sabato 9 giugno 2012

INTERVISTA A NAPOLITANO DEL GIORNALE DI ADAM MICHNIK


Il mio amico Adam Michnik ha intervistato Giorgio Napolitano, in visita in Polonia. Adam ha fatto il suo lavoro, ponendo domande, brevi e di sostanza (e non come in Italia, dove la domanda è di solito un intervento a un convegno). Napolitano, come leggerete, si è "stancato", perché si è parlato del passato e non dell'attualità (!) E ne ha dette di ogni, sul suo passato da comunista, su Berlinguer, sull'invasione della Cecoslovacchia e la rivoluzione ungherese, sulle Br e sul berlusconismo. Bravo Adam.




Adam Michnik durante una conferenza a San Pietroburgo
nell'aprile 2012


Signor Presidente, fra alcuni giorni Lei verrà in Polonia. Che idea se ne è fatto? E gli Italiani che idea ne hanno?
"Nel nostro paese è sempre vivo il sentimento della tradizionale amicizia che ci lega ai polacchi. L'anno scorso si è celebrato il 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Abbiamo cercato di ricostruire e trasmettere il senso di quello che fu per l'Europa di quel tempo l'unificazione nazionale dell'Italia rispetto al movimento per l'indipendenza nazionale in altri paesi, e tra questi la Polonia. Ho visitato Bergamo, la città natale di Francesco Nullo  -  un esempio eccezionale di combattente per la libertà sia in Italia che in Polonia. Oggi la Polonia è considerata da noi un paese amico di vecchia data e un partner importante per l'Europa, un anello di congiunzione fra il nucleo storico dell'Europa Occidentale e quei paesi che, dopo il 1989, sono entrati a farne parte. Forse nessuno meglio di Bronislaw Geremek ha espresso una visione dell'Europa che ha nella sua diversità una grande ricchezza e un patrimonio per il futuro. A parte i tre grandi Stati fondatori della Comunità Europea  -  la Francia, la Germania e l'Italia  -  e oltre il quarto grande paese, la Gran Bretagna poi entrata a farne parte, oggi la Spagna da un lato e la Polonia dall'altro sono diventati e possono diventare ancora, più di altri, protagonisti fondamentali nell'Unione Europea.

Ci siamo conosciuti 35 anni fa. Sono venuto a trovarLa a Roma quando ero, all'epoca, ufficiosamente ambasciatore del Comitato di Difesa degli Operai in Occidente.
"Me ne ricordo perfettamente".

Ho pensato allora che Lei aveva iniziato da comunista ad opporsi al fascismo. Poi si è fatto strada: è stato eletto presidente dell'Italia democratica. Che cosa pensa quando ripercorre tale periodo?
"Il sentiero della mia vita è un processo passato attraverso prove ed errori. Sono partito dagli ideali che in gioventù ho sposato  -  più che per scelta ideologica  -  per impulso morale e sensibilità sociale, guardando alla realtà del mio paese. Nell'arco dei decenni, ho cercato di andare al di là degli schemi entro i quali all'inizio era rimasta chiusa la mia formazione. Ho attraversato delle revisioni profonde, molto meditate e intensamente vissute. Ho riassunto questo mio percorso nel titolo della mia autobiografia Dal Partito Comunista Italiano al socialismo europeo. Le ultime parole del mio libro (uscito nel 2005), nelle quali ancora mi riconosco, sono state che per l'età che avevo ero destinato 'alla testimonianza e alla riflessione'. Non immaginavo che poco dopo sarei stato richiamato in servizio! Finivo dicendo "è il tempo del ricordo affettuoso dei tanti con i quali ho combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate, e cercato via via di correggere errori, di esplorare strade nuove".
Adam e Andrej a San Pietroburgo, durante un banchetto al Memorial

Capisco che, parlando di errori, Lei intende il periodo staliniano?
"Intendo il periodo in cui ero membro attivo di un Partito Comunista che non era un partito stalinista come molti altri in quanto aveva una fondamentale matrice antifascista e democratica e comprendeva forti componenti liberali, ma era pur sempre nato nel solco dell'Internazionale Comunista, e quindi portava nel suo Dna il mito dell'Unione Sovietica e il legame col movimento comunista mondiale. Questi elementi originari, a un dato  momento, sono diventati una prigione dalla quale il Pci doveva liberarsi".

Ho avuto sempre la sensazione che il Partito Comunista Italiano fosse diverso dagli altri. Ho seguito le pubblicazioni dei comunisti italiani. Vorrei chiederLe di alcuni personaggi. Parliamo prima di Antonio Gramsci.
"Gramsci, gravemente malato, era stato trasferito dal carcere in una clinica dove morì nel 1937. Per un giovane come me, nato nel 1925 nell'Italia fascista, il suo nome era totalmente sconosciuto. Per tutti coloro che in Italia si occupavano di politica, e anche per il mondo della cultura, Gramsci, a partire dal 1946-47, rappresentò una grande scoperta. Prima furono pubblicate le sue Lettere dal Carcere e poi tutte le sue note ne I quaderni, che lo hanno rivelato come uno dei più forti e originali pensatori del XX secolo, lontano dal dogmatismo, e molto attento ad ogni aspetto della storia d'Italia e della storia internazionale".

