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Anna Politkoskaja, la giornalista della "Novaja Gazeta"
uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006. |
Di verità si può morire? Si può vivere nella verità? Un certo Pasolini, come ha scritto recentemente Battista sul “Corriere”, è da dimenticare? Le domande sono tutte collegate e cercare di rispondere apre un orizzonte vastissimo davanti a noi. Intanto partiamo da un punto imprescindibile: la verità esiste? Senza entrare nella storia della filosofia, diremo che esistono “le verità” e che “la verità” singola è qualcosa di diverso da quanto si possa ritenere a prima vista. Per “verità” intendo, per esempio, la “verità giudiziaria”, “la verità storica”, “la verità letteraria”. La prima è la risultante del confronto tra legislazione corrente, procedura penale (o civile) e prove ammesse durante il dibattimento. La seconda indica il grado di avvicinamento alla ricostruzione completa di un fatto grazie alla complessità delle fonti disponibili in un dato momento. Se lo storico ha lavorato bene e le fonti disponibili sono molte, il grado di vicinanza dal fatto sarà molto alto e le fonti che si verranno eventualmente ad aggiungere non sposteranno il centro della ricostruzione, ma ne preciseranno i dettagli. La verità letteraria, invece, non ha nulla a che vedere con “i fatti”, come ha invece equivocato Battista, che per questo attribuisce a Pasolini qualcosa che egli non voleva dire. La verità letteraria indica il grado di sincerità che un autore dimostra nei confronti del proprio testo (romanzo, poesia, racconto ecc.). Per verità in letteratura si intendono la predisposizione e la capacità di un autore a non mentire al proprio lettore, a non usare trucchi o sotterfugi letterari, a non scrivere in modo manieristico, ma a trattare la materia attraverso la propria indole e la propria anima, senza condizionamenti esterni o “tributi” da pagare. Indica proprio l’opposto di quello che intende Battista, ossia il limite imprescindibile con il quale si scontra ad ogni suo passo la letteratura. Quando Pasolini scrisse la frase che il vicedirettore del “Corriere” vorrebbe mettere all’indice e per la quale definisce lo scrittore ucciso ad Ostia addirittura un “cattivo maestro”, egli lanciava in realtà un grido di dolore, conscio proprio del limite che ha la letteratura nella “ricerca della verità”, che ovviamente non c’entra nulla con il verismo. Ecco la frase: “Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere”. Ebbene, proprio per questo, a causa del suo mestiere, Pasolini – che pure capiva e sapeva – non poteva andare oltre, non poteva fare i nomi. Il suo era un grido di disperazione per il limite intrinseco alla letteratura, dove la verità consiste nel “come” si fa questo mestiere. In ciò, Pasolini diceva il vero, ma nello stesso momento doveva fermarsi e non andare oltre. Si pensa ancora questo, oggi in Italia, rispetto alla letteratura? Negli ultimi tempi sembra essersi fatta strada una nuova concezione della verità in letteratura, che è forse quella che ha portato fuori strada Battista e deriva da una confusione dei concetti di verità, realtà e veridicità. Il suo rappresentante maggiore è senza ombra di dubbio Saviano, che per fortuna non è mai stato minacciato di morte dalla Camorra, stando a quanto ha motivato il 20 giugno il gip Antonello Ardituro, archiviando il procedimento aperto, a suo dire, per eccesso di zelo di un investigatore. Gomorra sicuramente non è un romanzo; ma non è neanche un saggio. Non vale la verità in letteratura, ma neanche quella storica. Lo si potrebbe definire “saggio-fiction” dove i fatti vengono raccontati per sentito dire o per averli visti di persona. Si ha l’impressione, leggendo Gomorra, che lo scrittore abbia frequentato gli ambienti che descrive: era