sabato 24 dicembre 2011

Oriana Fallaci. Una biografia di prossima pubblicazione

Una casa editrice milanese sta lavorando a una biografia di Oriana Fallaci. Uscirà nel 2012.
Oriana Fallaci ha costituito uno dei maggiori casi letterari che l'Italia abbia avuto negli ultimi decenni e che dopo la sua morte è destinato probabilmente a rinnovarsi; io stesso, che mi ero fermato a "Un uomo", forse finirò per leggere qualcosa di più rabbioso e orgoglioso.
Si conosceva bene la giornalista. Essa aveva un ego ragguardevolmente ipertrofico che le imponeva di dividere con la sua scrittura. Talentuosa, scrupolosa, concepiva la sua professione come una missione e si era convinta, specialmente negli ultimi anni di vita, di essere nel giusto. Prigioniera di questa sua convinzione, la Fallaci ha prodotto molti danni e ha contribuito alla polarizzazione dell'opinione pubblica italiana in un momento nel quale sarebbe servito soprattutto ragionare. Si considerava, peraltro, una storica e non apprezzava gli storici di professione - gli studiosi, insomma - in quanto, diceva, essi arrivavano a occuparsi di un avvenimento due o trecento anni dopo e pretendevano di ritrovare la verità leggendo fonti scritte da così tanto tempo e probabilmente manipolate da altri interventi. Il giornalista, invece, che osserva direttamente i fatti che descrive, è l'unico portatore di verità e, dunque, non si deve dubitare di ciò che ci viene detto quando si ascolta la Tv o si legge la stampa.
Si tratta di una grave mistificazione della realtà. Il giornalista che racconta un fatto crea nel migliore dei casi una "Cronaca" (o parte di essa). Quello che intervista un uomo politico ecc., o compie un'inchiesta, crea un documento. Sia la Cronaca che l'intervista o l'inchiesta diventano delle fonti e possono essere usate dallo storico, che si differenzia dal giornalista e dal cronista proprio per la possibilità che egli ha, e offre agli altri, di controllare le fonti non solo in quel momento, ma sempre, anche a distanza di cento anni da uno storico di un'altra epoca. Quando non è possibile fare ciò, si esce dall'ambito scientifico e si entra altrove. Ciò è dirimente, in quanto è proprio la possibilità di controllare le fonti (che corrisponde in fisica a quella di ripetere un esperimento in laboratorio), a fare della storia una scienza, a differenza del giornalismo, che è una professione.
I danni provocati dall'esaltazione di certe argomentazioni della Fallaci, proveniente del resto essenzialmente da suoi colleghi, contribuisce alla mancanza di chiarezza che contraddistingue le pagine dei giornali italiani negli ultimi anni sulle quali, troppo spesso, si parla sempre di "altro". Da storico ritaglio e conservo i quotidiani, o li fotografo, ostinandomi a non dare retta a Kraus, per il quale il giornale del giorno prima era buono solo per incartare il pesce. Ma forse aveva ragione lui.

