo Andreotti, a cui seguirono le elezioni anticipate. 
Tra la presunta decisione di ferirlo e l’improvviso mutamento di esecuzione c’era proprio questa scelta del PCI. Essa fu motivata proprio con l’aperta accusa alla DC di aver cambiato politica, tradito la linea di Moro e di aver assecondato gli scopi di chi aveva deciso l’uccisione del presidente democristiano, o comunque delle forze che si erano avvantaggiate della sua morte. 
Chi scrive all’epoca ed apertamente (non vent’anni dopo e sottovoce) aveva criticato la partecipazione del Partito a quella maggioranza di governo ed è testimone che l’omicidio del compagno Rossa (diversamente da quanto accadde alcuni mesi prima per il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta) non riuscì ad influenzare nessun comunista a recedere da quella linea di opposizione alla DC e ai suoi governi. 
Ciò avveniva in un’epoca di gravi contrasti e acuta tensione internazionale mentre maturavano importanti cambiamenti: fu l’anno in cui andò al governo per la prima volta in Inghilterra la Thatcher (e l’anno dopo sarebbe toccato a Reagan negli USA), mentre si consumava una nuova escalation negli armamenti ed in Afghanistan precipitava la guerra civile che avrebbe richiesto di lì a pochi mesi l’intervento sovietico. 
In Italia gli apparati dello stato erano dominati dalla P2 e la mafia era al culmine del suo potere, mentre la corruzione dello stato e la sua inefficienza si aggravavano via via, era stato appena eletto capo dello stato Sandro Pertini. Quella decisione del PCI fu il preludio di una svolta nella sua linea che sarebbe stata salutata con grande entusiasmo, quella dell’alternativa alla DC e al suo sistema di potere. 
I fatti sono questi: quasi tutti quelli che avrebbero potuto chiarire i reali motivi, non tanto dell’attentato ma della sua successiva trasformazione in omicidio, sono morti nel giro di pochissimo tempo. Come è capitato per certi testimoni contro Valpreda e per molti testimoni della tragedia aerea di Ustica ma non in altri casi attinenti alle vicende del cosiddetto terrorismo rosso. 
L’uomo che Guido Rossa aveva denunciato (il quale era eventualmente colpevole di reati tecnicamente non gravi) morì in carcere pochi giorni dopo lo stesso Rossa: “suicidio” si disse subito. Circa un anno più tardi i principali esponenti della colonna genovese delle BR (tra cui l’esecutore materiale dell’omicidio di Rossa) vennero a loro volta assassinati nel corso di un massacro di stato, forse unico nel suo genere, nella storia della Repubblica. Fu individuata la loro abitazione ed una squadra di carabinieri vi fece irruzione nottetempo, mentre dormivano: come si evince dalle foto ed altri riscontri più volte pubblicati dalla stampa, i brigatisti furono sterminati anziché arrestati (come invece è accaduto in tante circostanze simili). 
All’epoca non esisteva il ROS dei carabinieri: esso è una trovata della cosiddetta seconda repubblica. Tuttavia quando fu istituito questo reparto fu logico pensare di arruolarvi subito tra i suoi dirigenti qualcuno responsabile di quella strage di Genova. Tra questi vi è proprio colui che è protagonista di un processo nel quale sostiene di avere le prove che i ROS accordavano protezione a Bernardo Provenzano. Questo processo si trascina stancamente e si svolge in contemporanea ad un’altra causa che non è riuscita a chiarire se alcuni carabinieri hanno consentito alla mafia di limitare danni e conseguenze negative dell’arresto di Totò Riina. 
Un altro sottufficiale dei ROS è stato accusato dalla magistratura siciliana di fare la spia per la mafia. 
Il compagno Guido Rossa non ha ancora avuto la piena giustizia ed il miglior riconoscimento che egli merita: non tanto per i motivi fin qui accennati ma per quelli che seguono. 

Guido Rossa non è un episodio, né una “vittima”. I nostri avversari, ivi compresi quelli che vorrebbero appropriarsi indebitamente della sua figura, riducono il compagno Guido Rossa al solo momento della sua morte ed a un solo episodio della sua vita ovvero quello che costituirebbe il pretesto del suo omicidio. Anche quell’episodio, però, è il portato dell’intera vita del compagno Rossa, della sua coscienza di classe, dei suoi ideali e delle sue scelte politiche concrete. 
Guido Rossa vale per la sua vita più che per la sua morte. Era un operaio di avanguardia e conseguente, che sapeva farsi apprezzare nella vita sociale (per esempio come stimato alpinista). Aveva delle idee precise, come dimostra il suo scritto nel quale spiega in modo così sintetico e suggestivo la sua scelta per il socialismo, la sua identità comunista ossia la sua lotta per cambiare alla radice “una società fondata sul dominio del denaro”.
Era un militante comunista da tanti anni ed aveva lottato per il suo partito fino alla cura del servizio d’ordine della Festa dell’Unità di Genova, fino alle sue ultime scelte. In conseguenza era un combattivo animatore delle lotte sindacali, un punto di riferimento liberamente scelto dagli operai che lavoravano con lui, aveva delle idee precise sulle relazioni sindacali, sulle piattaforme rivendicative, sui diritti e i compiti dei lavoratori. 
Non c’è dubbio che avrebbe lottato apertamente e con successo contro disgustose provocazioni come quelle oggi compiute da squallidi personaggi come Brunetta o Ichino, né avrebbe mai mancato di battersi al fianco del popolo palestinese contro la protervia israeliana. Tutti i suoi atti ed i suoi pensieri lo dimostrano e non c’è, nella sua vita, nulla che possa far dubitare del contrario. 

