Claudio Magris |
Un’intera generazione italiana, quella che ha fatto la lotta armata negli anni Settanta e Ottanta del ‘900, scontate quasi tutte le pene dopo i secoli di carcere con i quali lo Stato l’ha punita, deve tacere. Questo, se non ho capito male, è il centro del discorso che sviluppa Claudio Magris sulle pagine del “Corriere della Sera” del 31 luglio. Lo studioso ammette che il brigatista possa recuperare i pieni diritti civili e politici (anche se nessuno dei condannati per fatti di lotta armata che in sentenza si sia visto infliggere pene accessorie perpetue viene reintegrato automaticamente nei suoi diritti. Per fare ciò occorre attivare la procedura di “riabilitazione”), che possa anche esprimersi sulle piattole, qualora nel frattempo il carcere gli avesse fornito l’istruzione adeguata, ma non una parola sul suo passato di combattente. Certo, di fronte ad espressioni come quelle riportate nell’articolo e attribuite a Sergio Segio, giustamente definite “pappa del cuore, vecchio vizio retorico italiano, posta sentimentale rosa vicina al rosso sangue versato”, consiglierei anche io al suo autore di tacere, ma non si vede perché tale raccomandazione debba essere estesa a tutti gli altri. In “letteratura”, come nel processo penale, la responsabilità è personale. E così, il brigatista è un brigatista, e non un SS, non un mafioso, non uno stragista impunito. A ognuno il suo, per cominciare. E di brigatisti e brigatismo, si deve allora parlare, visto l’elenco di alcune delle vittime che fa Magris (non tutte peraltro colpite dalle Brigare rosse) considerate “le figure dell’Italia migliore, quella più libera e aperta e democratica, che avrebbe potuto e dovuto essere diversa da quella di oggi”. Come se il motivo per cui oggi siamo qui è perché in Italia c’è stata la lotta armata. O perché quelli che l’hanno fatta hanno perso, si potrebbe dire provocatoriamente, ma con la stessa efficacia? Intanto mi sembra uno strano recupero dei diritti quello di chi, riabilitato, può andare a votare per il parlamento italiano, ma non deve dire una parola sugli anni in cui fu protagonista. Da sempre i reduci hanno raccontato della propria guerra. Ma c’è dell’altro. I brigatisti, primi e unici nella storia di questo paese, scelsero di rivendicare i propri delitti e di assumersi tutti la medesima responsabilità di fronte alla legge, indipendentemente dal ruolo concreto avuto in una determinata azione. Al punto che molti sono stati condannati all’ergastolo per il sequestro Moro senza essere stati in via Fani, né in via Montalcini, né in via Caetani. Se avessero deciso di difendersi singolarmente, senza dichiararsi rei, la storia giudiziaria delle Br sarebbe andata molto diversamente e le condanne si sarebbero contate con numeri più piccoli. Che dire, poi, delle continue riforme del codice penale per adeguare la legge alla nuova situazione creata in Italia dalla presenza di questo gruppo armato? Tutto ciò induce a pensare che si trattò di una storia politica. Nessuno degli uccisori di allora lo fece per questioni personali; nessuno aveva un “conto aperto” da chiudere. Come ipotizza Magris, “pensava di costruire un’Italia migliore”. E le vittime, mi si dirà? E i parenti delle vittime? Perché è questo, in fondo, il contesto all’interno del quale si chiede, ovvero si impone ai brigatisti di tacere. Il punto è di fondamentale importanza, ma prima di arrivarci mi preme mettere in luce ancora un aspetto. A quali brigatisti ci si riferisce, quando si chiede loro di tacere? Ai pentiti, ai dissociati o ai cosiddetti “irriducibili”? Le confessioni dei pentiti e quelle dei dissociati (ché quando parlano con il magistrato, invece, va bene) sono state qualitativamente differenti: i pentiti hanno offerto parole utili alle tesi dell’accusa in sede processuale, oltre che permesso in casi clamorosi l’arresto di decine di militanti. I dissociati hanno fornito ricostruzioni politiche della propria esperienza militante in linea con i desiderata dello Stato. Lo hanno fatto molti anni dopo il loro arresto, contribuendo alla sconfitta politica della lotta armata, non a quella militare. A quanto risulta a chi scrive, i pochi ex-militanti della lotta armata che hanno partecipato in modo attivo alla memorialistica appartengono in maggioranza alla schiera dei cosiddetti pentiti o dissociati. Per quanto concerne, invece, gli irriducibili, essi per lo più tacciono (e spesso i commentatori li accusano proprio per questo!) e anche quando parlano, come nel caso di Mario Moretti con un libro sulle Br per nulla apologetico, si sottolinea quello che non sarebbe stato ancora detto, perché è una verità predeterminata, quella che si vorrebbe ascoltare, non il pensiero di Moretti.
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