Raciti e la sentenza d'appello

Filippo Raciti
Questa settimana il verdetto di primo grado sull'omicidio dell'ispettore di polizia Filippo Raciti è stato modificato dall'appello, che ha dimezzato la pena inflitta in primo grado ad Antonino Speziale: ora dovrà scontare otto anni. La vedova, Marisa Grasso ha commentato la sentenza come "giusta".
La morte dell’ispettore Raciti fu una di quelle morti che pesano, al punto di riuscire, allora, a fermare una delle maggiori industrie italiane, la calcistica, che ha un giro d’affari pari a circa mezzo punto di Pil. Pochi oggi ricordano che una settimana prima, in un oscuro campetto di periferia della periferia d’Italia, la Calabria, era morto un dirigente di una squadra di terza categoria. Aveva pesato meno, non si era fermato il calcio, ma aveva suscitato scalpore e un certo sdegno. Non mi interessa qui “misurare” i due episodi, anche se un certo collegamento ce l’hanno; mi vorrei soffermare sul significato politico del primo e del perché il secondo è apparso subito più leggero. La risposta è ovvia: nel primo caso è morto un servitore dello Stato, nel secondo un cittadino qualunque.
Servitore dello Stato: quante volte si è usata questa locuzione sui media e nei discorsi dei politici? Da Calipari a Dalla Chiesa, da Calabresi a Falcone e Borsellino, si è sempre usata questa espressione per volerne sottolineare una qualità, metterne in evidenza la caratteristica pubblica più evidente, più facilmente comprensibile per l’opinione pubblica. Ma cosa dice davvero questa espressione, che negli anni Settanta veniva addir
ittura storpiata, ma dunque accettata, in servo dello Stato? Cosa cela dentro di sé? Un baco? Se sì, di che tipo?
Ebbene, l’espressione è un ossimoro, un controsenso, un falso. Lo Stato è la mediazione del complesso di molteplici interessi di varia natura. È lo Stato che serve affinché queste contraddittorie tensioni si tengano assieme. Chi lavora per lo Stato, nell’interesse dello Stato, non difende un’idea astratta, ma un preciso patto che serve alla conservazione, al mantenimento e alla proliferazione di un determinato interesse specifico di classe. Carlo Giuliani durante il G8 di Genova stava difendendo, quando venne assassinato, uno specifico interesse di classe opponendosi alla violazione dei diritti civili perpetrata in quel momento più in generale dagli otto governi riuniti nella illegale zona rossa e, in particolare, proprio dalle forze dell’ordine che proditoriamente avevano attaccato una dimostrazione pacifica interrompendo le garanzie costituzionali. In quel momento, in quel dato contesto, se si vuole parlare con le parole di cui si tratta in questo pezzo, essi non erano servitori dello Stato, mentre lo era Carlo. Ma, in realtà, non lo era neppure Carlo, in quanto lo Stato non prevede per sé dei servitori. I servitori sono previsti solo se si parla di potere. Le forze dell’ordine erano, a Genova, servitori del potere in assenza dello Stato. L’espressione servitore dello Stato, in realtà, significa proprio questo: si è servitori di un determinato potere in uno specifico contesto, quando il potere non è più mediazione di interessi diversi ma rappresentazione violenta di un solo interesse particolare. Ed ecco che la differenza tra servitore del potere e servo del potere decade nel senso che il potere vuole solo accoliti.
Morire per una partita di pallone, invece, c’entra poco con il senso del dovere e dello Stato. È una morte inutile, stupida, tragica. È un nuovo tassello di guerra civile, un terminale di questa società che non è tenuta assieme ormai più da niente e che si sgretola in ogni occasione nella quale potrebbe perdere il suo equilibrio. È la rappresentazione dell’altra faccia del potere, ossia dell’assenza dello Stato. Lo si è visto nelle reazioni del dopo Catania. La politica spesso sembra lasciare che si arrivi al parossismo per poi  governare l’emergenza. Nessun progetto per il paese. Totale assenza. Più facile e meglio così.
L’ispettore Raciti faceva parte delle guardie d’onore della famiglia sabauda, quelle che si vedono dentro al Pantheon in un giorno qualsiasi mentre fanno il picchetto sulle tombe dei nostri re. Dove c’è uno Stato questo non è strano. A Istanbul (Turchia) le tombe di alcuni sultani e della loro discendenza sono un monumento nazionale. È il passato, concluso, al quale si è riconoscenti se ha reso prestigioso lo Stato. Da noi, invece, il passato non passa mai. I Savoia non sono morti e far parte del picchetto d’onore a quelle tombe ha un significato politico, perché i Savoia rappresentano ancora un potere, che si contrappone a un altro potere. Che ci fa un poliziotto tra quei volontari? Di chi è servitore, quando incrocia lo sguardo dei turisti accanto alla tomba di Umberto I, ucciso dal compagno Gaetano Bresci nel 1900 a Monza? 