Le sue scelte non si discutono. Ovvero si possono contestare solo complessivamente. All’Italsider lavoravano migliaia di operai, in gran parte iscritti alla Fiom CGIL. La sezione di fabbrica del PCI aveva moltissimi iscritti e la grande maggioranza dei lavoratori votava comunista. Tutti questi avevano già scioperato contro il terrorismo, contro gli attentati delle BR, il consiglio di fabbrica le aveva condannate chiaramente e quasi tutti si rifiutavano di essere identificati con chi commetteva attentati ed omicidi politici. 
Non bisogna dimenticare che le BR attaccavano con insulti feroci ed infamanti il PCI e la CGIL e lo stesso Guido Rossa, in quanto militante di entrambi, si sentiva spesso definire “jena berlingueriana”. 
Un’esigua minoranza di lavoratori (forse lo 0,1-0,2% del totale) riempiva la fabbrica di scritte brigatiste disseminando volantini e materiale delle BR, contro la volontà esplicita e ripetuta della grande maggioranza dei lavoratori e del consiglio di fabbrica. Si trattava di difendere la propria identità e gli spazi democratici, la cui conquista era costata tante lotte e tanti sacrifici. 
Date le regole clandestine dell’attività brigatista, non c’erano tanti modi per far valere le ragioni della grande maggioranza. Fu così che ai lavoratori rimanevano ben poche scelte per non abbandonarsi alla passività e all’omertà verso le pretese di una piccolissima minoranza da essi respinta. Un giorno Guido Rossa vide per caso uno che lasciava volantini brigatisti nei luoghi frequentati dagli operai all’interno della fabbrica e lo denunciò, accompagnato da molti suoi compagni di lavoro. 
Prima di domandarci se poteva fare altro, bisogna ricordare un fatto poco noto ma di grande importanza storica. La Segreteria del PCI aveva da qualche tempo diffuso un accorato, pubblico appello ai propri militanti e simpatizzanti a non ricorrere “all’autodifesa armata di massa” contro le BR e gli autonomi. Oggi molti giovani non capirebbero quei fatti e chi scrive ritiene, rileggendo quegli appelli, che la direzione del PCI temesse (a torto o a ragione) gravissimi spargimenti di sangue. Forse, in altre situazioni, il diffusore di volantini brigatisti avrebbe ricevuto una severa dose di cazzotti con l’intimazione di non farsi vedere più per non buscarne ancora. Chissà se Guido Rossa fece la sua scelta, oltre che per altri validi motivi, anche per evitare risse e violenze, condividendo le indicazioni del Partito. 
Questa scelta di Guido Rossa –che la si approvi o meno- non può essere separata e isolata da tutta la sua vita e dalla sua personalità poiché ne è una diretta conseguenza anziché un caso sporadico ed accidentale. 
Il sottoscritto si è potuto vantare in un tribunale di aver sonoramente sconfitto certi apparati dello stato che si illudevano di poterlo incastrare nella posizione inconcludente e perdente “né con lo stato né con le BR”. Io stesso ho denunciato da tempo alti ufficiali del ROS e grandi potentati economico-finanziari ed ho dovuto constatare con amarezza come certi che sono a parole “ultrasinistri” si sono ben guardati, pur avendone i motivi, di denunciare gli stessi, ovviamente accampando ragioni “rivoluzionarie”. 
“Né con lo stato né con le BR” non merita una critica politica ma è moralmente ripugnante. Oggi vediamo chi sono quelli che se la cavano con “né con hamas né con Israele” oppure “Israele sbaglia però…”; Giampaolo Pansa è la tipica espressione del “né…né…”. 
Guido Rossa, comunque la si pensi, era di una pasta diversa. Moralmente è meglio un brigatista che uno “né…né…”. Ritengo che molti brigatisti forse pensano la stessa cosa: meglio Guido Rossa che certi “compagni”. 
In ogni caso siamo sempre aperti al dibattito, anzi lo sollecitiamo. Non accetteremo mai, però, di discutere nel merito della sua denuncia con chi prima non condanna senza riserve il vile omicidio del compagno Guido Rossa e non riconosce la sua figura splendida e luminosa di comunista che onora tutti noi. 

