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venerdì 13 dicembre 2013
lunedì 9 dicembre 2013
CIAO CARLO
Apprendo con ritardo e grazie a Sandro Paddi.
Era da tempo malato, di una di quelle malattie che non danno scampo, Carlo Picchiura, morto ieri, come hanno subito riferito sui vari network alcuni suoi antichi “compagni di lotta”, ricordandone, con immenso affetto, e come è giusto che sia in questi casi, le qualità umane e di amico di “Picchi”, come lo chiamavano tutti loro.
Ma Carlo Picchiura, nato a Brescia ma cresciuto a Padova, è stato per la storia di quegli anni, i “suoi” anni, un combattente comunista tra i più tosti, anche se la narrativa di maniera, che da sempre si ferma ai soliti noti, ben poco di lui ci ha tramandato.
Già nei primi anni settanta è tra i principali militanti della “sezione” veneta di Potere Operaio dalle cui ceneri, come noto, nasceranno, dopo lo scioglimento del 1973, molti dei più significativi movimenti autonomi di una delle regioni più attive in quella successiva e generale insurrezione che avrebbe attraversato l’Italia nel finale del secolo scorso, ma lui decide, a differenza di altri, di entrare quasi subito nella più importante organizzazione armata, che aveva già posto in essere alcune eclatanti azioni di guerriglia urbana.
Alessandro Naccarato, deputato PD ed autore del libro “Violenze, eversione e terrorismo del partito armato a Padova” (ed. il Mulino, 2008), nel corso di una intervista rilasciata al Mattino di Padova del 30 novembre 2008 afferma che “Il primo gruppo veneto di qualità nella strategia eversiva è il patto tra i Gap di Feltrinelli, le Br e Pot Op, con la nascita della Brigata Ferretto tra Mestre e Padova. Là, secondo la testimonianza di un dirigente della colonna veneta delle Br, Michele Galati, militarono Carlo Picchiura, Susanna Ronconi, Pietro Despali, Ivo De Rossi, Giuseppe Zambon, Massimo Pavan, Roberto Ferrari, Carlo Casirati, Rossano Cochis e un tale di Verona soprannominato Sherif, poi identificato per Martino Serafini.
Esaurita la prima fase, il gruppo entra nelle Br e rafforza la colonna veneta costituita nel 1974, la cui direzione comprendeva Giorgio Semeria, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene e Fabrizio Pelli. La Brigata Ferretto fu quindi la prima esperienza di cooperazione tra militanti di Pot Op e militanti Br sul terreno della lotta armata”.
Secondo il pentito Fioroni invece avrebbe anche fatto parte del commando di brigatisti che il 17 giugno 1974 uccise i missini Mazzola e Giralucci nella sede padovana di Via Zabarella, ma sarà una delle tante “inesattezze” del “professorino”, giacchè in sede giudiziaria verrà appurato che il padovano presente (oltre a Ognibene, Pelli, Ronconi e Semeria) era Martino Serafini, e non lui.
Arrestato a Ponte di Brenta (insieme allo studente Pietro Despali) il 4 settembre del 1975, nel corso di un conflitto a fuoco seguito ad un posto di blocco, dove muore l’agente Antonio Niedda, in tasca gli vengono trovate due banconote relative ad una precedente rapina commessa alla banca di Lonigo insieme ad uno dei principali dirigenti delle BR Rocco Micaletto, ai tempi già ricercato e latitante. Condannato a 26 anni di reclusione dalla Corte di Assise di Padova il 1 giugno 1977, affronta quella lunghissima trafila degli speciali di quegli anni, da dove tuttavia continua imperterrito, unitamente ai detenuti del nucleo storico delle BR, la sua battaglia rivoluzionaria, che in quegli anni, come noto, si faceva anche dentro le carceri e non solo fuori.
Nel dicembre del 1980 infatti è tra i principali organizzatori della celebre rivolta di Trani scaturita dal sequestro D’Urso, che fu l’ultimo episodio significativo delle Brigate Rosse ancora unite prima delle definitive spaccature interne degli anni successivi, ma ancora nel 1985, e quindi dopo oltre 10 anni di dura prigionia, è tra i più convinti sostenitori della perdurante necessità della lotta armata contro lo Stato, rivendicando, dalle gabbie del processo alla colonna veneta arrestata parecchi anni dopo di lui, l’omicidio Tarantelli.