La morte di Bocca, Saviano e lo sciacallo "Repubblica"

Se qualcuno dei camorristi vuole ancora oggi uccidere lo scrittore napoletano Saviano, si tratta di un problema serio: Saviano va protetto dallo Stato, a lui deve andare la solidarietà di tutti e la lotta alla camorra va condotta anche perché nessuno possa, né oggi, né in futuro, minacciare di morte qualcuno solo perché abbia scritto. Saviano deve poter vivere da uomo libero in una società libera.
Se ciò fosse realizzato, potrei forse argomentare con più serenità quello che sto per scrivere e che non posso, nonostante il momento, anzi, proprio per il momento, non dire. Saviano scrittore e il fenomeno Saviano non mi piacciono.
I motivi sono tre: il primo riguarda proprio la lotta alla camorra. Ridurla a Saviano, identificarla con il giovane scrittore napoletano, significa rischiarne il discredito qualora il libro “Gomorra” fosse discreditato o il personaggio Saviano perdesse di veridicità e dunque di stima generale.
Il secondo motivo è più propriamente pertinente al suo mestiere. Non mi piace come scrive e non mi piace il libro “Gomorra”. Non è un romanzo, ma non è neanche un saggio. È un saggio in fiction dove i fatti vengono raccontati per sentito dire o per averli visti di persona. Si ha l’impressione che lo scrittore abbia frequentato gli stessi ambienti dei camorristi, non come un alieno, bensì dal di dentro, pur ovviamente non essendo mai stato un camorrista. Era lì, osservava. Lo conoscevano, lo lasciavano osservare. Poi, ha scritto il libro. Perché dovrei fidarmi? Perché dovrei identificare veridicità e verità? Solo perché si tratta della camorra, che è il male. Non può bastare e a me, che faccio lo storico, non basta. Dunque, “Gomorra” non aggiunge nulla di nuovo a quello che già conoscevo. Lo fa di più una sentenza di un tribunale di Napoli.E, infine, il terzo motivo. Da quando è uscito il libro, Saviano ripete sempre le stesse cose. Da un lato afferma che lo si vuole uccidere non per lo scrittore in sé, ma per il libro, perché la camorra avrebbe paura della pubblicità. Un lettore, afferma in ogni occasione, prende coscienza e se tutti avessero coscienza la camorra non potrebbe più continuare a fare le sue operazione nel silenzio. In tutti questi anni non è mutata la situazione?

E' morto Giorgio Bocca. Cosa c'entra Saviano con Bocca? Nulla. Di lui Bocca aveva detto, nel novembre 2010, "è uno che recita, un bravo attore" e ancora "la mafia è troppo divertente in Gomorra per essere vera".
Un giudizio, come si vede, senza appello.



Eppure, in occasione della morte del grande giornalista, Saviano lo rievoca su "Repubblica", che non perde occasione. Comincia con un colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Bocca che parlano di mafia. Il loro, afferma, era amore per il sud, "da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi."

Dalla Chiesa, il creatore delle Carceri Speciali durante gli anni Settanta e dell'operazione Camoscio, quando centinaia di brigatisti e altri combattenti di sinistra furono deportati dai normali uffici di pena ai "kampi" sulle isole del meridione. Bell'amore per quella terra! La violazione dei più elementari diritti del cittadino, del cittadino più debole di tutti, quello in carcere, e l'inizio della sistematica violenza per sconfiggere la lotta armata. 
Vuole capire, afferma Saviano, ma non comprende la violazione più elementare della dignità umana. Secondini che spezzano ossa, colpiscono a freddo, impongono la loro legge e non quella del diritto. Familiari costretti a giorni di viaggio per visitare i prigionieri, umiliati da sistematiche perquisizioni vaginali e anali, respinti, a volte, per motivi burocratici. Questo è stato Dalla Chiesa. Che poco o nulla aveva da spartire con il partigiano Bocca.
Che poi, Bocca avrebbe insegnato qualcosa a Saviano, ossia a "raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore", lo vorrei proprio vedere. Vorrei conoscere gli orari dei loro incontri, i luoghi, le parole dette e la stima, se c'era, che Bocca dimostrava allo scrittore campano. Ci si paragona, si mette al suo stesso livello, perché qualcuno lo avrebbe accusato, come Bocca, di essere un "rinnegato", un "antimeridionale". Non ricordo, francamente, se non qualche camorrista da quattro soldi. Quelli ricchi, tra l'altro, stanno a Milano. Ieri uno di loro momenti mi investe con una Bently. Sulle strisce, ovviamente. E mi manda anche a cagare. 
Ma torniamo a Bocca. Ha fatto dell'essere "antitaliano", scrive Saviano una virtù. 
Mi ritorna in mente un motivetto: "Io non sento italiano, ma per fortuna o purtroppo, lo sono". Lo metterò in coda al pezzo. Non era di Saviano, né di Bocca, né di Dalla Chiesa, ma di Gaber. Giorgio.
Caro Saviano, non so chi frequenti. Ma qui, non ci sono in giro molti che si arrendono ai luoghi comuni, come tu scrivi. Almeno, io ne conosco pochi. E li evito con molta circospezione. Ma la mia vita è piena di persone che ragionano con la loro testa, e non grazie a te. Forse un po' grazie a Bocca. Ma è qualche goccia in un mare di stimoli e di letture, molte ben più importanti e appassionate. 
Alla fine del suo pezzo, Saviano scopre che a Sud di Roma è difficile ascoltare racconti di partigiani. Direi impossibile. 