Era un comunista. Non era un “sindacalista”, né un “cittadino contro le BR” come ci si limita a dire oggi nelle rare occasioni in cui si parla di lui. Ovvero lo era ma in quanto comunista. Se ha fatto la scelta di denunciare (che la si condivida o meno) l’ha fatta agendo concretamente ed esponendosi in prima persona, per una causa e dei motivi che riteneva giusti e quindi non validi se ridotti a pure chiacchiere. 
E’ esattamente quello che facevano i comunisti su tutti i fronti. Anche Beppe Valarioti (ucciso pochi mesi dopo di lui) aveva denunciato le frodi della cosca mafiosa di Rosarno contro i contadini. Pio La Torre o Giannino Lo Sardo avevano fatto anche “di peggio” che una denuncia. 
I comunisti facevano così. Guido Rossa ha fatto quello che sentiva come proprio dovere contro quelli che si vantavano di essere nemici del suo Partito e che egli sentiva come minacce per la democrazia e per le lotte dei lavoratori, come ostacoli nella lotta per superare il capitalismo. Proprio le stesse cose che Pio La Torre od altri pensavano della mafia o degli intrighi dei circoli imperialisti USA. Insomma se Guido Rossa si fosse trovato nelle condizioni degli altri compagni appena nominati non avrebbe fatto le loro stesse scelte? Certamente sì, proprio come loro (unitamente a tantissimi altri) avrebbero fatto le stesse scelte di Guido Rossa, nei suoi panni. 
Non si può comprendere (o peggio isolare) la sua scelta al di fuori del contesto complessivo di tutte le lotte allora sostenute e degli obiettivi di fondo che richiamavano, né dal suo carattere collettivo ovvero come singolo momento di una scelta e di un impegno che erano di grandi masse. 
In questo modo così originale ed inaspettato, verifichiamo ancora una volta come i comunisti sono contrari a compiere singole azioni individuali slegate dalle masse. 
In altri termini è lecito supporre che il compagno Guido Rossa (come gli altri) non avrebbe compiuto la sua scelta come singolo atto personale mentre è proprio così che oggi viene rappresentata (un “eroe” solitario protagonista di un singolo lodevole atto una tantum) nelle rarissime occasioni in cui viene ricordato. 
Oggi qualcuno direbbe che Guido Rossa era un “politico”. Oggi quelli come lui sono molto pochi e la loro presenza viene completamente nascosta mentre gli odierni politici sono solo dei cialtroni, vili carrieristi, fanfaroni capaci di tradire o cambiare partito ogni tre o quattro anni, patetici fantozziani. Non è questa risma di gente che può parlare di Guido Rossa perché loro non farebbero mai quel che ha fatto lui, per nessun motivo e su nessun piano. Non parlino di Guido Rossa quelli del partito bastardo (il PD) che non sono niente, non hanno storia, che prima di fare qualsiasi cosa soppesano bene se è conveniente o meno per le loro squallide carriere personali; il comunista Guido Rossa non c’entra niente con loro i quali, peraltro, non hanno nemmeno il coraggio di distinguersi dai rubagalline e dai mafiosetti che proliferano nel loro partito. 
Nel bene o nel male Guido Rossa è tutt’altra storia, lo si approvi o meno rappresenta un tipo di umanità che non ha nulla a che vedere con la fauna starnazzante e ruffiana che popola oggi il teatrino della politica. 
Guido Rossa (insieme a molti altri) è uno dei motivi che provano la ragione storica della prospettiva del potere politico ed economico della classe operaia. 