Su un sito dedicato ai “caduti della Polizia di Stato” viene definito da Gianmarco Calore “una gran brutta bestia, uno che fin dagli esordi ha aderito all’ala “dura” delle brigate rosse mettendosi in evidenza per la sua violenza e per la sua spietatezza.” ma oggi, sul sito Contropiano, si legge che: “Una malattia cattiva, la sla, se l’è portato via in pochi mesi. Schivo, quasi timido nei modi, tanto che non sembra possibile trovare una sua foto in Rete, ma dotato di grande determinazione, appassionato naturalista ed etologo, aveva dato un grande contributo al libro Politica e rivoluzione, uscito nel 1983 dal processo di Torino, firmato – come si usava allora – dai militanti presenti nel processo (Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Francesco Piccioni, Andrea Coi), ma opera collettiva con cui le Br prendevano le distanze teoriche dalle teorie del “Partito Guerriglia”.
Una vita in carcere, anche per lui, che lo aveva visto tornare in libertà solo negli anni ’90, quando una classe politica incapace di chiudere quella stagione con l’unico strumento giuridico all’altezza dello scontro – l’amnistia – scelse di aprire le porte ai prigionieri politici con la “legge Gozzini”; ovvero uno alla volta, in tempi quasi individualizzati, senza alcuna riflessione pubblica
Ciao Carlo, che la terra ti sia lieve.”
Da https://bellaciao.org/it/spip.php?article33393
EUROPA NON EUROPA
Santa Sofia a Kiev |
Le proteste di piazza a Kiev e in Ucraina hanno attirato l'attenzione dei media: migliaia di persone scese per strada, chiedendo l'adesione al trattato di associazione con l'Unione Europea, secondo quanto possiamo leggere e vedere dai resoconti di giornali e tv.
In realtà, le contraddizioni in seno alla società ucraina sono molto più profonde di quanto viene mostrato in mondovisione, e sono meno semplici di un proclamato sentimento “europeista”. Una strana rivolta a favore di Bruxelles, in un momento in cui l'UE è in preda alle convulsioni della crisi economica, e con una crisi di prospettive su diversi piani senza precedenti nella sua storia.
La strada verso il partneriato
Il percorso intrapreso dal presidente Viktor Yanukovych verso la firma del trattato di associazione con l'Unione Europea sembrava dato per concluso, con addirittura convegni già convocati sugli effetti dell'accordo di Vilnius sul futuro dell'Ucraina. Prima dell'improvviso dietrofront, il 20 novembre, il premier Mykola Azarov confermava i preparativi della delegazione verso il summit di nove giorni dopo durante una conferenza stampa a San Pietroburgo, sostenendo di non aver cambiato piani. Il giorno successivo, giovedì 21 novembre, una nota del consiglio dei ministri di Kiev sospendeva i negoziati, senza però ritirare la partecipazione del proprio governo al vertice.
A causare il congelamento degli accordi sono intervenuti diversi fattori, essenzialmente basati sulle condizioni economiche dell'Ucraina, un paese che sembra non uscire mai dal tunnel imboccato dopo il crollo dell'URSS. Il ruolo della Russia e delle pressioni, politiche e non, esercitate da Vladimir Putin è stato importante fino a un certo punto, perché a farla da padrona sono state le controindicazioni sull'economia ucraina, anche perché, come affermato da uno dei negoziatori europei al Der Spiegel, “(Yanukovych) ha portato avanti più riforme del suo predecessore filo occidentale, Yulia Timoshenko”. La lettera dell'FMI al governo ucraino, in cui si chiedeva l'aumento del 40% delle tariffe energetiche, il congelamento degli stipendi e il taglio alle spese sociali, ricevuta il 20 novembre, è stata l'ultima goccia per la retromarcia. Già di per sé le procedure d'associazione all'UE prevedono la liberalizzazione economica e l'ulteriore apertura del mercato ai capitali stranieri, il che, unito alla possibilità quasi certa di perdere una quota importante delle proprie esportazioni verso la Russia (a cui sono diretti 1/3 degli scambi) ha fatto tremare il presidente ucraino, timoroso di un rovinoso peggioramento della situazione sociale e dell'instabilità politica. La difficoltà dovuta alla dipendenza energetica del paese, importante snodo del gas russo, ha contribuito poi a far recedere le velleità europeiste di Azarov e del suo governo.