lì, osservava. Lo conoscevano, lo lasciavano osservare. Poi, ha scritto il libro. Perché ci si dovrebbe fidare, se non su conosce il come è stato scritto il libro e dunque il grado di sincerità dello scrittore? Perché il libro è veritiero? Dovrei far coincidere veridicità e verità? Perché? Se cerco una verità storica esistono dei saggi sulla Camorra. Poi le sentenze dei tribunali. “Gomorra” non aggiunge nulla di nuovo a quello che già conoscevamo. Da quando è uscito questo libro Saviano ha spesso ripetuto che lo si voleva uccidere non per lo scrittore in sé, ma per il libro, perché la camorra avrebbe avuto paura della pubblicità. Il lettore, ha affermato, leggendo prende coscienza e se tutti avessero coscienza la camorra non potrebbe più continuare a fare le sue operazione nel silenzio. Nel silenzio di chi? Della gente, pare di capire. Finalmente il discorso appare un po’ più chiaro. Saviano vorrebbe che la gente “vivesse nella verità”. Ma cosa significa questo? Non di certo “conoscere la camorra”. Chi vive in determinate zone del paese la conosce benissimo e non ha bisogno di libri per questo. Vivere nella verità vorrebbe dire, invece, non mentire più a se stessi, smettere di comportarsi come se quel problema non esistesse, mettere in gioco ciò che si ha (la vita, un’attività imprenditoriale, la famiglia), per un futuro incerto, forse tragico, comunque non premiale. Si tratta sempre di una scommessa in perdita, e non di un do ut des. È un atto di dignità che ha in sé qualcosa di eroico. Vuole dire finalmente vivere quello che si ritiene la realtà e non la sua parodia, o rappresentazione. Significa uscire dalla caverna che ti proteggeva per andare incontro all’indefinito, e non ha nulla a che vedere con la letteratura. In questo senso, e solo in questo, di verità si può morire.
Anna Politkovskaja è stata uccisa il 7 ottobre del 2006, giorno del compleanno dell’allora presidente russo, Vladimir Putin. Per il suo omicidio sono stati arrestati tre ceceni, poi assolti alla fine di un processo durato circa un anno. Da molti osservatori l’assoluzione è stata interpretata come una prova ulteriore del coinvolgimento del Cremlino e del taroccamento generale del sistema russo. In realtà nulla di tutto questo è accaduto. Se si leggessero gli atti del processo, i comportamenti degli avvocati, anche di parte civile, la posizione dell’accusa e le dichiarazioni degli imputati ci si renderebbe conto che quei tre ceceni non potevano essere condannati e che il loro proscioglimento, in realtà, è un segnale del fatto che la magistratura in Russia non sempre segue i desiderata della politica. Recentemente, per esempio, Memorial di San Pietroburgo ha vinto una causa contro la Procura della città (chi scrive era presente all’ultima udienza), e il giudice ha costretto la polizia a restituire all’importante Ong gli 11 dischi fissi che erano stati sequestrati in dicembre durante una perquisizione nella sua sede. Quando presunti esperti parlano di Russia, la fantasia, la cattiva informazione o il sentito dire sono elementi che accompagnano più di un reportage. Ho tra le mani l’introduzione alla seconda edizione del libro Cecenia. Il disonore russo della Politkovskaja, edito da Fandango. È uno scritto interessante, per diversi motivi. In esso, infatti, Saviano dimostra di avere elementi e informazioni ai più (anzi, ai tutti) sconosciuti. Parla, per esempio, di una donna che avrebbe affiancato l’assassino della Politkovskaja lì sul pianerettolo della giornalista, ma questa figura non risulta da nessuna ricostruzione precedente. E parla anche di una serie di movimenti della vittima nel proprio androne, anche questi mai testimoniati prima, neanche dalle telecamere che durante quella giornata registrarono la figura dell’assassino con il volto nascosto da un berretto. Anna, poi, sarebbe