Proprio per questo l’esempio di Guido Rossa ha un valore attuale. Non è un caso che viene ricordato molto poco (meno di altre “vittime del terrorismo”) e quasi sempre per snaturarne la figura e nascondere il contenuto della sua vita. 
E’ clamoroso, però, che la sinistra abbia completamente omesso di ricordarlo. Il sottoscritto deve registrare una delle rare sconfitte della sua vita di militante. Da tre mesi ho cercato inutilmente di organizzare, per questa ricorrenza, una manifestazione unitaria di comunisti. Non è stato possibile. 
Certo la sinistra non difende veramente nulla, sul serio, della sua storia, della sua identità. A mio parere questo non basta per spiegare “l’omertà” su Guido Rossa. Ancor di più la sinistra evita di dotarsi di un proprio preciso e distintivo patrimonio teorico e politico con il quale conquistare il consenso e l’adesione crescente e capace di costituire un valido nutrimento morale e culturale per i giovani. Per questo la sinistra è facile preda di ideologie e teorie di ogni genere che la invadono e la percorrono continuamente ad eccezione di quelle proprie. 
Le Brigate Rosse, le teorie e le correnti che propugnano il ricorso agli omicidi e agli attentati politici in tempo di pace non hanno nulla a che fare con il programma e la storia dei comunisti. Oggi, per fare un esempio, si parla molto di Cesare Battisti ma nessuno dice che le sue scelte di trenta anni fa, qualsiasi cosa si faccia oggi in proposito, non hanno nulla a che vedere con il marxismo-leninismo. Le BR hanno praticato una scelta sbagliata e fallimentare che non serve alla lotta di classe ed è dannosa per la causa del potere proletario e del superamento del capitalismo. Questa è la posizione dei comunisti, quindi anche di Guido Rossa e perfino dello scrivente. Si discuta di questo! 
Riproporre oggi scelte ed esperienze che provengono da quelle brigatiste oppure giustificarle acriticamente significa cacciare la sinistra in una trappola fatale con conseguenze gravissime, significa fare il gioco del partito bastardo e delle frazioni più oltranziste e pericolose della borghesia imperialista. 
Con la stessa chiarezza: i comunisti sono contro le BR per i motivi suddetti e non perché “non violenti”. 
Il disastro ideologico e politico della sinistra attuale comporta la più assoluta confusione. Soprattutto con teorie e programmi moderati ma anche con pericolosi sbandamenti estremistici e disgregatori. Non c’è la precisa e motivata consapevolezza (se non per la “non violenza”) che i comunisti e le BR sono due “partiti” diversi e separati. Spesso si considerano i brigatisti come dei compagni che passano ai fatti (altro che compagni che sbagliano) oppure gli altri come dei “mezzi brigatisti”. Specialmente tra i giovani, in un momento come questo, la confusione è massima ed altamente pericolosa. 
Questi pochi riferimenti esposti con intenti pasolinianamente provocatori sono dovuti ad un dubbio inquietante che si è insinuato in me in questi mesi di fallimentari tentativi: c’è anche paura nella sinistra ad onorare Guido Rossa? E per quali motivi?
E’ fin troppo facile affermare che i motivi per i quali la sinistra non ricorda Guido Rossa (e forse ha paura di farlo) sono gli stessi per cui si trova nella catastrofica situazione attuale. E’ fin troppo facile prevedere che finchè persisteranno questi motivi la sinistra si indebolirà ancora aggravando sempre più la propria crisi e solo quando saremo capaci di dare a Guido Rossa il posto che gli spetta nella storia allora vorrà dire che la sinistra, I COMUNISTI, avranno riacquistato tutta la forza e le qualità che sono necessarie per la riscossa dei lavoratori, per la salvaguardia della pace e la salvezza della natura! 
Per una volta vorrei concludere quel che è pur sempre un omaggio a un compagno caduto con una citazione artistica. La questione basca è cosa ben diversa dalla nostra realtà politica e la funzione dell’ETA è assai difficilmente sovrapponibile a quella delle BR. Tuttavia c’è nel film Ogro (che ritengo un capolavoro artistico) un colloquio tra un operaio comunista madrileno e un militante dell’ETA che stava preparando un attentato (fatto vero) al numero due del regime fascista spagnolo, l’ammiraglio Carrero Blanco. Tutti noi salutammo per anni il successo di quell’attentato, gridando nelle piazze “vola vola vola Carrero Blanco, volerà più alto Francisco Franco”. 
Le parole dell’immaginario operaio comunista sono, artisticamente, il nostro programma: 
Operaio comunista: “Per me voi sbagliate. Una bomba gettata qui, un poliziotto ammazzato là , per me sono stronzate”. 
Militante ETA: “Secondo te allora qual’è la lotta giusta? 
Operaio: “Per noi la lotta è qualcosa di diverso..è il lavoro di tutti i giorni è l’organizzazione, ottenere sempre più consenso, cambiare la testa della gente pezzo per pezzo, giorno per giorno…insomma una fatica di merda che è fin troppo facile disprezzare (dice rivolto al suo amico). Militante ETA: “ A me sembra che sei tu che disprezzi noi” 
Operaio: “No.il fatto è che io credo solo all’azione collettiva, fatta da più gente possibile.. e che serva a più gente possibile”. 

ALBA DORATA AL TERZO POSTO


Secondo i sondaggi di zougla.gr, ALBA DORATA, il partito neonazista greco, è diventato la terza forza tra gli elettori con il 15%. Al primo posto NEA DIMOKRATIA con poco più del 20%, secondo SYRIZA con il 17%; staccati gli altri, con il PASOK in caduta libera al 4%.

DAL SITO DI ALBA DORATA
Ενδιαφέροντα τα αποτελέσματα της διαδικτυακής δημοσκόπησης του zougla.gr. Η Χρυσή Αυγή είναι σταθερά τρίτη με ποσοστό που αγγίζει το 15%. Αυτό άλλωστε το αποδέχονται όλες οι εταιρείες. Περισσότερο ενδιαφέρον έχει ο συσχετισμός των υπολοίπων δυνάμεων, που φαίνεται πως σε κάποια σημεία αγγίζει την πραγματικότητα. Η ΔΗΜ.ΑΡ. (2,3%) πατώνει και μένει εκτός βουλής, ο Καμένος παραπαίει μετά τις αποχωρήσεις (5,4%) και το ΠΑΣΟΚ ακόμα πιο χαμηλά (4,5%).

Ο Σύριζα πέφτει, γεγονός απόλυτα λογικό, λόγω της απόλυτης απουσίας του από την κοινωνία, της θλιβερής αντιπολιτευτικής τακτικής του, των ανθελληνικών θέσεων και της παντελούς έλλειψης ρεαλιστικών προτάσεων. Η ταυτόχρονη άνοδος της Χρυσής Αυγής φανερώνει πως σε σύντομο χρόνο θα έχουμε ξεπεράσει τους νεοπασόκους και τις συνιστώσες τους.
Από την άλλη μεριά το ποσοστό της ΝΔ είναι φουσκωμένο και δεν ανταποκρίνεται στην πραγματικότητα. Υπάρχει φυσικά το κλίμα πλαστής αισιοδοξίας που καλλιεργούν τα κανάλια τις τελευταίες μέρες και σίγουρα έχει επηρεάσει κάποιους ψηφοφόρους. Όταν ο κόσμος αντιληφθεί την πραγματική στόχευση της πολιτικής Σαμαρά είναι δεδομένο ότι θα στραφεί ακόμη πιο μαζικά στην Χρυσή Αυγή, που και σοβαρή πρόταση διαθέτει και την πολιτική βούληση να χτυπήσει στη ρίζα τα μεγάλα προβλήματα.