E Palmiro Togliatti?
"Compagno di studi all'università di Torino di Antonio Gramsci, fu con lui tra i fondatori del Partito Comunista Italiano. Con l'avvento del fascismo visse fuori d'Italia  -  in Francia, e soprattutto nell'Urss. Fu un campione di 'Realpolitik'. Costruì un partito di notevole rilievo e conservò la sua autonomia nel mondo comunista, però non ruppe mai il legame con l'Urss. All'avvento di Kruscev, e rispetto alla famosa pubblicazione del suo rapporto segreto, Togliatti mostrò sconcerto e anche diffidenza verso il nuovo leader sovietico. Tuttavia egli fu spinto da alcuni dirigenti del partito  -   faccio due nomi, Giancarlo Pajetta e Giorgio Amendola, non ancora cinquantenni, che erano considerati 'giovani promesse' del partito  -  ad abbracciare la linea della destalinizzazione".

Vorrei chiederLe dell'anno 1956. Da un lato apparivano sentimenti antistaliniani nel partito, dall'altro si verificava l'appoggio all'intervento sovietico a Budapest.
"Innanzitutto fu una tragedia, anche per il Pci, un errore grave e clamoroso del gruppo dirigente, a partire da Togliatti. Poi, anche prima che si ammettesse l'errore, si comprese la lezione: per cui, quando nel 1968 (Togliatti era già deceduto da 4 anni) ebbe luogo l'intervento armato dell'Urss e degli altri paesi del blocco sovietico in Cecoslovacchia, il Pci ufficialmente si schierò contro quell'intervento".

Nel 1968 ero in prigione, dove l'unica fonte di informazione era il giornale ufficiale del Partito Trybuna Ludu. Quando lessi che tale intervento era stato appoggiato dal Partito Comunista del Lussemburgo, mi resi conto subito che il Pci si era opposto.
"Altrimenti un comunicato di appoggio del Pci sarebbe certamente apparso sul giornale".

Naturalmente, in prima pagina, e loro si vantarono del Lussemburgo. Ancora un nominativo: Ignazio Silone.
"Silone ci riporta al periodo oscuro del fascismo. Ignazio Silone era un comunista, che lasciò il partito e diventò fondamentalmente un socialdemocratico. Dopo l'apertura degli archivi fascisti, apparvero documenti che lo indicavano come un collaboratore della polizia fascista. Una sentenza definitiva sul piano storico non è stata possibile".

Quali erano, nel periodo dell'eurocomunismo, dalla metà degli anni settanta, i rapporti fra la direzione del Pci e i dirigenti sovietici? Come reagì il partito al rifiuto del modello sovietico da parte di alcuni partiti comunisti?
"In quel periodo iniziarono forti tensioni. C'era una grande preoccupazione tra i dirigenti sovietici che, se non accusarono il Pci di tradimento, poco ci mancò. In quel periodo venne pubblicata in Italia la storia dell'Unione Sovietica di Giuseppe Boffa, uno storico comunista italiano. Nell'Urss venne tradotta solo per i membri del comitato centrale, perché si pensava che solo le persone "vaccinate" potessero leggerla (fu poi Gorbacev che la fece pubblicare normalmente). La direzione del Pcus elaborò un documento nel quale alcuni dirigenti del partito italiano furono accusati, insieme a Boffa, di antisovietismo. Tra quei nomi c'era anche il mio. Per fortuna vivevo in Italia".

Ha mai parlato con Breznev?
"Mai".

Con chi della direzione sovietica ha parlato?
"Con Michail Suslov, il grande ideologo. Indubbiamente era un uomo molto intelligente, ma schematico e duro. Non si spostava minimamente dalle sue posizioni. Ho incontrato anche Boris Ponomariov, personaggio meno importante, che nel Pcus si occupava dei rapporti con gli altri partiti comunisti. Se Suslov era considerato l'ideologo, Ponomariov ne era il fedele esecutore. Naturalmente ho avuto a che fare, anche in seguito, con personaggi interessanti dal punto di vista intellettuale".

Con Gorbacev?
"Gorbacev venne in Italia ai tempi di Breznev, ma allora non mi incontrai con lui. Ritornò anche nel 1984 per il funerale di Enrico Berlinguer, quando ancora non era segretario generale del Pcus. In seguito, lo incontrai  parecchie volte in Italia: in una di quelle occasioni,  sottolineò che era stato molto influenzato dall'eurocomunismo del Pci. Quando, nel 1987, andai a Mosca accompagnando il segretario generale del Pci di allora, Alessandro Natta, successore di Berlinguer, parlammo con Gorbacev per sei ore. Egli ci espose il suo progetto e disse che era convinto che nell'Urss si dovesse creare uno Stato di diritto. Lo interruppi e gli chiesi se la traduttrice avesse capito bene le sue parole - ed egli le confermò. Probabilmente non si rese conto dei cambiamenti radicali che avrebbe implicato la creazione di uno Stato di diritto nel suo paese".

Che tipo di uomo era Berlinguer?
"Di carattere era molto discreto, riservato e severo, tratti comuni e tipici del temperamento sardo. Era una persona molto seria che faceva politica in maniera molto rigorosa. Era arrivato fin sull'orlo della rottura con il Pcus, ma lì si fermò. Penso che temesse che il Pci, un grande partito di massa e popolare, se avesse in qualche modo rinnegato la propria origine, si sarebbe diviso e disgregato. A mio avviso, il grande equivoco fu quello del carattere rivoluzionario del partito. Secondo questa visione mitica, il partito non poteva rinunciare all'idea di un'altra società, di un altro sistema. Berlinguer, che pure era profondamente legato a tutte le conquiste democratiche e che dimostrò di difenderle tenacemente quando esse, in Italia, erano in pericolo, riteneva che il Pci dovesse essere portatore di una idea (o di una utopia) di un diverso sistema economico e sociale, di un socialismo radicalmente alternativo al capitalismo".