Giorgio Gaber
Io non mi sento italiano


Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.

Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.


Mosca 24 dicembre. Putin. Un passato che non passa

Il percorso della manifestazione del 24 dicembre nel centro
di Mosca. Fonte: Polit.ru
La protesta odierna non unisce a Mosca persone legate da una comune matrice ideologica, ma la pretesa che siano rispettati i diritti civili e la dignità umana. Tanto che, si sono detti gli attivisti scesi in piazza, qualsiasi forma di propaganda a favore di un candidato o di un partito avrebbe discreditato la manifestazione. Nessuna differenza, in questo senso, tra il blocco di Javlinskij (Jabloko) e il Partito comunista russo di Zjuganov. E' la seconda vera manifestazione di massa a Mosca. Sono scesi in piazza quelli che in occidente chiamiamo "gli indignati". Ma vale la pena chiarire chi sono: persone che la politica ha ingannato e che con il suo inganno ha costretto a scendere in strada. Con il suo cinismo, la corruzione e il terrore, la politica odierna ha smosso gli animi delle persone normali, che sono scese per difendersi. "Nessuno se ne andrà di qui", è uno degli slogan principali scanditi sul lungo Viale Andrej Sacharov, dove si è svolta la manifestazione. E ancora, questo movimento non ha bisogno, per il momento, di politici di professione o, per meglio dire, di politici navigati. Quello che serve è una lustrazione, nel solco delle proteste dei decenni passati nei regimi comunisti, come Charta 77 in Cecoslovacchia, Solidarnosc in Polonia. Serve un cambio generazionale e sociale al centro della politica russa per impedire che il paese viva ancora per 12 anni in una situazione di soffocamento democratico. La gente non è scesa in piazza a difendere i partiti che comunque siedono in parlamento dopo le elezioni di dicembre. E' scesa per difendere il proprio voto, ogni singolo voto che è stato violato dai brogli. Dunque, la democrazia, nella sua manifestazione più importante. Per fortuna si è consapevoli che la liberazione dal politico di professione non significa automaticamente il raggiungimento della felicità. Tutt'altro. Senza la politica, in Russia come in Italia, non si risolvono i problemi e non si compiono passi in avanti. Ma una piattaforma civile in grado di riunire intellettuali, studiosi, giovani politici, attivisti dei diritti civili e persone comune portate in piazza dalla corruzione sarebbe una solidissima base di partenza. Al di là delle stupidaggini dei giornali sulla figlia dell'ex sindaco di San Pietroburgo, Anatolij Sobchak, Oksana, sguaiata presentatrice televisiva che nulla ha a che vedere con la difesa dei diritti civili, ai quali fino ad oggi non ha mai pensato per un solo attimo. 
Una parte della manifestazione del 24 dicembre a Mosca
Fonte: Repubblica.it



venerdì 23 dicembre 2011

LA VIOLENZA DI SAVIANO

Roberto Saviano
Esiste una barzelletta russa che riguarda i nostri carabinieri. Si presenta uno di loro a un esame di letteratura e premette di essere uno scrittore. L'esaminatore lo loda, poi gli chiede di parlare del contenuto di "Guerra e Pace". Il candidato si rabbuia e offeso risponde: "Non lo conosco, io sono uno scrittore, mica un lettore".