A causare il congelamento degli accordi sono intervenuti diversi fattori, essenzialmente basati sulle condizioni economiche dell'Ucraina, un paese che sembra non uscire mai dal tunnel imboccato dopo il crollo dell'URSS. Il ruolo della Russia e delle pressioni, politiche e non, esercitate da Vladimir Putin è stato importante fino a un certo punto, perché a farla da padrona sono state le controindicazioni sull'economia ucraina, anche perché, come affermato da uno dei negoziatori europei al Der Spiegel, “(Yanukovych) ha portato avanti più riforme del suo predecessore filo occidentale, Yulia Timoshenko”. La lettera dell'FMI al governo ucraino, in cui si chiedeva l'aumento del 40% delle tariffe energetiche, il congelamento degli stipendi e il taglio alle spese sociali, ricevuta il 20 novembre, è stata l'ultima goccia per la retromarcia. Già di per sé le procedure d'associazione all'UE prevedono la liberalizzazione economica e l'ulteriore apertura del mercato ai capitali stranieri, il che, unito alla possibilità quasi certa di perdere una quota importante delle proprie esportazioni verso la Russia (a cui sono diretti 1/3 degli scambi) ha fatto tremare il presidente ucraino, timoroso di un rovinoso peggioramento della situazione sociale e dell'instabilità politica. La difficoltà dovuta alla dipendenza energetica del paese, importante snodo del gas russo, ha contribuito poi a far recedere le velleità europeiste di Azarov e del suo governo.
I diktat europei e l'azione di Mosca
Le condizioni previste dal partneriato possono presentare degli scenari drammatici per milioni di lavoratori: il mercato sarà aperto a prodotti più economici e di maggiore qualità, con il problema, per il commercio ucraino, di non poter esportare i propri su altri mercati (Russia e paesi ex sovietici). L'introduzione delle norme europee, ad oggi non adottate in Ucraina, e le quote di mercato porterebbe alla chiusura di ciò che resta dell'apparato industriale; tutto ciò è apparso come una minaccia anche a quella parte della borghesia ucraina pronta a cambiare fronte, passando dall'orientamento verso Mosca a quello verso Bruxelles. La poca flessibilità dei funzionari europei nel negoziare condizioni più favorevoli per Kiev ha successivamente prodotto la crisi attuale. Yanukovych ha visitato anche Pechino in questi giorni, in cerca di prestiti e di condizioni favorevoli anche da parte della Cina, ormai sempre più presente a livello globale.
Mosca gioca su alcuni fattori fondamentali: il prezzo del gas e dei combustibili, la minaccia di introdurre il visto per i cittadini ucraini, e la chiusura del proprio mercato all'agricoltura e alla produzione alimentare di Kiev. In Russia lavorano oltre un milione e trecentomila (1.342.476, dati dell'Ufficio Immigrazione russo) ucraini, di cui circa 550 mila illegalmente, agevolati dall'assenza del regime di visti, e questi lavoratori costituiscono una percentuale importante della forza lavoro migrante, pari al 13,3%. In Italia ci sono circa seicentomila ucraini, di cui solo 153 mila regolarizzati. Le rimesse degli immigrati costituiscono il 25% del PIL nazionale, di questi il 9% dalla Russia e il 6,5% dall'Italia. Lo sfascio dell'era post-sovietica continua a colpire le campagne, ormai svuotate di uomini e donne, con un'incidenza più alta dell'emigrazione dalle zone tradizionalmente contadine dell'Ucraina occidentale. Anche le condizioni previste dall'adesione all'Unione Doganale con Mosca possono penalizzare il sistema ucraino: quel che è stato descritto per l'UE, nel caso di un ingresso di Kiev nella TS (Tamozhennyj Soyuz, Unione Doganale) potrebbe avere le stesse conseguenze: quanto sta avvenendo in Russia a seguito dell'entrata nel WTO con la crescita delle tariffe, la distruzione del sistema d'istruzione e la liquidazione dell'Accademia delle Scienze, e la privatizzazione della sanità sono un ulteriore monito alla classe operaia ucraina.