Quando si è consolidata la convinzione che il modello sovietico era semplicemente una dittatura?
"Berlinguer ne appariva consapevole già negli anni '70. Ma questa convinzione coesisteva in qualche modo con la fiducia nell'utopia di cui ho detto, e in palese contrasto con essa. Berlinguer manifestò un grandissimo coraggio, quando nel 1977 andò al congresso del Pcus a Mosca per dire (è una sua frase famosa) che 'la democrazia è un valore universale'. L'affermazione fu un colpo fortissimo all'edificio ideologico, propagandistico, creato intorno all'Urss. Ma Berlinguer esitò a trarne tutte le conseguenze".

E Lei, quando ha pensato che il modello sovietico non era quello che ci voleva?
"A partire da Dubcek: la Primavera di Praga fu per me assolutamente rivelatrice".

Come sono state, nella politica italiana, le relazioni tra il mondo cattolico e quello laico.
"Hanno assunto una nuova prospettiva ai tempi della lotta contro il fascismo. Esisteva allora nel cattolicesimo una importante corrente antifascista, con personaggi come Alcide de Gasperi che ancora prima della Grande Guerra ('14-'18) si era affermato come deputato nel Parlamento di Vienna, dove rappresentava gli interessi della popolazione italiana del Trentino. Ai tempi del fascismo fu completamente emarginato e riparò in Vaticano. Vi fu poi un secondo momento di avvicinamento tra democratici cattolici e laici, con la generazione successiva, più giovane, di cattolici avvicinatisi alla politica democratica  nell'Assemblea Costituente del 1946,  partecipando ai lavori sulla legge fondamentale. La nostra Costituzione è stata scritta da molte mani, e un ruolo importante vi hanno svolto menti e mani cattoliche, come Amintore Fanfani e, meno noto ma molto importante, Giuseppe Dossetti, più di sinistra".

Una formula a suo tempo popolare, anche in Polonia, era stata il "compromesso storico" (nel testo polacco il termine viene usato in italiano e in polacco). In che cosa consisteva - fu un'idea del partito comunista con la democrazia cristiana?
"Se dovessi definirlo in termini europei, lo chiamerei semplicemente un progetto di grande coalizione. Ma nel concetto di 'compromesso storico' c'erano molte sovrastrutture ideologiche. E il Partito Comunista Italiano, e soprattutto Berlinguer, per giustificare la prospettiva di alleanza politica e di governo con i democristiani, elaborarono una idea di possibile confluenza tra i valori cattolici e i principi socialisti. A mio avviso, questa visione ideologica rappresentò un elemento di debolezza. Infatti, quando dal 1976 al gennaio 1979 i comunisti e i democristiani collaborarono in Parlamento, da parte della Democrazia Cristiana la giustificazione di tale stato delle cose fu puramente politica. Ricordo che nel 1976 il Pci ottenne un ottimo risultato elettorale, il 34% ; i democristiani invece persero un po' di terreno prendendo il 38%. Aldo Moro, leader della Democrazia Cristiana, affermò : "Ci sono due vincitori" e lavorò perché raggiungessero un accordo. I leader del partito comunista dal canto loro sostennero che bisognava trovare una intesa per vincere il terrorismo interno e l'inflazione galoppante che minacciavano il Paese. In effetti, da ambedue le parti le motivazioni furono politiche, così come furono politici i motivi di chiusura di questa fase della vita politica e di rottura di quell'accordo ; e risultò artificiosa l'impalcatura ideologica del 'compromesso storico'. Per il Pci divenne insostenibile l'appoggio al governo (interamente democristiano) restandone fuori, anche se con possibilità di influire sulle sue decisioni. Questa era una posizione molto scomoda, 'in mezzo al guado' come allora si diceva. E d'altra parte la Democrazia Cristiana non arrivava ad accettare la partecipazione del PCI al governo".

Quello fu in Italia tempo di assassinii politici, di attentati  -  gli anni di piombo (termine usato in italiano e in polacco). Da dove derivava questo piombo?
"Ogni anno si svolge in Italia una giornata di commemorazione delle vittime del terrorismo, sulla base di una legge adottata dal Parlamento, e ho voluto sempre celebrarla in Quirinale. Negli anni di piombo confluirono due componenti molto diverse. Da un lato gruppi di estrema destra, neofascista, con appoggi nell'apparato dello Stato, diventati attivi dopo il 1968, dopo la grande ondata dei movimenti sindacali che avevano ottenuto rilevanti conquiste sociali, e nello stesso tempo, di fronte al pericolo che il Pci diventasse sempre più forte e giungesse al governo. Con la  cosiddetta "strategia della tensione", queste forze eversive compirono terribili attentati per destabilizzare il Paese,  bloccare i sindacati e il partito comunista. Per anni si protrassero indagini e processi il cui obbiettivo era scoprire e punire i colpevoli, ma spesso senza risultati concreti (condanna dei responsabili). Però è risultato chiaro  -  dagli stessi processi  -  che erano i  gruppi neofascisti, che godevano di sostegno nei servizi segreti e nell'apparato dello Stato, gli attori di quella strategia eversiva. La seconda componente fu l'estremismo di sinistra".

Le Brigate Rosse?
"Ancor prima delle Br, hanno operato gruppi politici come Potere Operaio, che respingevano ogni compromesso, e giudicavano che nessuna conquista operaia fosse soddisfacente. Finirono per porsi obbiettivi di violenza rivoluzionaria. Ad un certo momento i gruppi neofascisti erano stati bloccati e non poterono più esercitare la pressione di cui ho parlato (anche se nel 1980 ci fu l'attacco terroristico di Bologna, di matrice ancora neofascista). Divennero molto più pericolose, durante tutti gli anni '70,  le formazioni terroristiche dell'estrema sinistra, e tra queste crebbero grandemente le Brigate Rosse".