martedì 18 dicembre 2012

PUSSY RIOT. IL PROCESSO









LODO MORO. LA VERSIONE DI COSSIGA


Che cos'è stato il Lodo Moro


Il 3 ottobre 2008 sul quotidiano israeliano Yediot Aharonot fu pubblicata una lunghissima intervista del corrispondente dall’Italia Menachem Ganz a Francesco Cossiga, ex ministro dell’Interno e poi presidente della Repubblica. Un’intervista che ebbe solo una debole eco sui media italiani. Parlando al quotidiano israeliano, Cossiga rivelava che sarebbe stato firmato un accordo segreto tra Italia e terrorismo palestinese quando era presidente del Consiglio Aldo Moro; i servizi segreti avrebbero chiuso gli occhi sulle attività logistiche ed economiche dei terroristi in Italia, in cambio di una sorta di immunità dagli attentati, che non preservava però i cittadini ebrei. Infatti, nel 1982 ci fu l’attacco alla Sinagoga di Roma.
In realtà il cosiddetto “Lodo Moro” era noto da tempo, ma nessun politico italiano aveva ammesso con tanta dovizia di particolari la vicenda. Già nell’estate del 2008, alcune esternazioni di Cossiga a proposito della strage di Bologna del 2 agosto 1980 avevano riaperto la vergognosa pagina di “realpolitik all’italiana”, ma l’intervista offre dettagli inediti.
“Vi abbiamo venduti”, ha dichiarato infatti Cossiga. “Lo chiamavano ‘Accordo Moro’ e la formula era semplice: l’Italia non si intromette negli affari dei palestinesi, che in cambio non toccano obiettivi italiani”. Ma gli ebrei erano esclusi dall’equazione. Cossiga ha anche dichiarato che oggi la situazione è per certi versi analoga: “C’è un accordo con Hezbollah in Libano”. Menachem Gantz riferisce che in casa di Francesco Cossiga, nel cuore del quartiere Prati di Roma, sventolano l’una accanto all’altra tre bandiere: quella dell’Italia, quella della Regione Sardegna e quella di Israele. Ma, nota il corrispondente “Non sempre l’ex presidente della Repubblica italiana è stato un amante di Sion. Negli anni Cinquanta, fu lui a fondare l’Associazione Italia – Palestina. Poi, quando era presidente del Senato, ha persino dato, nel suo Gabinetto, asilo ad Arafat quando era stato emesso un mandato di cattura nei suoi confronti. Ma oggi, a ottant’anni, Cossiga ama Israele”.
Gantz ha chiesto a Cossiga: “Se l’Italia aveva ottenuto l’immunità dal terrorismo palestinese, come mai ebbero luogo nel Paese attentati sanguinosi contro obiettivi ebraici?”. La risposta: “In cambio di ‘mano libera’ in Italia, i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e l’immunità di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici, fin tanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”. Gli ebrei, ovviamente, sono stati considerati “fiancheggiatori dei sionisti”, quindi esclusi dall’immunità. Questo accordo è costato la vita a Stefano Taché, due anni, nell’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre ’82. Le volanti della polizia di solito presenti davanti al Tempio si allontanarono poco prima dell’attentato. E nel dicembre del 1985, all’aeroporto di Fiumicino, terroristi palestinesi attaccarono con mitra e bombe a mano il banco dell’El Al e quello della compagnia americana TWA. Tredici persone furono uccise e settanta ferite. Una vergogna che peserà per sempre su chi firmò l’accordo, come pure la morte di Leon Klinghoffer sull’Achille Lauro, con il capo dei terroristi lasciato scappare da Bettino Craxi a Sigonella.
“Per evitare problemi, l’Italia assumeva una linea di condotta  tale da non essere disturbata o infastidita”, continua Cossiga nell’intervista del 2008. “Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli americani, l’Italia si arrese ai primi. Posso dire con certezza che anche oggi esiste una simile politica. L’Italia ha un accordo con Hezbollah in Libano per cui le forze UNIFIL chiudono un occhio sul processo di riarmo, purché non siano compiuti attentati contro gli uomini del suo contingente”. Forse lo stesso accordo protesse i soldati italiani in Libano, nel 1983, quando invece, in due diversi attentati con auto-bomba, furono uccisi 241 americani e 58 francesi.
Cossiga ammette di essere rimasto sorpreso per l’indifferenza con cui è stata accolta in Italia la sua rivelazione. “Ero convinto che la notizia pubblicata in agosto avrebbe risvegliato i media, che magistrati avrebbero cominciato ad indagare, che sarebbero cominciati gli interrogatori dei coinvolti. Invece c’è stato il silenzio assoluto”. I rapporti complessi con il meccanismo del terrorismo palestinese, Francesco Cossiga li ha conosciuti per la prima volta alla sua nomina a ministro dell’Interno nel 1976. “Già allora”, continua nella sua intervista a Yediot Aharonot, “mi fecero sapere che gli uomini dell’OLP tenevano armi nei propri appartamenti ed erano protetti da immunità diplomatica. Mi dissero di non preoccuparmi, ma io riuscii a convincerli a rinunciare all’artiglieria pesante ed accontentarsi di armi leggere”. Più tardi, quando era presidente del Consiglio nel 1979-1980, gli divenne sempre più evidente il fatto che esistesse un accordo chiaro tra le parti. “Durante il mio mandato, una pattuglia della polizia aveva fermato un camion nei pressi di Orte per un consueto controllo”, racconta. “I poliziotti rimasero sbigottiti nel trovare un missile terra-aria, che aveva raggiunto il territorio italiano via mare”. Nel giro di alcuni giorni, racconta Cossiga, una sua fonte personale all’interno del SISMI passò al segretario del governo informazioni in base alle quali il missile andava restituito ai palestinesi. “In un telegramma arrivato da Beirut era scritto che secondo l’accordo, il missile non era destinato ad un attentato in Italia, e a me fu chiesto di restituirlo e liberare gli arrestati”. Cossiga stesso, va sottolineato, non era stato mai ufficialmente informato dell’esistenza di questo telegramma. Se non fosse stato per la sua fonte nel SISMI, non sarebbe stato consapevole di tutta questa storia. “Col tempo cominciai a chiedermi che cosa potesse essere questo accordo di cui si parlava nel telegramma. Tutti i miei tentativi di indagare presso i Servizi e presso diplomatici si sono sempre imbattuti in un silenzio tuonante. Fatto sta che Aldo Moro era un mito nell’ambito dei Servizi Segreti”.
A proposito dell’attentato alla Sinagoga di Roma, Cossiga dichiara che l’unico attentatore arrestato, non per mano italiana, è Abd El Osama A-Zumaher. Fu arrestato in Grecia mentre trasportava esplosivo con la sua auto. I greci lo liberarono dopo sei anni, ed egli scappò in Libia. Le autorità italiane non ne hanno mai chiesto l’estradizione. “Oggi”, ammette Cossiga, “non si può più scoprire tutta la verità su quanto accaduto. L’Italia non chiederà mai la sua estradizione e i libici non lo consegneranno”.
Cossiga ha colto però nel sistema Italia una sorta di “reciprocità dell’ignavia”, una “equivicinanza” ante litteram. “L’Italia non si immischia in quanto non la concerne. Anche l’azione del Mossad contro gli assassini degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 è passata per Roma”, dice. Come noto, Adel Wahid Zuaitar fu ucciso a Roma. “Crede che l’Italia non potesse, a suo tempo, arrestare i due agenti che lo fecero fuori?”.  Yediot Aharonot chiede: “Lei paragona l’eliminazione di un terrorista all’assassinio di un bambino di due anni all’uscita della sinagoga?” “No, assolutamente no. Se avessi saputo che le volanti della polizia erano state istruite ad andarsene quella mattina, nell’ambito di quell’accordo di cui mi hanno sempre negato l’esistenza, forse tutto sarebbe andato diversamente”. La colpa, tuttavia, Cossiga la attribuisce solo ed esclusivamente ad Aldo Moro. E sostiene che la politica di altri Paesi europei era analoga: “La Germania ha liberato il commando dei terroristi che uccisero gli atleti a Monaco di Baviera, e anche la Francia si è comportata in modo simile. Questa era la politica europea. Tranne gli inglesi, ovviamente”. Il magistrato Rosario Priore, membro della Corte di Cassazione di Roma, conferma le dichiarazioni di Cossiga: “L’Accordo Moro è esistito per anni”, ha dichiarato, “l’OLP aveva in territorio italiano uomini, basi ed armi”. Quello che oggi preoccupa di più è la certezza di Cossiga sul fatto che l’Italia abbia un accordo con Hezbollah, che ne consente il riarmo. La minaccia per Israele è grave.

