sabato 5 novembre 2011

ANNA E LO SCRITTORE


Anna Politkovskaja e la verità

Anna Politkoskaja, la giornalista della "Novaja Gazeta"
uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006.
Di verità si può morire? Si può vivere nella verità? Un certo Pasolini, come ha scritto recentemente Battista sul “Corriere”, è da dimenticare? Le domande sono tutte collegate e cercare di rispondere apre un orizzonte vastissimo davanti a noi. Intanto partiamo da un punto imprescindibile: la verità esiste? Senza entrare nella storia della filosofia, diremo che esistono “le verità” e che “la verità” singola è qualcosa di diverso da quanto si possa ritenere a prima vista. Per “verità” intendo, per esempio, la “verità giudiziaria”, “la verità storica”, “la verità letteraria”. La prima è la risultante del confronto tra legislazione corrente, procedura penale (o civile) e prove ammesse durante il dibattimento. La seconda indica il grado di avvicinamento alla ricostruzione completa di un fatto grazie alla complessità delle fonti disponibili in un dato momento. Se lo storico ha lavorato bene e le fonti disponibili sono molte, il grado di vicinanza dal fatto sarà molto alto e le fonti che si verranno eventualmente ad aggiungere non sposteranno il centro della ricostruzione, ma ne preciseranno i dettagli. La verità letteraria, invece, non ha nulla a che vedere con “i fatti”, come ha invece equivocato Battista, che per questo attribuisce a Pasolini qualcosa che egli non voleva dire. La verità letteraria indica il grado di sincerità che un autore dimostra nei confronti del proprio testo (romanzo, poesia, racconto ecc.). Per verità in letteratura si intendono la predisposizione e la capacità di un autore a non mentire al proprio lettore, a non usare trucchi o sotterfugi letterari, a non scrivere in modo manieristico, ma a trattare la materia attraverso la propria indole e la propria anima, senza condizionamenti esterni o “tributi” da pagare. Indica proprio l’opposto di quello che intende Battista, ossia il limite imprescindibile con il quale si scontra ad ogni suo passo la letteratura. Quando Pasolini scrisse la frase che il vicedirettore del “Corriere” vorrebbe mettere all’indice e per la quale definisce lo scrittore ucciso ad Ostia addirittura un “cattivo maestro”, egli lanciava in realtà un grido di dolore, conscio proprio del limite che ha la letteratura nella “ricerca della verità”, che ovviamente non c’entra nulla con il verismo. Ecco la frase: “Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
 Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere”. Ebbene, proprio per questo, a causa del suo mestiere, Pasolini – che pure capiva e sapeva – non poteva andare oltre, non poteva fare i nomi. Il suo era un grido di disperazione per il limite intrinseco alla letteratura, dove la verità consiste nel “come” si fa questo mestiere. In ciò, Pasolini diceva il vero, ma nello stesso momento doveva fermarsi e non andare oltre. Si pensa ancora questo, oggi in Italia, rispetto alla letteratura? Negli ultimi tempi sembra essersi fatta strada una nuova concezione della verità in letteratura, che è forse quella che ha portato fuori strada Battista e deriva da una confusione dei concetti di verità, realtà e veridicità. Il suo rappresentante maggiore è senza ombra di dubbio Saviano, che per fortuna non è mai stato minacciato di morte dalla Camorra, stando a quanto ha motivato il 20 giugno il gip Antonello Ardituro, archiviando il procedimento aperto, a suo dire, per eccesso di zelo di un investigatore. Gomorra sicuramente non è un romanzo; ma non è neanche un saggio. Non vale la verità in letteratura, ma neanche quella storica. Lo si potrebbe definire “saggio-fiction” dove i fatti vengono raccontati per sentito dire o per averli visti di persona. Si ha l’impressione, leggendo Gomorra, che lo scrittore