Rossana Rossanda, giornalista, già una delle leader del Pci, ha scritto: "Quando leggo le dichiarazioni delle Brigate Rosse è come se leggessi i miei appunti del diario da ragazzina".
"E' una intellettuale di tutto rispetto, ma da 30 anni non siamo d'accordo su nulla".

Ma le dichiarazioni delle Brigate Rosse non erano per caso una caricatura delle dichiarazioni comuniste dei primi anni '50?
"Erano molto più rozze. Comunque, una caricatura sanguinosa".

Sono d'accordo. E il suo percorso?
"Sono stato uomo di partito impegnato in politica attiva. Ma allo stesso tempo per 38 anni sono stato impegnato nelle istituzioni, come deputato italiano e successivamente, soprattutto dal 1999 al 2004, membro del Parlamento Europeo. Divenni via via sempre di più un uomo delle istituzioni. Ho svolto diverse funzioni nel Parlamento italiano, e anche un ruolo nelle relazioni internazionali (sono stato per dieci anni nell'Assemblea parlamentare della Nato). Nel 1992 sono stato eletto Presidente della Camera dei Deputati. Poi nel Parlamento Europeo sono stato Presidente della Commissione Affari Costituzionali. Da questo percorso di uomo delle istituzioni è poi scaturita la mia elezione a Presidente della Repubblica. E l'esperienza da me maturata in Parlamento mi ha preparato a poter svolgere la mia funzione attuale, come faccio ormai da sei anni, in quanto garante di imparzialità e promotore dei principi e dei valori della Costituzione".

In tutti i Paesi europei abbiamo a che fare con la corruzione. E' un elemento ineliminabile dall'ordine democratico, dall'economia di mercato? Come cavarsela?
"Nessuno di noi pensa alla vita pubblica come a un idillio. Alcuni rischi, alcune sorgenti di corruzione non sono eliminabili. Ma certamente possono esserne seriamente limitate le dimensioni e l'ampiezza, rafforzando i controlli e le sanzioni. Tuttavia, una questione io sento molto in Italia: la corruzione si estende anche perché l'attuale modo di fare politica ha perso la forza degli ideali, i principi morali e la dimensione culturale".

Ma ciò non riguarda solo l'Italia.
"Sì, la politica oggi è in affanno in tutta Europa. In Italia constato un particolare impoverimento culturale e morale della politica. Vi sono naturalmente molte differenze, non tutti i partiti sono da mettere sullo stesso piano, ma l'atmosfera generale è che la politica è diventata troppo contesa per il potere, disbrigo di affari correnti, personalismi, e questo è un clima nel quale può prosperare la corruzione".

La classica divisione tra destra e sinistra è ancora viva oggi? O forse è più importante la divisione tra una società aperta e quella chiusa?
"Bisogna ripensare le vecchie categorie. Vediamo l'Austria o l'Olanda, dove i partiti della sinistra, della destra e del centrodestra prendevano complessivamente il 70% dei voti, mentre oggi raccolgono si e no il 50%. Avvengono notevoli cambiamenti in paesi fino ad ora stabili, come la Germania, dove adesso vi sono cinque partiti e si è aggiunto perfino un Partito dei Pirati. Sono fenomeni di rottura dei vecchi equilibri. E poi c'è il preoccupante fenomeno di partiti populisti come il Partito dei Veri Finlandesi. C'è da ripensare molto della esperienza dello scorso secolo".

Quale sarà il futuro dell'Unione Europea?
"Non c'è alternativa all'unità. Mi è rimasta in mente l'opinione espressa un mese fa da Angela Merkel durante l'incontro con il nostro premier Mario Monti e con me: dobbiamo capire che gli europei costituiscono appena il 7% della popolazione mondiale; o riusciamo ad operare uniti o diventiamo irrilevanti. E' molto importante che l'abbia detto la leader della Germania, paese in cui potrebbe facilmente trovare terreno l'illusione dell'autosufficienza. Invece nemmeno il paese europeo più popoloso, dinamico e competitivo può contare davvero nel mondo se non si integra con gli altri paesi dell'Unione. Penso che il futuro dipenderà dalla piena consapevolezza che ne avranno tutti i governi nazionali, e dipenderà dalla loro volontà e capacità di condividerla con i cittadini, con gli elettori".

L'ultima domanda: che cos'è il berlusconismo?
"Con le definizioni e le categorie bisogna andarci sempre molto cauti. Si è parlato di berlusconismo come di un certo modo di fare politica e conquistare l'elettorato. Sia nella storia che nella politica vi sono cicli che si sviluppano e poi si esauriscono. Berlusconi ha compreso che non poteva continuare a reggere il governo: si è reso conto della crisi, dell'impossibilità di continuare come prima, e si è collocato in una posizione molto più distaccata".

E al di là del cambiamento di governo?
"Altra questione importante è che nella società italiana debbono rafforzarsi certi valori, offuscatisi negli ultimi anni, e che hanno molto a che fare con la visione della politica, le sue basi culturali e morali. Innanzitutto, in Europa, così come in Italia, è molto importante che si riaffermi il concetto di solidarietà. Adam Michnik conosce bene questa parola".