FONTE:
 http://www.mosaico-cem.it/articoli/a-30-anni-dallattacco-alla-sinagoga-di-roma-che-cose-stato-il-lodo-moro

lunedì 17 dicembre 2012

IL LODO MORO


“Lodo Moro”: prevenire e vietare in Italia il manifestarsi del sanguinoso conflitto israelo-palestinese

Strage alla stazione di Bolognadi Tommaso Fabbri
Una leggenda metropolitana degna di personaggi neocon statunitensi come Michael Ledeen (il supervisore, fra l’altro, del famoso depistaggio del gennaio 1981 sulla strage di Bologna), a volte ripresa anche da qualche giornalista proveniente dalla sinistra degli anni ’70, racconta che, in grande segreto e per molti anni, l’Italia avrebbe permesso ai palestinesi di trasportare liberamente armi nel territorio italiano in cambio della cessazione degli attentati sanguinari all’interno dei propri confini:
Dal punto di vista dell’effettiva segretezza, il lodo Moro rappresenta un caso per alcuni aspetti unico e paradossale. Tutti sanno della sua esistenza almeno a partire dal 1978 ma tutti fingono di ignorarla per i successivi quarant’anni. Le allusioni all’esistenza di un qualche patto segreto tra Italia e Olp si moltiplicano nel corso dei decenni. Tuttavia l’esistenza del lodo resta formalmente segreta fino al 2008, quando l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ne parla per la prima volta ufficialmente.
(pagina 122, “Trame. Segreti di Stato e diplomazia occulta della nostra storia repubblicana” di Andrea Colombo, Cairo Publishing, 2012).