abbia frequentato gli ambienti che descrive: era lì, osservava. Lo conoscevano, lo lasciavano osservare. Poi, ha scritto il libro. Perché ci si dovrebbe fidare, se non su conosce il come è stato scritto il libro e dunque il grado di sincerità dello scrittore? Perché il libro è veritiero? Dovrei far coincidere veridicità e verità? Perché? Se cerco una verità storica esistono dei saggi sulla Camorra. Poi le sentenze dei tribunali. “Gomorra” non aggiunge nulla di nuovo a quello che già conoscevamo. Da quando è uscito questo libro Saviano ha spesso ripetuto che lo si voleva uccidere non per lo scrittore in sé, ma per il libro, perché la camorra avrebbe avuto paura della pubblicità. Il lettore, ha affermato, leggendo prende coscienza e se tutti avessero coscienza la camorra non potrebbe più continuare a fare le sue operazione nel silenzio. Nel silenzio di chi? Della gente, pare di capire. Finalmente il discorso appare un po’ più chiaro. Saviano vorrebbe che la gente “vivesse nella verità”. Ma cosa significa questo? Non di certo “conoscere la camorra”. Chi vive in determinate zone del paese la conosce benissimo e non ha bisogno di libri per questo. Vivere nella verità vorrebbe dire, invece, non mentire più a se stessi, smettere di comportarsi come se quel problema non esistesse, mettere in gioco ciò che si ha (la vita, un’attività imprenditoriale, la famiglia), per un futuro incerto, forse tragico, comunque non premiale. Si tratta sempre di una scommessa in perdita, e non di un do ut des. È un atto di dignità che ha in sé qualcosa di eroico. Vuole dire finalmente vivere quello che si ritiene la realtà e non la sua parodia, o rappresentazione. Significa uscire dalla caverna che ti proteggeva per andare incontro all’indefinito, e non ha nulla a che vedere con la letteratura. In questo senso, e solo in questo, di verità si può morire.
Anna Politkovskaja è stata uccisa il 7 ottobre del 2006, giorno del compleanno dell’allora presidente russo, Vladimir Putin. Per il suo omicidio sono stati arrestati tre ceceni, poi assolti alla fine di un processo durato circa un anno. Da molti osservatori l’assoluzione è stata interpretata come una prova ulteriore del coinvolgimento del Cremlino e del taroccamento generale del sistema russo. In realtà nulla di tutto questo è accaduto. Se si leggessero gli atti del processo, i comportamenti degli avvocati, anche di parte civile, la posizione dell’accusa e le dichiarazioni degli imputati ci si renderebbe conto che quei tre ceceni non potevano essere condannati e che il loro proscioglimento, in realtà, è un segnale del fatto che la magistratura in Russia non sempre segue i desiderata della politica. Recentemente, per esempio, Memorial di San Pietroburgo ha vinto una causa contro la Procura della città (chi scrive era presente all’ultima udienza), e il giudice ha costretto la polizia a restituire all’importante Ong gli 11 dischi fissi che erano stati sequestrati in dicembre durante una perquisizione nella sua sede. Quando presunti esperti parlano di Russia, la fantasia, la cattiva informazione o il sentito dire sono elementi che accompagnano più di un reportage. Ho tra le mani l’introduzione alla seconda edizione del libro Cecenia. Il disonore russo della Politkovskaja, edito da Fandango. È uno scritto interessante, per diversi motivi. In esso, infatti, Saviano dimostra di avere elementi e informazioni ai più (anzi, ai tutti) sconosciuti. Parla, per esempio, di una donna che avrebbe affiancato l’assassino della Politkovskaja lì sul pianerettolo della giornalista, ma questa figura non risulta da nessuna ricostruzione precedente. E parla anche di una serie di movimenti della vittima nel proprio androne, anche questi mai testimoniati prima, neanche dalle telecamere che durante quella giornata registrarono la figura dell’assassino con il volto nascosto da