La ringrazio molto, Signor Presidente. L'ho affaticata.
"Un po'. Anche perché abbiamo parlato non tanto di attualità, quanto di complesse vicende del passato".

venerdì 8 giugno 2012

Intervento del Presidente Napolitano alla celebrazione del "Giorno della Memoria" dedicato alle vittime del terrorismo


Intervento del Presidente Napolitano alla celebrazione del "Giorno della Memoria" dedicato alle vittime del terrorismo


Palazzo del Quirinale, 09/05/2012
Una parola di apprezzamento, innanzitutto, per la sua disponibilità e bravura va alla conduttrice Silvia Giralucci, che è d'altronde con noi oggi a pieno titolo rievocando il giovane padre ucciso dalle Brigate Rosse, nella cupa Padova degli anni Settanta, "perché era di destra".
Prosegue anche con questo incontro - così partecipato, e di ciò vi ringrazio, vedendo in sala molti volti ormai familiari - l'opera avviata grazie all'impulso della legge approvata dal Parlamento nel 2007. Opera di raccoglimento solidale nel ricordo e nell'omaggio per tutte le vittime del terrorismo ; di ricomposizione unitaria di molteplici esperienze, dolorose e laceranti, vissute in rapporto alle singole vicende di quella stagione di violenza sanguinaria. Opera, nello stesso tempo, di trasmissione della memoria, di ricostruzione e approfondimento sul piano storico, di riflessione collettiva e di mobilitazione civile.

Ecco, quest'opera è andata avanti, negli ultimi cinque anni, attraverso un crescere, in modo imprevedibile, di contributi e di iniziative, che ci ha grandemente confortato, confermando la fecondità dell'impulso e dell'indirizzo che si espressero proprio qui nella Giornata del 9 maggio 2008. Si sono da allora levate molte voci nuove, hanno preso la parola, innanzitutto, famigliari delle vittime, prima soverchiati dal rumoroso e spudorato esibizionismo dei colpevoli, e scoraggiati da disattenzioni e ambiguità dello stesso mondo dell'informazione. Si sono imposti all'attenzione nuovi analisti e studiosi, con apporti originali e importanti. C'è stato insomma un forte risveglio di sensibilità e di coscienze. Ed è così che dobbiamo proseguire. Per questo siamo oggi qui riuniti.

E ringrazio per i loro contributi quanti sono intervenuti a richiamare, per esperienza vissuta e per testimonianza, vicende e figure altamente rappresentative degli anni funesti dell'attacco terroristico, che furono insieme anni di resistenza e risposta coraggiosa da parte delle forze migliori dello Stato democratico e della società italiana. L'intervento del dottor Simone ci ha ricordato, e ci ha permesso di apprezzare nuovamente, non solo la sua reazione all'agguato di trent'anni fa, ma la serena tenacia con cui egli ha saputo prima affrontare le conseguenze dei colpi subìti in quanto combattente della lotta contro il terrorismo, e poi dedicarsi a nuove missioni al servizio dello Stato. Il 1982 vide un drammatico susseguirsi di attentati omicidi contro uomini delle forze dell'ordine, e vide perfino cadere crudelmente un bambino, Stefano Gaj Tachè, nell'agguato terroristico alla Sinagoga di Roma.

Un grazie particolare a lei, colonnello Galvaligi, per averci offerto una così bella testimonianza di affetto e di omaggio filiale confidandoci l'estremo messaggio indirizzato ai suoi cari da un'alta, nobilissima figura di italiano impegnato da generale dell'Arma in prima linea a contrastare e sconfiggere le Brigate Rosse.
Prezioso è stato poi il ricordo, nelle partecipi parole dell'avvocato Zancan, del discreto eroismo del Presidente Fulvio Croce : forse per pochi come per lui, tra le vittime del terrorismo, si può parlare dell'apporto decisivo della società civile, nel senso più limpido e forte di quest'espressione, in difesa delle istituzioni democratiche, in difesa della Repubblica.
Negli interventi che ho richiamato, abbiamo ritrovato diverse tappe dello scontro col terrorismo : 1982, 1980, 1977. Ma come dimenticare il 2002 che dieci anni fa segnò con l'omicidio di Marco Biagi l'estremo sussulto di un feroce brigatismo già sconfitto? Abbiamo onorato la memoria e l'eredità del Professor Biagi a Modena e alla Camera dei Deputati, e vi rendiamo ancora omaggio esprimendo sentimenti di rinnovata vicinanza alla signora Marina che è con noi.

In questa Giornata della Memoria è nello stesso tempo risuonata, nelle parole dell'avvocato Vittorini, l'eco sofferta di una città ferita - Brescia - che è nuovamente rimasta senza il conforto di un accertamento e di una sanzione di colpevolezza per i responsabili della strage di Piazza della Loggia. Comprendiamo la profonda amarezza di tutti i bresciani e in primo luogo dei famigliari delle vittime, a cominciare dal caro Manlio Milani, che ha guidato l'Associazione sempre con animo fermo e con sconfinata passione e dedizione. Grazie ancora a Manlio, ora a Vittorini anche per la nuova iniziativa e proposta di cui si è fatto portatore.