La parabola vale per Saviano. È uno scrittore, mica un lettore! E si vede! Lasciamo da parte le sue invenzioni, già commentate a proposito della Politkovskaja. Il fatto è che quando si toccano con una certa ricorrenza argomenti delicati, come la violenza, si dovrebbero avere spalle larghe formatesi nelle biblioteche. Si dovrebbe aver letto qualche classico, partendo dai greci per poi arrivare ai giorni nostri.
Vabbè, direte, saltiamo i greci che è roba vecchia. Saltiamo anche Cicerone, che è tosto. Anche Machiavelli, che è sempre scivoloso. Marx, per carità, fuori moda. Lenin, peggio, un criminale avanzo di galera che per una serie di coincidenze irripetibili si è ritrovato a cambiare la storia del '900. Lasciamo perdere anche le direzioni strategiche delle BR, che è terrorismo. Ma un essere mite, uno studioso di chiara fama, un nome conosciuto in tutto il mondo e lodato ad ogni latitudine, quel Walter Benjamin di cui muove a compassione il solo sentir pronunciarne il nome (fateci caso come suona dolce: W-a-l-t-e-r B-e-n-j-a-m-i-n), questo grande intellettuale del secolo scorso non merita l'oblio di Saviano (ovvero, non lo meriterebbe se la fama di Saviano corrispondesse alla sostanza).
In "Angelus Novus", saggi e frammenti pubblicati da Einaudi, a cura di Renato Solmi e con un saggio di Fabrizio Desideri (mica Mario Moretti o Barbara Balzerani), il mite Walter ragiona sul "problema della legittimità di certi mezzi, che costituiscono la violenza" (p. 7). E prosegue:

«La distinzione ha luogo fra violenza storicamente riconosciuta (la violenza come potere) e la violenza non sanzionata. Le analisi seguenti muovono da questa distinzione, ciò naturalmente non significa che poteri dati vengano ordinati e valutati secondo che sono sanzionati o no. Poiché in una critica della violenza il criterio del diritto positivo non può trovare la sua semplice applicazione, ma deve piuttosto essere giudicato a sua volta».
Parole pesanti, no? Se il criterio stabilito dal diritto positivo per la legittimità della violenza può essere analizzato solo secondo il suo significato, continua, «la sfera della sua applicazione deve essere criticata secondo il suo valore». 

Per Benjamin, che ne aveva visto di persona l'applicazione «il  militarismo è l'obbligo dell'impegno universale della violenza come mezzo ai fini dello Stato». Urca! «ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto» Urca!!
E, infine: «È in generale possibile il regolamento non violento di conflitti? Senza dubbio. I rapporti fra persone private ne offrono esempi a iosa». Ma «la critica della violenza è la filosofia della sua storia. La filosofia di questa storia, in quanto solo l'idea del suo esito apre una prospettiva critica, separante e decisiva, sui suoi dati temporali. Uno sguardo rivolto al più vicino può permettere tutt'al più un'altalena dialettica tra le forme della violenza che pone e che conserva il diritto. La legge di queste oscillazioni si fonda sul fatto che ogni violenza conservatrice indebolisce, a lungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza creatrice che è rappresentata in essa».
Ecco, in breve sintesi, la complessità di un argomento che Saviano riduce constantemente alla dialettica scrittore-lettore. Facendo a sua volta violenza all'intelligenza di molti. Mi scuserà, Benjamin, se ho osato accostare due nomi così distanti. Anche questa è violenza, con mio grande rammarico.