un berretto. Anna, poi, sarebbe stata odiata addirittura da centinaia di cronisti russi “perché il marito aveva fatto carriera già durante la perestrojka, diventando la voce della critica, sì, ma di una televisione dell’Urss”. Fandonie, parole in libertà. Nulla di ciò che leggiamo in seguito, corrisponde a quanto accaduto alla Politkovskaja, né per quanto riguarda il suo coinvolgimento all’assalto del Teatro “Na Dubrovke”, di Mosca, avvenuto nel 2002 (furono i ceceni a chiedere la sua mediazione, non lei a “offrirsi”), né per il suo presunto avvelenamento del 2004, quando cercava di raggiungere Beslan, dove un’intera scuola si trovava nelle mani di circa 30 guerriglieri. Nonostante le gravi imprecisioni, l’introduzione è comunque interessante, intanto perché cerca di collocare la Politkovskaja all’interno di una tradizione, quella del dissenso sovietico, e poi perché il centro della stessa è costituito dal rapporto tra scrittura e verità, tanto caro a Saviano. Infarcito di citazioni, da Primo Levi a Philip Roth, con Truman Capote (l’autore di Colazione da Tiffany) lo scritto giunge al punto centrale, che è quello che ci interessa: “Il romanzo e la verità sono divisi da un’isola che si restringe via via sempre di più, ma stanno per incontrarsi. I due fiumi scorreranno insieme, una volta per tutte”. Non è che si capisca molto. Forse vuole dire che il romanzo e la verità possono coincidere? Ne ho già parlato nella prima parte di questo scritto. E ho spiegato in che modo ciò sia possa essere accettato. Saviano, invece, lo interpreta altrimenti; per lui il rischio per gli scrittori non è di aver scoperto una verità, “ma di averla detta. Di averla detta bene. Questo rende lo scrittore pericoloso, temuto”. Ma, mi chiedo, un giornalista no? Un poliziotto no? Un professore universitario no? Un tassista no? Un macellaio no? Entriamo nel surrealismo quando Saviano afferma che i sovietici temevano di più il Dottor Zhivago di Pasternak o gli onnipresenti nei suoi discorsi Racconti di Kolyma di Varlaam Shalamov che “gli investimenti del controspionaggio della Cia” (e non commento per carità di patria l’espressione), ma, mi chiedo e chiedo a chi sta leggendo, dove starebbe l’originalità della letteratura, la sua unicità rispetto al resto si riduce alla diffusione di una verità attraverso la parola? E infatti, in questo senso, la letteratura non è per niente unica. L’esempio classico di cosa significhi vivere nella verità fatto dall’ex presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Havel, drammaturgo dissidente negli anni Settanta e Ottanta, riguarda un ortolano, non uno scrittore. L’ortolano un giorno decide di non esporre più, accanto alla frutta, un cartello caro al regime con su scritto, per esempio, Proletari di tutto il mondo unitevi. Perché sa che si tratta di un inganno, e che quel regime non è formato da proletari, ma tenuto in piedi da una nuova classe di privilegiati, che sul proletariato regna. Dopo una settimana arriva una guardia e gli chiede di rimettere il cartello, ma lui rifiuta. Passa un mese, e lo chiamano in questura, ma lui non si presenta. Passa un altro mese, e gli fanno visita i servizi. Lo minacciano, ma con garbo, gli fanno capire che è meglio se rimette fuori, magari seminascosto, quel cartello, ma lui niente. Poi, una mattina, il negozio rimarrà chiuso e dell’ortolano non si saprà più nulla. Il suo vivere nella verità ha avuto la conseguenza che in molti si aspettavano. Tutti i suoi clienti hanno compreso quello che è accaduto, tutti hanno recepito il messaggio. Ora sarà, forse, il turno di un altro, o di un’altra, magari in ufficio, magari nella scuola dove insegna. Perché vivere nella verità è un modo di essere al mondo, una presa di coscienza, che a volte è indicata da una parola in più o in meno. E non sempre, per questo, serve uno scrittore.