Gli interrogativi riproposti dalla sentenza di Brescia, e insieme la rinnovata discussione su Piazza Fontana rimbalzata, per così dire, da un evento cinematografico, ci spingono a ritornare oggi sulla tematica delle stragi di matrice terroristica, e sui nodi principali che essa ha presentato e presenta. A quei temi dedicai il mio intervento nella Giornata del 9 maggio 2009, e non ripeterò argomentazioni che credo abbiano conservato pienamente la loro validità.
Certo, sentiamo ancor più fortemente il tormento di una giustizia incompiuta, dopo tante sollecitazioni, speranze, attese e delusioni. Non è vano ripetere che il corso della giustizia deve - pur nei limiti in cui (ad esempio, anche dopo la recente sentenza per Piazza della Loggia) è rimasto possibile - continuare con ogni scrupolo. Ma è altrettanto necessario mettere sempre in luce tutto quel che di netto, preciso, inconfutabile è emerso dalle stesse carte processuali e dalle stesse sentenze - per quanto insoddisfacenti rispetto all'esigenza di colpire le persone responsabili di orrende stragi con pene adeguate e da scontare effettivamente. Resta quel che è emerso - come ha ribadito l'avvocato Vittorini circa la matrice di estrema destra neofascista di quelle azioni criminali, e anche circa il peso della "attività depistatoria svolta da una parte degli apparati dello Stato". Dunque, una verità storica si è conseguita, con il contributo anche delle inchieste parlamentari e delle ricerche portate avanti dalle famiglie e dalle associazioni delle vittime, da tanta parte della società civile. Ebbene, tutto questo - come ha scritto la nostra sempre attenta e combattiva Benedetta Tobagi - "le assoluzioni non bastano a cancellarlo".

Insomma - e lo hanno detto in diversi, e lo ha significativamente scritto Mario Calabresi, un protagonista della riflessione sul terrorismo e sulle sue vittime, sul dovere di coltivarne la memoria e l'insegnamento - non brancoliamo nel buio di un'Italia dei misteri : ci troviamo dinanzi a limiti da rimuovere e a problemi di giustizia e di verità ancora da risolvere, ma in un'Italia che ha svelato gravissime insidie via via liberandosene, che ha sconfitto il terrorismo, individuandone e sanzionandone a centinaia gli sciagurati attori, e che ha salvaguardato i presidi della nostra vita democratica.

Certo, anche sul piano della ricostruzione della verità storica, molto rimane da fare. Con rigore di metodo, con giusto distacco da una condizionante vicinanza emotiva o da troppo facili schemi interpretativi, e con possibilità maggiori di accesso a tutte le fonti essenziali.

A questo proposito, è in corso - secondo una dettagliata valutazione fornitami dal COPASIR - un'evoluzione positiva in materia di accesso agli atti, compresi quelli degli organismi di intelligence e sul terreno della riorganizzazione dei loro archivi per accelerare il versamento di documenti all'Archivio storico del DIS e quindi all'Archivio Centrale dello Stato, presso il quale siano consultabili. Attraverso la vigilanza e la sollecitazione esercitate dal COPASIR, il Parlamento segue più in generale il rinnovato impegno del governo all'applicazione di regole stringenti in materia di ricorso al segreto di Stato che scongiurino il pericolo delle distorsioni, durante gli anni del terrorismo e delle stragi, che sono state spesso e in più sedi denunciate.

A questo problema si è anche riferito Miguel Gotor, che tuttavia ha col suo lavoro già mostrato come il tempo della storia sia giunto e possa essere fecondamente coltivato. Non c'è bisogno che aggiunga quale emozione, quale senso di profonda partecipazione, abbia rinnovato in me e in tutti noi la visione degli originali di due lettere di Aldo Moro, scritte in quei 55 giorni che furono, quelli sì, davvero "notte della Repubblica", una "notte" che Aldo Moro aveva visto incombere e invano tentato di allontanare.

Quel che ci preme in definitiva - insieme col tener viva, anche nelle sue forme più sofferte, la memoria delle vittime del terrorismo, è consolidare nella società e soprattutto nelle nuove generazioni, il senso della libertà e della democrazia conquistate sconfiggendo il fascismo, sancite nella Costituzione repubblicana, fatte oggetto di trame e di azioni distruttive, difese e riaffermate dalla grande maggioranza dei cittadini - normali "cittadini" che vi credevano e che hanno reagito a pericoli estremi come il terrorismo anche pagando prezzi durissimi.

Quel che ci preme è diffondere, anzi condividere, consapevolezza storica, sensibilità civica, volontà di partecipazione a tutela dei principi e dei diritti costituzionali, da qualunque parte vengano insidiati o feriti. E' così che possiamo porre un argine insuperabile a ogni rigurgito di violenza e finanche di violenza armata. Non ci sono ragioni di dissenso politico e tensione sociale, che possano giustificare ribellismi, illegalismi, forme di ricorso alla forza destinate a sfociare in atti di terrorismo. Quella tragedia non si ripeterà, nemmeno in forme di bieca e sempre micidiale farsa. Fossero pure solo le modalità dell'agguato al dirigente d'azienda genovese a richiamare il terrorismo - vedremo i seguiti dell'indagine - la risposta e la vigilanza devono essere categoriche. Quanti fossero tentati di mettersi su quella strada sono dei perdenti, non si illudano di intimidire lo Stato e i cittadini.

Cara Anna Brugnolli, cari ragazzi di "Note a margine", il senso del nostro impegno voi avete mostrato di averlo pienamente inteso e di saperlo portare magnificamente avanti, dialogando con Francesca e Paolo Dendena, con Carlo Arnoldi, e con le due signore, Licia Pinelli e Gemma Calabresi, che incontrandosi tra loro proprio qui tre anni orsono sono divenute l'emblema di un'alta missione comune.

Voglio associarmi - a questo tengo davvero - al ricordo di Francesca Dendena e dedicare a lei l'intera Giornata della memoria che abbiamo celebrato oggi. Perché in tutto quel che Francesca vi ha detto e che voi avete raccolto nel libro, cara Anna Brugnolli, io ho trovato una straordinaria lezione di umanità, combattività ed equilibrio, di sapienza e saggezza politica, di senso della democrazia e della nazione. Come suonano drammaticamente vere quelle sue parole, riferite allo shock per la strage di Piazza della Loggia : "temetti che a quel punto lo Stato democratico avrebbe potuto non reggere". Un timore che in più momenti, durante quegli anni, assalì anche me, voglio dirlo. Ma l'Italia, lo Stato democratico, lo Stato di diritto, ce la fecero. Ed è per questo che celebrando i 150 anni dell'Italia unita, riflettendo sul suo passato e sul suo avvenire, abbiamo potuto indicare nell'esperienza del terrorismo, in quella prova superata grazie a uno sforzo corale, un grande esempio di vitalità del tessuto unitario della nostra nazione e della nostra democrazia, un punto di riferimento e una sorgente di fiducia per il nostro comune futuro.