Mosca gioca su alcuni fattori fondamentali: il prezzo del gas e dei combustibili, la minaccia di introdurre il visto per i cittadini ucraini, e la chiusura del proprio mercato all'agricoltura e alla produzione alimentare di Kiev. In Russia lavorano oltre un milione e trecentomila (1.342.476, dati dell'Ufficio Immigrazione russo) ucraini, di cui circa 550 mila illegalmente, agevolati dall'assenza del regime di visti, e questi lavoratori costituiscono una percentuale importante della forza lavoro migrante, pari al 13,3%. In Italia ci sono circa seicentomila ucraini, di cui solo 153 mila regolarizzati. Le rimesse degli immigrati costituiscono il 25% del PIL nazionale, di questi il 9% dalla Russia e il 6,5% dall'Italia. Lo sfascio dell'era post-sovietica continua a colpire le campagne, ormai svuotate di uomini e donne, con un'incidenza più alta dell'emigrazione dalle zone tradizionalmente contadine dell'Ucraina occidentale. Anche le condizioni previste dall'adesione all'Unione Doganale con Mosca possono penalizzare il sistema ucraino: quel che è stato descritto per l'UE, nel caso di un ingresso di Kiev nella TS (Tamozhennyj Soyuz, Unione Doganale) potrebbe avere le stesse conseguenze: quanto sta avvenendo in Russia a seguito dell'entrata nel WTO con la crescita delle tariffe, la distruzione del sistema d'istruzione e la liquidazione dell'Accademia delle Scienze, e la privatizzazione della sanità sono un ulteriore monito alla classe operaia ucraina.
Rivoluzione o rivolta nazionalista?
Ad organizzare EuroMajdan, come è stata soprannominata la mobilitazione in corso nella centrale piazza (Majdan) dell'Indipendenza, sono state le forze all'opposizione del governo. Queste forze sono composte di oligarchi in rottura con il governo, sostenitori di Yulia Timoshenko (in carcere dal 2011), dal partito Udar (legato alla CDU tedesca) guidato dall'ex pugile Vitalii Klichko e da Svoboda, partito d'estrema destra e ultranazionalista. La presenza dei nazionalisti, raggruppati attorno alle bandiere di Svoboda e del “Blocco di destra del Majdan”, ha subito provato ad egemonizzare la piazza: azioni squadriste contro manifestanti “non conformi”, lo slogan di liberare le strade da omosessuali e liberali, e la volontà di procedere allo scontro. L'Assemblea nazionale ucraina – Autodifesa popolare ucraina (UNA-UNSO) ha guidato gli assalti di questi giorni, con l'aiuto di membri di Svoboda. Quest'ultima formazione ha una concezione molto particolare di Europa, visti i suoi rapporti con il Front National di Marine Le Pen e con i camerati italiani di Forza Nuova, una cui delegazione ha visitato recentemente Kiev.
Andriy Mokhnyk, vicepresidente di Svoboda, ha elogiato i tentativi di coordinamento compiuti dai forzanovisti e li ha invitati a partecipare alla marcia in onore dell'Esercito popolare ucraino, l'UPA, macchiatosi durante la Seconda guerra mondiale dei massacri di ebrei e polacchi nell'Ucraina occidentale ( ). Oleh Tyagnibok, capo indiscusso di Svoboda, si è reso più volte autore di dichiarazioni antisemite che hanno provocato lo sdegno della comunità ebraica e la sua esclusione, nel 2004, dalle liste di Nasha Ukraina. L'ultima azione organizzata dai giovani del partito di Tyagnibok prima delle mobilitazioni è stata l'irruzione violenta durante la presentazione di una raccolta di scritti di Trotskij, con la denuncia della propaganda “omosessuale e satanista” (il video della provocazione lo si trova qui ). Non è la prima volta che avviene, e la caccia ai sindacalisti scatenata dagli squadristi in questi giorni è un'ulteriore tremenda conferma dell'avanzata delle forze neofasciste in Ucraina e della loro impunità, agli occhi della polizia e dell'opposizione “occidentale” e “liberale” che ci viene descritta: durante le assemblee a più riprese si son sentiti discorsi in difesa della razza ariana, e il saluto “Slava Ukrainy” (Gloria all'Ucraina), tipico delle formazioni collaborazioniste del Terzo Reich, è riecheggiato più volte nel centro di Kiev. L'egemonia esercitata da queste formazioni rischia di diventare un pericolo anche per quella parte della gioventù scesa in piazza per un'associazione che rischia di non divenire mai realtà, come è il caso della Turchia, da 50 anni partner dell'Unione Europea.