Condannati al silenzio


Claudio Magris
Un’intera generazione italiana, quella che ha fatto la lotta armata negli anni Settanta e Ottanta del ‘900, scontate quasi tutte le pene dopo i secoli di carcere con i quali lo Stato l’ha punita, deve tacere. Questo, se non ho capito male, è il centro del discorso che sviluppa Claudio Magris sulle pagine del “Corriere della Sera” del 31 luglio. Lo studioso ammette che il brigatista possa recuperare i pieni diritti civili e politici (anche se nessuno dei condannati per fatti di lotta armata che in sentenza si sia visto infliggere pene accessorie perpetue viene reintegrato automaticamente nei suoi diritti. Per fare ciò occorre attivare la procedura di “riabilitazione”), che possa anche esprimersi sulle piattole, qualora nel frattempo il carcere gli avesse fornito l’istruzione adeguata, ma non una parola sul suo passato di combattente. Certo, di fronte ad espressioni come quelle riportate nell’articolo e attribuite a Sergio Segio, giustamente definite “pappa del cuore, vecchio vizio retorico italiano, posta sentimentale rosa vicina al rosso sangue versato”, consiglierei anche io al suo autore di tacere, ma non si vede perché tale raccomandazione debba essere estesa a tutti gli altri. In “letteratura”, come nel processo penale, la responsabilità è personale. E così, il brigatista è un brigatista, e non un SS, non un mafioso, non uno stragista impunito. A ognuno il suo, per cominciare. E di brigatisti e brigatismo, si deve allora parlare, visto l’elenco di alcune delle vittime che fa Magris (non tutte peraltro colpite dalle Brigare rosse) considerate “le figure dell’Italia migliore, quella più libera e aperta e democratica, che avrebbe potuto e dovuto essere diversa da quella di oggi”. Come se il motivo per cui oggi siamo qui è perché in Italia c’è stata la lotta armata. O perché quelli che l’hanno fatta hanno perso, si potrebbe dire provocatoriamente, ma con la stessa efficacia? Intanto mi sembra uno strano recupero dei diritti quello di chi, riabilitato, può andare a votare per il parlamento italiano, ma non deve dire una parola sugli anni in cui fu protagonista. Da sempre i reduci hanno raccontato della propria guerra. Ma c’è dell’altro. I brigatisti, primi e unici nella storia di questo paese, scelsero di rivendicare i propri delitti e di assumersi tutti la medesima responsabilità di fronte alla legge, indipendentemente dal ruolo concreto avuto in una determinata azione. Al punto che molti sono stati condannati all’ergastolo per il sequestro Moro senza essere stati in via Fani, né in via Montalcini, né in via Caetani. Se avessero deciso di difendersi singolarmente, senza dichiararsi rei, la storia giudiziaria delle Br sarebbe andata molto diversamente e le condanne si sarebbero contate con numeri più piccoli. Che dire, poi, delle continue riforme del codice penale per adeguare la legge alla nuova situazione creata in Italia dalla presenza di questo gruppo armato? Tutto ciò induce a pensare che si trattò di una storia politica. Nessuno degli uccisori di allora lo fece per questioni personali; nessuno aveva un “conto aperto” da chiudere. Come ipotizza Magris, “pensava di costruire un’Italia migliore”. E le vittime, mi si dirà? E i parenti delle vittime? Perché è questo, in fondo, il contesto all’interno del quale si chiede, ovvero si impone ai brigatisti di tacere. Il punto è di fondamentale importanza, ma prima di arrivarci mi preme mettere in luce ancora un aspetto. A quali brigatisti ci si riferisce, quando si chiede loro di tacere? Ai pentiti, ai dissociati o ai cosiddetti “irriducibili”? Le confessioni dei pentiti e quelle dei dissociati (ché quando parlano con il magistrato, invece, va bene) sono state qualitativamente differenti: i pentiti hanno offerto parole utili alle tesi dell’accusa in sede processuale, oltre che permesso in casi clamorosi l’arresto di decine di militanti. I dissociati hanno fornito ricostruzioni politiche della propria esperienza militante in linea con i desiderata dello Stato. Lo hanno fatto molti anni dopo il loro arresto, contribuendo alla sconfitta politica della lotta armata, non a quella militare. A quanto risulta a chi scrive, i pochi ex-militanti della lotta armata che hanno partecipato in modo attivo alla memorialistica appartengono in maggioranza alla schiera dei cosiddetti pentiti o dissociati. Per quanto concerne, invece, gli irriducibili, essi per lo più tacciono (e spesso i commentatori li accusano proprio per questo!) e anche quando parlano, come nel caso di Mario Moretti con un libro sulle Br per nulla apologetico, si sottolinea quello che non sarebbe stato ancora detto, perché è una verità predeterminata, quella che si vorrebbe ascoltare, non il pensiero di Moretti.