Ma permettetemi una conclusione più personale. Queste Giornate in memoria delle vittime del terrorismo, il ricordo di quegli uomini e di quelle donne come persone, la vicinanza al dolore delle loro famiglie, la riflessione intensa su quelle vicende, su quel periodo di storia sofferta, di storia vissuta sono stati in questi anni tra gli impegni che più mi hanno messo alla prova e coinvolto non solo istituzionalmente, ma moralmente ed emotivamente. Hanno messo alla prova la mia capacità di ascoltare e di immedesimarmi, la mia responsabilità di lettura imparziale, equanime di fatti che chiamavano in causa diverse ed opposte ideologie e pratiche politiche.

Trasmetterò il senso di questo impegno a chi mi succederà, così che possa essere portato avanti con immutata convinzione e tenacia.

giovedì 7 giugno 2012

NAZISTI SULL'ACROPOLI

Dopo 70 anni ancora vorrebbero fare sventolare la svastica sull'Acropoli.
Ecco cosa è accaduto ieri durante un dibattito elettorale. Le donne colpite dal numero due del partito nazista greco "Xrisi Avghi" sono di Syriza e del KKE. Da seguire fino in fondo.


AZZURRI AD AUSCHWITZ

La stupidaggine di molti ha ritenuto di vedere in queste cuffie dei player per
la musica, mentre si tratta di audio guide
Ieri Michele Serra pubblicava la seguente "Amaca", che si apre con enormi stupidaggini.




















Oggi i calciatori azzurri, in Polonia per gli Europei, andranno in visita ad Auschwitz. Non è una presenza scontata, per almeno due ragioni. La prima (profondamente rimossa nella nostra memoria nazionale) è che l'Italia è stata il principale alleato di Hitler e dunque il principale complice dello sterminio: chissà se qualcuno, nella nostra delegazione, avrà la volontà di spiegarlo a ragazzi di vent'anni comprensibilmente poco avvezzi alla riflessione storica.
Il secondo è che il calcio, inteso come fenomeno popolare globale, è ormai da molti anni un micidiale incubatore dei razzismi vecchi e nuovi, e in specie dell'antisemitismo: gli stadi europei sono forse l'ultimo posto al mondo dove vengono tranquillamente esposte svastiche e croci celtiche, e il saluto romano (un brevetto italiano...) accomuna le curve nazional-fasciste di mezza europa. I calciatori hanno, in questo senso, responsabilità enormi. Di complicità (a volte cosciente, a volte no) con tifoserie razziste, e soprattutto di omissione di buon esempio. Il loro comportamento, le loro parole, il loro atteggiamento in campo (per esempio quando il pubblico insulta un "negro") sono fondamentali. Lo sport è (anche) un potentissimo vettore di valori. La speranza è che questa mattina, ad Auschwitz, qualcosa scatti nella testa degli azzurri.


Sul secondo punto, nulla da dire. Ma la parte in neretto è una follia storiografica. Intanto per come è formulata: "l'Italia è stata il principale alleato di Hitler e dunque..."

E dunque cosa? L'Italia ne ha combinate di ogni durante la seconda guerra mondiale, ma almeno di una cosa non si è mai resa responsabile, ossia della deportazione degli ebrei. Nelle zone controllate dalle truppe italiane in Russia e nei Balcani gli ebrei non solo non furono mai deportati.
Gli italiani in Grecia salvarono quanti più ebrei poterono, e di questo abbiamo testimonianze dirette degli stessi sopravvissuti. Quando nel marzo 1943 i tedeschi e i bulgari deportarono gli ebrei di Salonicco (occupata dai tedeschi), gli italiani riuscirono a portare ad Atene quelli di origine italiana, evitando loro la morte. Solo dopo l'8 settembre i tedeschi organizzarono le altre deportazioni, questa volta nei territori già occupati dagli italiani.
Se si leggono i libri di Nuto Revelli o di Carlo Vicentini sulla campagna di Russia, si vedrà come i soldati italiani avevano tutti lo stesso ricordo: quando la tradotta che li conduceva al fronte passava per la Polonia, vedevano persone con la stella di David che lavoravano nelle stazioni. E tutti, affermano, 
capivano che quella non era la loro guerra, ma la guerra dei tedeschi.
Non è un problema di Michele Serra, che tutti conosciamo (ricordate la sua provocazione su Twitter?) E' un problema della nostra storia, di cui tutti possono parlare, come si trattasse di calcio. 