Alle masse lavoratrici ucraine vengono presentate due possibilità: la prima è il mantenimento dello status-quo, con l'iperinflazione, la perdita progressiva di competitività e di efficienza e la crisi finanziaria. La seconda è rappresentata dalle riforme liberiste, dalla liquidazione dei settori chiave dell'economia, l'aumento esponenziale del costo di acqua, luce e gas, e dalla disoccupazione di massa. Un proverbio popolare nell'ex Urss dice quanto sia poco saggio scegliere tra la peste e il colera, e la via d'uscita della classe operaia è una sola: fermare il decadimento del proprio paese con l'occupazione e la riapertura delle fabbriche sotto il controllo operaio, e da questa partire alla riscossa e alla riconquista del futuro. Tra la peste dell'Unione Europea e il colera dell'Unione Doganale, c'è una sola medicina: il socialismo.
Alle masse lavoratrici ucraine vengono presentate due possibilità: la prima è il mantenimento dello status-quo, con l'iperinflazione, la perdita progressiva di competitività e di efficienza e la crisi finanziaria. La seconda è rappresentata dalle riforme liberiste, dalla liquidazione dei settori chiave dell'economia, l'aumento esponenziale del costo di acqua, luce e gas, e dalla disoccupazione di massa. Un proverbio popolare nell'ex Urss dice quanto sia poco saggio scegliere tra la peste e il colera, e la via d'uscita della classe operaia è una sola: fermare il decadimento del proprio paese con l'occupazione e la riapertura delle fabbriche sotto il controllo operaio, e da questa partire alla riscossa e alla riconquista del futuro. Tra la peste dell'Unione Europea e il colera dell'Unione Doganale, c'è una sola medicina: il socialismo.
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domenica 8 dicembre 2013
HUFFINGTON POST. EBREI ITALIANI NEL DODECANESO
OGGI, sull'HUFFI.
Rodi, Gruppo Carabinieri Reali – Ufficio Centrale Speciale. Dietro questa sigla si nascose per più di dieci anni, dal 1932 fino alla fine della seconda guerra mondiale, l’ufficio politico italiano di pubblica sicurezza, che riuscì a mettere sotto controllo praticamente l’intero Dodecaneso.
Su una popolazione di 130.000 abitanti furono raccolti circa 90.000 dossier, conservati oggi in un archivio unico e per il momento non accessibile agli studiosi, ma che si spera in un paio d’anni potrà fornire materiale in grado di aiutare a rileggere la presenza italiana nel Dodecaneso (1912-1947) e offrire nuovi spunti per la comprensione del fascismo.
Eirini Toliou, la direttrice del locale Archivio di Stato che ha acquisito i fascicoli, sostiene che fu Mussolini a volere questo stretto controllo. Probabilmente, nonostante un governo non disprezzabile, l’Italia non era stata in grado di ottenere la piena fiducia dei dodecanesini. Il luogo, inoltre, meta turistica di prestigio, si prestava allo spionaggio di stranieri residenti o di passaggio, provenienti dal Levante o dall’Europa, alleati o possibili nemici.
Scheda del nominato: così era chiamata la cartella contenente cognome e nome della persona controllata, paternità e maternità, data e luogo di nascita e residenza. In basso il numero di pratica, ossia il dossier, con l’indicazione dell’anno in cui era stato creato. Da quel momento, tutte le successive informazioni venivano allegate nella cartella originale. Persone normali si è detto, come Nichitas Zavolas, nato a Pigadia il 15 marzo 1897, o Teorodo Costantinidi fu Costantino, medico condotto, sul quale il 17 febbraio 1939 i carabinieri scrivono: “In passato fu un fervente irredentista ed era tenuto in molta considerazione dalla popolazione per l’opera che svolgeva a favore dell’unione di queste Isole alla Grecia”. Da diversi anni però (siamo nel 1939) “si disinteressa di politica ed affianca le autorità italiane dando a vedere di essere un leale collaboratore […]. Non è di razza ebraica”.
Cambiano i tempi. Siamo dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia. A Rodi è governatore Cesare Maria de Vecchi conte di Val Cismon, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Moderato verso gli ebrei, mantiene il Collegio rabbinico ma deve comunque gestire il formale controllo razziale. Ai cittadini viene fornito un questionario dove specificare, cancellando con un tratto di penna le indicazioni che non interessano, se si appartiene alla razza ebraica (padre o madre), se si è iscritti alla comunità israelitica o se ne professi la religione.