SISSCO - Considerazioni di Fine Mandato

Andrea Graziosi
La società privata Sissco, associazione italiana degli storici contemporanei, un'associazione accademica autoreferenziale, ha svolto la propria riunione annuale il settembre scorso. In quell'occasione il presidente uscente, Andrea Graziosi, autore di un piccolo ma velenoso libro sulla nostra università, ha ringraziato i soci per il sostegno ricevuto e a difeso i suoi colleghi dalla leggenda nera del barone universitario, che la stampa racconta. Egli afferma che "ogni promozione non meritata ad un esame di storia, ogni laurea nelle nostre discipline con un voto ingiustamente alto, ogni dottorato di ricerca mediocre, è un colpo alla nostra reputazione". Se l'allarme è alto, vuole forse dire che tali cose accadono? Il mediocre, prosegue, difficilmente troverà posto, mentre a quello bravo è stata negata la carriera. Accade anche questo di frequenza? Sarà anche vitale, continua nel suo intervento di ringraziamento, concepire il passaggio a ordinario come "un premio di fine carriera". Avviene anche questo, allora? Ma perché? Perché moralmente deplorevole? No. Perché il passato delle vacche grasse è finito, un passato "più comodo e più ricco", dove c'era posto per tutti! Il cosmopolita Graziosi (parole sue) si è ritrovato a scoprire come presidente che "la ricostruzione di una comunità nazionale con standard elevati, riconosciuti e almeno in parte rispettati, era una priorità assoluta". Ma è proprio la SISSCO quell'abbozzo di nuova comunità nazionale degli storici, cosa ottenuta grazie all'impegno dei suoi soci.
Importante è stata anche la rivista, che riprende il nome da un lavoro di Bloch, Mestiere di Storico, una sorta di raccolta di recensioni dove i contemporaneisti se le danno di santa ragione e dove si sbrigano conti rimasti in sospeso. Ma le cose non vanno bene, prosegue Graziosi (meno male). Come dibattito storiografico loro stanno fermi agli anni Cinquanta. Basta parlare delle guerre passate; si dovrebbe passare a Deng, Craxi, Berlusconi e Reagan, sebbene gli archivi siano chiusi!
Per poi, caro Graziosi, sentirsi dire ai concorsi, che un tema di trenta anni or sono è troppo giovane per essere trattato? E a proposito dei concorsi, che in questi anni sono stati nella stragrande maggioranza localistici, Graziosi termina chiedendo ai soci di far sì che "principi non localistici di valutazione, anche se magari non ancora specificati nei dettagli, siano inseriti nei nuovi Statuti in corso di elaborazione" nelle università. Perché? Perché geni della storia contemporanea che non vincevano mai fuori casa, a volte a distanza di una settimana diventavano dei grandissimi storici per le commissioni tra le mura amiche della propria università. Personaggi impegnati nello studio della violenza politica, presidi di facoltà di Scienze Politiche siciliane, che per fortuna non esisteranno più, amici di amici dell'Orientale di Napoli, pseudostorici dell'Europa Orientale, parenti stretti di Benedetto Croce, di cui si vantano e di cui sono eredi degni, mezze calze della storiografia contemporanea che in trent'anni di servizio hanno prodotto due monografie a proprie spese!, hanno promosso personaggi che non faranno un passo in avanti nell'Accademia senza il supporto quotidiano dell'Accademia stessa. La storiografia li starà a guardare. E lo stesso censore è stato presidente di Concorso con un solo candidato dove i titoli presentati non si discostavano da quelli presentati per il ruolo precedente. Candidato locale, ovviamente.
Parole in libertà, dunque, da parte del presidente di una società privata che si arroga il diritto di rappresentare gli storici contemporanei. Contenti loro, siamo felici per loro anche noi, che ci teniamo ben alla larga da tale accozzaglia di nomi e figure professionali.
Per finire in gloria, dopo un uomo di sinistra, ecco passare il testimone a un centrista democristiano come lo storico Agostino Giovagnoli. Siamo in Italia, la logica è sempre la stessa. Non chiamiamola lottizzazione, vocabolo fuori modo e qui neanche appropriato; è semplice cortesia.


www.sissco.it/file/user_upload/Attività/comunicati/Graziosi_relazione_fine_mandato.pdf























Scintilla Rossa Forum di Fascisti

Kim il Sung, tra i leader più citati nel forum
[A distanza di quasi due anni continuano a leggere questo post?!] Purtroppo sì.