Il “lodo Moro”, in realtà, di cui il presidente della Dc Aldo Moro parla nel 1978 ai brigatisti rossi e in alcune sue lettere per evidenziare la necessità di una soluzione del conflitto autoctono (scambio dei prigionieri fra Stato e Br), circostanza squisitamente politica dimenticata o poco sottolineata perfino nel minuzioso studio di Miguel Gotor, non riguarda solo il problema del trasporto di armi nel territorio italiano e i rapporti con i palestinesi; inoltre non è nemmeno in antitesi rispetto al democristiano “lodo De Gasperi” che dal dopoguerra favorisce il Mossad, il famoso servizio segreto israeliano (vedasi “Mossad base Italia” di Eric Salerno, Il Saggiatore, 2010).
Si tratta invece di un accordo riguardante gli apparati diplomatici e i servizi segreti di tre soggetti politici e non certo solo di due. La storia concreta, la logica della politica internazionale e le dichiarazioni dei protagonisti ce lo fanno capire senza ombra di dubbio. È davvero banale dirlo ma finora, almeno dal crollo del “blocco dell’est” in poi, nessuno studioso ne ha fatto il benché minimo cenno in termini chiari ed espliciti. Il vero dramma è che pochi leggono, pochissimi sanno leggere libri e giornali e quasi nessuno studioso è capace di fare della buona ed onnilaterale ricerca storica.
Il “lodo Moro”, al di là delle analisi unilaterali e imprecise diffuse soprattutto sul web, è una tregua che, dopo la strage di Fiumicino del dicembre 1973 e almeno fino ai primi giorni dell’ottobre del 1981, l’Italia ottiene sia dall’OLP che dal Mossad. Quel che accade dopo ce ne offre una conferma implicita.
A Roma, il 9 ottobre 1981, una bomba a tempo piazzata in una camera dell’albergo Flora uccide Majd Abu Sharar, il responsabile del «dipartimento informazione dell’OLP. I servizi segreti italiani sapevano del suo arrivo e del suo passaporto algerino con false generalità.
A quel punto l’indignazione palestinese non si fa attendere. Dal Libano, per bocca di Abu Iyad (nome di battaglia di Salah Mesbah Khalaf), l’OLP minaccia il governo italiano: “se non si trovano i responsabili Roma diventerà terreno di caccia all’uomo” (“Dal Libano l’OLP minaccia l’Italia” di Mimmo Candito, L’Unità, 10 ottobre 1981; in questo articolo Abu Iyad viene chiamato Abu Ayad). Quelle parole, come acutamente sottolinea il giornalista dell’articolo sopra citato, non sono certo una dichiarazione di guerra all’Italia ma presentano “una durezza di tono da considerare con molta attenzione” (ibidem).
Dopo parecchi anni, e per la prima volta in maniera effettiva, i rapporti fra l’Italia e l’Olp sembrano destinati ad un irreversibile deterioramento perché la situazione è più grave di quanto si possa pensare. La Farnesina emette allora una nota di condanna verso l’azione omicida e i “metodi di lotta politica fondati sulla violenza, inaccettabili sul territorio italiano quale che ne sia la provenienza” (“Una missione dell’OLP a Roma per far luce sull’assassinio” di Giancarlo Lannutti, L’Unità, 11 ottobre 1981).
Il giorno dopo, anche se la matrice del delitto risulta chiara in modo inequivocabile, una significativa delegazione dell’OLP è a Roma, per eseguire da vicino le indagini italiane sull’assassinio di Sharar e per conoscere meglio le dinamiche e gli eventuali complici del crimine. Secondo il rappresentante dell’OLP in Italia Nemer Hammad:
L’assassinio di Majed Abu Sharar è un’operazione israeliana, e noi ci aspettiamo che le indagini condotte dalle autorità italiane accertino la verità e abbiamo fiducia che vengano chiarite le responsabilità. (…) Gli israeliani – dice ancora Hammad – hanno violato il -tacito accordo. che aveva tenuto il territorio italiano, dopo la strage di Fiumicino del dicembre 1973, fuori della .”guerra dell”ombra”; né l’Italia né l’OLP hanno interesse a che questa violazione abbia conseguenze più gravi.
(“Una missione dell’OLP a Roma per far luce sull’assassinio” di Giancarlo Lannutti, L’Unità, 11 ottobre 1981).
Rispetto alla vicenda dei missili di Ortona sequestrati il 7 novembre 1979 a tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci, all’imprigionamento di questi ultimi e al successivo arresto del militante del FPLP Abu Saleh (rimasto in carcere solo un paio di anni e poi per qualche tempo agli arresti domiciliari), l’omicidio di Sharar è qualcosa di mille volte più grave perché, oltre a colpire in modo sanguinario e definitivo un importante funzionario dell’OLP, mette in discussione alla radice l’accordo politico del ’73 che stipula con le due parti in conflitto, Israele e palestinesi, l’impegno a non trasferire sul territorio italiano le loro azioni di guerra.