Cambiano i tempi. Siamo dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia. A Rodi è governatore Cesare Maria de Vecchi conte di Val Cismon, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Moderato verso gli ebrei, mantiene il Collegio rabbinico ma deve comunque gestire il formale controllo razziale. Ai cittadini viene fornito un questionario dove specificare, cancellando con un tratto di penna le indicazioni che non interessano, se si appartiene alla razza ebraica (padre o madre), se si è iscritti alla comunità israelitica o se ne professi la religione.
Gli ebrei e gli irredentisti sono tenuti sotto controllo. Si capisce. Ma anche gli amici, come il maggiore della polizia tedesca Rodolfo Kaufmann, numero di protocollo 1229 categoria 2=10=15=1938, o il presidente della compagnia di bandiera “Ala Littoria”, Umberto Klinger, l’onorevole Klinger, che partecipò all’impresa di Fiume e durante la seconda guerra mondiale diresse il 114º Gruppo Autonomo di Bombardamento, protocollo 4950 categoria 2.11.1698-1937. Con lui, i passeggeri dei voli per Rodi, tutti regolarmente segnalati.
Poi i nemici, certo, come Kermeth Arthur Noel Anderson, maggiore comandante le truppe inglesi in Palestina, protocollo 6880 categ. 2.10.41=1933, o il deputato “irakiano” Yassin Taymore (167:1.1-102:1939) e la certissima “agente servizio informazioni cecoslovacco” Margaret Kis, agganciata nel 1936.
Scoppia la guerra e il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, la cui giurisdizione non era stata estesa alle Isole Egee, diventa a Rodi il “Tribunale speciale per la difesa del Possedimento”, e condanna all’ergastolo Giorgio Chirmicali per aver “portato armi contro lo Stato italiano”. Prigioniero a Taranto, non può neanche ricevere un pacco dal padre Elias. Sono i Carabinieri dell’Ufficio Centrale Speciale a sconsigliarlo il 29 gennaio 1943, considerando il detenuto “non meritevole di alcuna agevolazione” a causa della gravità del crimine commesso.
L’epoca è complessa. Migliaia di ebrei fuggono dall’Europa, ma milioni restano. Alcuni vanno in Francia, altri negli Stati Uniti. Quelli cosiddetti “revisionisti”, convinti che la terra promessa sia la Palestina, si imbarcano come possono diretti verso Haifa. Le navi inglesi bloccano le rotte, affondano navi e carrette del mare entrano nelle acque del Dodecaneso, fanno naufragio. Il Possedimento accoglie i naufraghi. Alcuni ripartono subito, ma altri restano più a lungo, in improvvisati campi profughi. E sono messi sotto controllo. Nel frattempo l’Italia ha occupato la Grecia. I carabinieri collaborano con l’ufficio informazioni del Comando superiore delle Forze Armate dell’Egeo, si passano notizie e dati. Rosa Spiegel, di Bratislava, così come Eugene Reimann, non riceveranno mai alcune lettere inviate dalla loro città natale. Interviene la censura militare, blocca la corrispondenza, traduce e gira ai carabinieri, che aprono nuovi fascicoli. Sono decisi, fermi, ma alla fine trattano bene i profughi. Che nel 1942 vengono trasferiti in Italia, a Ferramonti, in Calabria, e il 16 settembre 1943 saranno i primi ebrei europei ad essere liberati dagli Alleati.
Qualche settimana fa lavoravo al “Titolario”, il vecchio indice che fecero gli italiani nel 1942 dell'archivio amministrativo assieme a Eleonora Papone, che collabora come me all'archivio di Rodi. Tra le tante voci, mi restava come sospesa la classe G del titolo IV: “tipografia, macchine tipografiche, gestione”. Una classe per la tipografia? Che senso ha, quando cose apparentemente più importanti come la costruzione di acquedotti o caserme sono una sottoclasse? Solo osservando le “schede del nominato”, ho capito l’importanza e la necessità di una voce separata dalle altre spese. La tipografia stampava le schede, a Rodi, in segreto. Gestire il potere, allora, osservare senza essere visti, significava avere anche il controllo totale di quelle macchine.
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