Si tratta di un forum di fascisti;  sono gli stessi che animano il forum chiamato Russia Community. Ieri, 16 gennaio 2012, è stato bannato un certo Gorkij, dopo aver annunciato un'iniziativa antifascista. E' amministrato da una serie di persone che credono di essere  la reincarnazione del marxismo leninismo e gli unici conservatori in Italia di quella tradizione politica. Entrando nel forum da visitatore si ha la possibilità di girarlo in modo completo. C'è una parte segreta, ma di questa si può fare a meno. Quella aperta al pubblico è in alcuni casi  interessante, in quanto suddivisa in sezioni di discussioni. Alcune presentano riflessioni  su casi storici (la figura di Gramsci, per esempio, Che Guevara), oppure forniscono link su argomenti inerenti il comunismo e l'Europa Orientale.
Altre sezioni sono meno importanti, come quelle riguardanti gli sport, sebbene un'idea del pubblico che frequenta il forum si può ricavare anche da queste.
I difetti, però, sono di gran lunga più forti delle cose positive. Innanzitutto, il forum non sembra gestito da veri marxisti leninisti già a un primo sguardo. Per esempio, per quanto riguarda le repressioni degli anni Trenta si legge che sì, in fondo ogni rivoluzione porta con sé una serie di eccessi e che qualche innocente può lasciarci la pelle. Non si tratta di terminologia marxista. Bastava dire, usando termini leninisti, che con la costruzione del socialismo in un solo paese la lotta di classe si inasprisce.
Per quanto riguarda Trockij, lo si accusa di essere stato un internazionalista senza compromessi, dimenticando il Comintern, la formazione stessa dell'Unione Sovietica, che fu il frutto dell'internazionalismo, e la politica delle nazionalità operata da Stalin. Del quale, gli amministratori del Forum, poco o nulla conoscono. Negano i crimini del suo regime, negano finanche Katyn, portando esempi di storici appunto negazionisti. Parlano per slogan, neanche sempre puntuali, e quando si tratta di analizzare lo stalinismo, che fu tante cose insieme, si arroccano su citazioni che nulla dicono della politica centrista e della tattica estremamente flessibile messa in atto dal dittatore georgiano. Non sanno niente del Gulag e ignorano che Roginskij, che citano in alcuni articoli di riporto, è nato in un lager sovietico. Nulla conoscono dell'importanza sociale che ebbe in Russia il mito della Grande Guerra Patriottica, della politica internazionale dell'Urss, ma neanche delle opere complete di Stalin, pubblicate in sette volumi, da sempre, di cui invece formulano una sospetta e quanto mai assolutamente lontana dal vero presenza tra le cose non tradotte o nascoste ai più. Nessuno di loro conosce il russo e dunque non ha libero accesso alle fonti.
La teoria del complotto, infatti, non li lascia quando si parla di editoria e archivi. Ignari che l'editoria funziona in quanto commercio e che i libri si pubblicano se hanno, a dire degli editori, una prospettiva di vendita, pensano a una spectre del capitale libraio che tutto controlla e tutto decide. Parlano di Mondadori come si trattasse di una organizzazione segreta e dimenticano che è la casa editrice di Mario Moretti, se mai sanno chi sia costui.
Parlano a vanvera di archivi, senza averci mai messo piede e senza neanche sapere di quali archivi si tratti. Se tutto è falso, sorgono spontanee due domande (domande imbarazzanti, perché non servono a nulla, ma tant'è): perché l'accesso agli archivi russi è spesso limitato e perché adesso, grazie al caso degli storici di Archangel'sk (http://primadellapioggia.blogspot.com/2012/02/aggiornamenti-da-archangelsk-per-il.html), di cui nulla sanno, gli archivi dell'MVD stanno chiudendo l'accesso agli studiosi in tutta la Russia? E gli archivi del Comintern, come ha scritto uno di loro, chi li avrebbe manomessi? Nulla di diverso dalla dietrologia piddiessina o dalle invenzioni di Libero e il Giornale.
Inoltre, confondono destra e sinistra, senza accorgersi che la destra e la sinistra nel movimento marxista leninista non sono fuori ma dentro di esso e spesso parlano di libri senza averli letti. Le uniche cose sensate sono citazioni di pezzi trovati su internet, a volte molto interessanti, ma mai pensiero originale.
Per finire, qualche parola su nikname e avatar degli amministratori. Uno di loro si chiama 1973, ma in numeri romani. Ora, come simbologia i numeri romani sono propri del  fascismo. Sarebbe bello conoscere dallo stesso (non si tratta di una donna) il perché di questa scelta da un punto di vista m-l-s. Inoltre, è uno strenuo ammiratore di Robespierre (si veda il sito dei suoi amici http://www.robespierre.it/), che era un borghese e un massone, che si mise a capo di una rivoluzione borghese e che nulla aveva a che fare con il proletariato in quegli anni. Ad altri uomini della Rivoluzione Francese ci si dovrebbe riferire (Babeuf). Per Marx la prima rivoluzione proletaria fu la Comune di Parigi, ma non lo sanno.
Un altro amministratore ha come avatar un capo indiano e citazioni degli indiani d'America. Anche qui, ci troviamo di fronte alla cultura fascista. I figli di La Russa hanno nomi di capi indiani, e non è un caso. Da sempre, infatti, il sistema gerarchico della società degli indiani americani rappresenta un modello per i fascisti di ogni sorta. Il genocidio di cui sono stati oggetto da parte dei bianchi d'America costituisce un altro discorso. Qui si parla del loro modello di società e si tratta di un dato non confutabile che è stato preso come modello di riferimento nelle teorie neofasciste italiane.
Un terzo amministratore manifesta sconfinato amore nei confronti del Colonnello Geddhafi. Cosa c'entri il colonnello con il comunismo, o solo con il socialismo, resta un mistero. Amico di potenti come Putin e Berlusconi, uomo dei mille flirt con l'Occidente, golpista militare, in passato ha anche contrastato gli Stati Uniti. E dunque?
Una perla rara, poi, è la sezione dedicata al movimento degli skinhead. Che la sua origine sia stata sottoproletaria e progressiva e che ci siano gruppi di skin anarchici e di sinistra, non può comunque fare dimenticare che la testa rasata è divenuta simbolo in tutto il mondo di neonazismo, xenofobia e razzismo.