L’OLP ha accusato direttamente i servizi segreti israeliani per l’assassinio, lasciando intendere che nessuna resistenza c’è stata da parte italiana per far rispettare il famoso accordo del ’73 sulla “neutralità” del nostro territorio nelle vicende interne tra israeliani e palestinesi”
(“Chiarita definitivamente la tecnica dell’attentato contro Abu Sharar. Biglie d’acciaio nella bomba”, L’Unità, mercoledì 14 ottobre 1981).
Già nel 1981 – senza attendere il 2008 con le imprecise e ambigue dichiarazioni dell’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga a quel tempo gravemente malato di sindrome bipolare affettiva – quel patto è famoso e ufficiale perché, fra gli altri, ne parla esplicitamente anche Hammed, il rappresentante dell’OLP in Italia.
Non solo. Ad esso fanno riferimento le parole di Francesco Mazzola (sottosegretario alla presidenza del Consiglio dal giorno 8 agosto 1979 al 4 aprile 1980 e poi dal 6 maggio 1980 al 18 ottobre.1980) e un articolo del quotidiano la Stampa:
“Le strutture del Sismi, il servizio militare di controspionaggio, sono rimaste per buona parte le stesse che operavano ai tempi del Sifar di De Lorenzo e del Sid di Piazza Fontana. Le operazioni di “pulizia”, come è successo durante la recente vicenda della “P2″, sono state limitate sempre ed esclusivamente ai vertici. “Con il risultato – dice l’ex sottosegretario democristiano Mazzola, responsabile per i servizi di sicurezza nel governo Cossiga – di sconvolgere delicati equilibri. Gli accordi fra servizi vengono presi in genere dai massimi responsabili e si fondano sulla fiducia ed il rispetto reciproci”.
(“Il Sismi non trova bravi 007 e continua ad assumere parenti” di Ruggero Conteduca, La Stampa, 19 novembre 1981).
Per questo motivo, commenta il giornalista, “dopo anni di tregua seguiti alla strage di Fiumicino” (ibidem), l’Italia e Roma in particolare sembrano ridiventare “terreno di scontri fra arabi e israeliani” (ibidem). Ruggero Conteduca si chiede poi in che senso siano cambiati gli equilibri secondo l’affermazione di Francesco Mazzola – si ricordi il suo ruolo nei governi Cossiga I e II – e giunge a questa conclusione : “Con l’arrivo di Lugaresi al posto di Santovito (incappato nelle liste di Gelli) il Sismi ha fatto un passo indietro privilegiando la linea filo-israeliana, come era sempre avvenuto prima di Miceli” (ibidem).
In Italia la tregua fra israeliani e palestinesi, sia pur indebolita dalla nomina di Lugaresi a direttore del Sismi e dalla sclerotica inefficienza nepotistica esistente nei servizi segreti italiani, viene ripresa anche in seguito all’omicidio di Majd Abu Sharar. Si spezza però in maniera definitiva il 17 giugno 1982, quando a Roma vengono uccisi due palestinesi (Nazyh Mattar, un aderente all’OLP senza alcun incarico particolare, e Yussef Kamal Hussein, vicedirettore dell’ufficio dell’OLP in Italia) e a Beiut le truppe israeliane hanno già circondato la città.
Un paio di mesi dopo i principali dirigenti palestinesi dell’OLP (Arafat e Abu Iyad ad esempio), che vivono in modo diretto e quotidiano le alterne vicende della guerra civile libanese sviluppatasi come conseguenza dei bombardamenti israeliani del 10 luglio 1981, si rifugiano a Tunisi.
In sintesi, alcune cose emergono con un sufficiente grado di certezza: il patto del 1973 durò molti anni e, soprattutto dal punto di vista palestinese, la vera inosservanza suscettibile di spazzarlo via una volta per tutte ci fu il 9 ottobre 1981 con l’omicidio di Majd Abu Sharar. Last but not least, la minaccia all’Italia lanciata da Abu Iyad lo stesso giorno di quel crimine era una conferma di quanto sanno tutti gli esperti della storia dell’OLP. Nella seconda metà del 1981 Abu Iyad restò sempre in Libano, per lo più in una specie bunker sotterraneo che costituiva la sede dell’OLP a Beirut.
Come se non bastasse, il 7 marzo del 1981 sul quotidiano La Stampa si fece riferimento ad un rapporto del Sismi che lo indicava come “collegamento fra le Brigate Rosse e lo Yemen del Sud”, fatto mai provato e perciò significativo del carattere non certo benevolo del Sismi verso il braccio destro di Arafat (“Roma: scoperti piani dell’ultradestra contro la polizia” di Sandra Bonsanti, La Stampa, 7 marzo 1981).
Tale circostanza, a sua volta, induce ad escludere completamente che Abu Iyad possa essere stato il misterioso personaggio che si cela dietro la “A.” di cui si legge nell’”olografo Senzani” (un criptico manoscritto che fu trovato nel 1982 al militante del Partito Guerriglia Giovanni Senzani). Abu Iyad, ucciso poi a Tunisi nella notte fra il 13 e il 14 gennaio 1991 da nemici dell’OLP, nel 1981 sapeva quel che si diceva su di lui in Italia. E, come ogni dirigente dell’OLP, non era uno sciocco e nemmeno un pazzo avventurista.