Spending Rewiew

20 miliardi dopo tre anni di tagli lineari sui ministeri e blocco dei contratti nel pubblico impiego. Nel 2012 arriverà la "spending rewiew", prevista dalla legge di stabilità (la spending rewiew è un limite posto alla spesa pubblica per tenere sotto controllo il deficit). Questo è quanto ci ha regalato il governo della Trilateral di Monti. 20 miliardi per tre anni ogni anno, fanno 60 miliardi di euro, che sommati agli interventi del governo Berlusconi di luglio e agosto arrivano a 76 miliardi. La manovra poggia per due terzi sulle entrate mentre per le spese, come noto, si sono toccate le pensioni. Con il nuovo sistema "contributivo" si arriverà in pensione a 66-67 anni, uomini e donne. Ora ci attende una fase "due", che riguarderà sanità e lavoro. Sulla sanità non sappiamo nulla; si dovrà tagliare ulteriormente, ma non possiamo dire dove e come. Sul lavoro, invece, qualche idea è presente: articolo 18 e mobilità del pubblico impiego. Quello che, tanto per capirci, non era riuscito a fare e non avrebbe mai fatto Berlusconi. Quelli stonati di "odradek" ancora gridano con scandalo contro quelli che: "a ridatece er puzzone": ne abbiamo già parlato e lasciamoli gridare al vento. E' il sistema che sta crollando. Le banche italiane hanno la necessità di ricapitalizzare per 15,3 miliardi di euro - quasi una manovra Monti di un anno. Le greche per 30 miliardi. Le spagnole per 26. Le tedesche, che stanno meglio, per 13,1 miliardi. Ieri il governatore della Banca d'Inghilterra, Mervyn King, ha detto che la situazione del sistema finanziario in Europa è da "allarme rosso". Le condizioni, ha osservato, sono peggiorate rispetto agli ultimi tre mesi, in quanto si sarebbero intensificati i legami negativi tra il debito sovrano (i titoli di stato) e l'incertezza sulla solidità del sistema finanziario, ossia la capacità di pagare.
Per noi, c'è da capire se la manovra Monti darà sviluppo, altrimenti tutto sarà inutile. Alcuni osservatori dicono di sì, altri di no. Per alcuni, in mancanza di uno sviluppo convincente, l'Italia sarà comunque legata all'andamento dei tassi e un loro aumento la metterebbe di nuovo con le spalle al muro. Cosa propongono? Evanescenze: creazione di un fondo chiuso in cui convogliare il patrimonio dello Stato alla dismissione diretta degli asset pubblici, una patrimoniale "robusta" e "che pesi sugli evasori"!, e "forme ingegnose di cartolarizzazione del debito pubblico". Paranoie. O, se si vuole, parole senza contenuto. Le famose cinque "W" mancano. Par altri, lo sviluppo si intravede. Potenziamento del fondo di garanzie per le piccole e medie imprese. l'Introduzione dell'ACE significa un forte incentivo fiscale alla patrimonializzazione delle imprese che serve a rafforzarne la struttura finanziaria. Riequilibrio del carico fiscale, spostandolo da chi produce ricchezza ai patrimoni e ai consumi. Già, i consumi. Già, i patrimoni. Quelli con più di 5000 euro per anno sul conto corrente saranno tassati, gli altri no. Praticamente tutti. Già, la "struttura finanziaria". Perché, mi chiedo, un'azienda grande come la TREVI, che opera in tutto il mondo, ha 5000 impiegati e continua ad assumere, ha visto precipitare le proprie azioni da 13 euro a 5 negli ultimi mesi? Doc'è la proporzione tra il lavoro effettivamente svolto e il suo contrappeso finanziario? Se è la bassa crescita il problema chiave dell'Italia, perché un'azienda in espansione perde in borsa, con tutte le conseguenze negative a livello di finanziamenti bancari ecc.?
Chi decide la politica produttiva di questo paese e quella finanziaria? i mercati, il mercato, uomini di potere che operano tra FMI e TRILATERAL, mostri dalle grandi teste, sempre pronti, che guadagnano nelle crisi e nei momenti di espansione? Ma poi, perché devo identificare il capitale con la vecchia europa? La Cina cresce perché produce merci. E le produrrà sempre meglio e sempre a mercato migliore dei paesi europei. Se qualità e innovazione non sostituiranno le parole sviluppo e finanza, saremo destinati a un lento ma inevitabile tramonto. Un più che meritato riposo, dopo duecento anni guerre e splendori.