stata odiata addirittura da centinaia di cronisti russi “perché il marito aveva fatto carriera già durante la perestrojka, diventando la voce della critica, sì, ma di una televisione dell’Urss”. Fandonie, parole in libertà. Nulla di ciò che leggiamo in seguito, corrisponde a quanto accaduto alla Politkovskaja, né per quanto riguarda il suo coinvolgimento all’assalto del Teatro “Na Dubrovke”, di Mosca, avvenuto nel 2002 (furono i ceceni a chiedere la sua mediazione, non lei a “offrirsi”), né per il suo presunto avvelenamento del 2004, quando cercava di raggiungere Beslan, dove un’intera scuola si trovava nelle mani di circa 30 guerriglieri. Nonostante le gravi imprecisioni, l’introduzione è comunque interessante, intanto perché cerca di collocare la Politkovskaja all’interno di una tradizione, quella del dissenso sovietico, e poi perché il centro della stessa è costituito dal rapporto tra scrittura e verità, tanto caro a Saviano. Infarcito di citazioni, da Primo Levi a Philip Roth, con Truman Capote (l’autore di Colazione da Tiffany) lo scritto giunge al punto centrale, che è quello che ci interessa: “Il romanzo e la verità sono divisi da un’isola che si restringe via via sempre di più, ma stanno per incontrarsi. I due fiumi scorreranno insieme, una volta per tutte”. Non è che si capisca molto. Forse vuole dire che il romanzo e la verità possono coincidere? Ne ho già parlato nella prima parte di questo scritto. E ho spiegato in che modo ciò sia possa essere accettato. Saviano, invece, lo interpreta altrimenti; per lui il rischio per gli scrittori non è di aver scoperto una verità, “ma di averla detta. Di averla detta bene. Questo rende lo scrittore pericoloso, temuto”. Ma, mi chiedo, un giornalista no? Un poliziotto no? Un professore universitario no? Un tassista no? Un macellaio no? Entriamo nel surrealismo quando Saviano afferma che i sovietici temevano di più il Dottor Zhivago di Pasternak o gli onnipresenti nei suoi discorsi Racconti di Kolyma di Varlaam Shalamov che “gli investimenti del controspionaggio della Cia” (e non commento per carità di patria l’espressione), ma, mi chiedo e chiedo a chi sta leggendo, dove starebbe l’originalità della letteratura, la sua unicità rispetto al resto si riduce alla diffusione di una verità attraverso la parola? E infatti, in questo senso, la letteratura non è per niente unica. L’esempio classico di cosa significhi vivere nella verità fatto dall’ex presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Havel, drammaturgo dissidente negli anni Settanta e Ottanta, riguarda un ortolano, non uno scrittore. L’ortolano un giorno decide di non esporre più, accanto alla frutta, un cartello caro al regime con su scritto, per esempio, Proletari di tutto il mondo unitevi. Perché sa che si tratta di un inganno, e che quel regime non è formato da proletari, ma tenuto in piedi da una nuova classe di privilegiati, che sul proletariato regna. Dopo una settimana arriva una guardia e gli chiede di rimettere il cartello, ma lui rifiuta. Passa un mese, e lo chiamano in questura, ma lui non si presenta. Passa un altro mese, e gli fanno visita i servizi. Lo minacciano, ma con garbo, gli fanno capire che è meglio se rimette fuori, magari seminascosto, quel cartello, ma lui niente. Poi, una mattina, il negozio rimarrà chiuso e dell’ortolano non si saprà più nulla. Il suo vivere nella verità ha avuto la conseguenza che in molti si aspettavano. Tutti i suoi clienti hanno compreso quello che è accaduto, tutti hanno recepito il messaggio. Ora sarà, forse, il turno di un altro, o di un’altra, magari in ufficio, magari nella scuola dove insegna. Perché vivere nella verità è un modo di essere al mondo, una presa di coscienza, che a volte è indicata da una parola in più o in meno. E non sempre, per questo, serve uno scrittore.