Aggiornamento del 27 aprile 2013. Dal sito del "Fatto Quotidiano", uno dei pochi giornali che ne ha parlato.


All’interno della sede della Comunità militante dei dodici raggi le telecamere non entrano. E’ stata ricavata un anno fa in un vecchio magazzino di Caidate, una frazione di Sumirago (Varese) e non le manca nulla. Il bar, l’angolo per la pratica delle arti marziali, i tavoli e persino una piccola biblioteca. E’ qui che si riuniscono i membri del Do.Ra.l’associazione vicina al movimento skinhead che sabato scorso ha organizzato il mega raduno che ha richiamato in provincia di Varese oltre quattrocento teste rasate da tutta Europa. Do.Ra oggi conta 170 frequentatori occasionali e una sessantina tra soci fondatori e soci attivi. Il presidente si chiama Alessandro Limido, 33 anni, orgogliosamente nazionalsocialista e una condanna in primo grado per associazione a delinquere finalizzata alla discriminazione razziale, etnica e religiosa. Lo abbiamo incontrato alla vigilia dell’anniversario della Liberazione. “Di solito non parliamo con i giornalisti e i poliziotti per evitare strumentalizzazioni, ma sull’evento del 20 aprile sono state dette molte cose false”.


Aggiornamento del 6 giugno 2013:


Parigi, ucciso da "skinhead" militante di sinistra

L'aggressione ieri pomeriggio in un mercatino privato. Il giovane aggredito dal gruppo di destra, sarebbe stato violentemente sbattuto al suolo. Dichiarata la morte cerebrale.





E comunque, un po' di libri sull'argomento http://primadellapioggia.blogspot.it/2013/09/bilbiotecamarconista.html