CARLA VERBANO

Rimando al blog di Donatella. Io scriverò qualcosa in futuro. Ora è troppo presto.


http://donatellaquattrone.blogspot.it/2012/06/e-morta-la-madre-di-valerio-verbano.html

in rete, per chi ancora non lo conoscesse, esiste il diario di Carla.


http://www.valerioverbano.it/dblog/



CARCERE. UNA PICCOLISSIMA RIFORMA
















Giustizia: nella Circolare Dap nessuna “autogestione”, ma solo una piccolissima riforma



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di Sandro Padula

Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2012

Con la Circolare Dap sui detenuti a “media sicurezza” non si introduce l’impossibile logica della “autogestione delle carceri” ma solo una piccolissima riforma.
Di fronte alla sostanziale paralisi politica del governo Monti e del parlamento in relazione ai diritti delle persone detenute, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Giovanni Tamburino cerca di affrontare con pochi e ordinari mezzi la presente e catastrofica realtà carceraria.
La circolare del Dap n. 3594-6044 del 25 novembre 2011 recante “Modalità di esecuzione della pena. Un nuovo modello di trattamento che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione” proponeva, per svariate persone detenute a “ridotta pericolosità”, modalità custodiali meno rigide “procedendo a modificazioni di talune prassi sin qui seguite” e superando, inoltre, la “dicotomia tra i concetti di sicurezza e trattamento “per pervenire alla “auspicata apertura verso modelli di detenzione più consoni alle finalità costituzionali della pena”.
La Circolare G-DAP 0206745-2012 riguardante le linee programmatiche per la “Realizzazione circuito regionale ex art. 115 d.p.r. 30 giugno 2000 n. 230” si muove nella stessa logica di quella del 25 novembre, cerca di “ampliarne la portata positiva” e punta a favorire la “realizzazione di circuiti regionali ex art. 115 d.p.r. 30 giugno 2000 n. 230” nei quali la “media sicurezza” tenda ad evolversi verso la crescita e l’ampliamento degli “spazi utilizzabili dai detenuti” e l’incentivazione delle “iniziative trattamentali e i rapporti con la comunità esterna”. 
Il modello di organizzazione per “accompagnare e sostenere l’attuazione di un sistema del genere” ha come snodo il “livello regionale, ossia il Provveditorato”. 
Ogni Provveditore, a sua volta e “sulla base del lavoro preliminare che i Direttori d’istituto hanno approntato insieme ai Comandanti di reparto e le Equipe di trattamento per l’applicazione della circolare di novembre, sentiti in conferenza di servizio i Direttori d’Istituto e d’Uepe (ufficio di esecuzione penale esterna) della regione”, dovrà elaborare un progetto regionale ispirato a un “sistema integrato di istituti differenziato per le varie tipologie detentive ...” e individuare - per tutti gli istituti a “media sicurezza” e in particolare nelle case di reclusione - le modalità più congrue per ampliare gli “spazi utilizzabili dai detenuti” di tipo scolastico, formativo, lavorativo, culturale, ricreativo e sportivo. Inoltre, ove possibile, dovrà destinare un istituto o una sezione di questo totalmente a “regime aperto” (art. 115, 3° comma).
Da quanto si legge, non viene proposto il “regime aperto” in modo generalizzato ma, in ogni Regione, sempre ove possibile, dovrebbe esserci almeno un Istituto o una sezione al suo interno con tale regime per detenuti identificati nella categoria della “media sicurezza” che da un lato hanno un fine pena inferiore ai 18 mesi e dall’altro sottoscrivono un “patto” con l’amministrazione con cui “accettano le prescrizioni ivi contenute”.
Il “regime aperto”, una specie di oasi nel deserto relazionale per la massa prigioniera del circuito carcerario, è una forma di autodisciplina pattuita da alcuni gruppi di detenuti a cui corrisponde il massimo sviluppo, al posto del mero e impossibile controllo continuo, di una sorveglianza dinamica da parte della polizia penitenziaria coadiuvata dalle altre figure istituzionali (educatori, psicologi, assistenti sociali) che per altro risponde a una direttiva dettata dalla Raccomandazione R (2006) 2 sulle Regole penitenziarie Europee del 2006 e alla legge del15 dicembre 1990 n. 395 per la riforma della Polizia Penitenziaria in un Corpo specializzato sotto il profilo custodiale e trattamentale.
In questo ambito si collocano anche le proposte di creare “Istituti a custodia attenuata per detenute madri” come prevede la legge 21 aprile 2011 n. 62 e “Istituti a custodia attenuata per tossicodipendenti” per incrementare i percorsi alternativi alla detenzione indicati dal d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309. Tutto ciò potrà riguardare “anche detenuti non direttamente gestiti dai Provveditori (a esclusione, in ogni caso, di coloro sottoposti al regime restrittivo ex art 41-bis l. 354/75)”.
In linea di principio e fatta eccezione per i regimi carcerari ad Alta Sorveglianza, la Circolare pone i problemi di una sicurezza intesa “quale condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento” e di una individuazione dei posti di servizio “sulla base del personale effettivamente a disposizione, previa decurtazione della percentuale di assenze dovute per la fruizione di congedi e riposi equamente ripartiti, sulla base della tipologia dell’istituto e degli obiettivi prefissati”.
Per diversi aspetti il “regime aperto” già esiste. A Roma ad esempio c’è da molti anni il reparto G8 del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso che, oltre a non riguardare solo persone detenute che hanno un fine pena inferiore ai 18 mesi, viene considerato all’avanguardia nell’Unione Europea. 
In questo senso la Circolare, lungi dal costituire una qualche rivoluzione, appare come una piccolissima riforma che tende a razionalizzare il sistema carcerario italiano facendo leva sull’esistente.
Il suo vero limite, oltre alla questione degli scarsi fondi per le attività trattamentali, è l’indiretto avallo di una logica di differenziazione accentuata e permanente fra l’Alta Sorveglianza e gli altri regimi detentivi. È l’assenza di una strategia volta a rendere l’intero sistema carcerario subordinato allo scopo rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione. 
È come se da un lato ci fosse la coscienza garantista e libertaria di dover colmare il gap fra la Costituzione formale e la Costituzione materiale e dall’altro non si abbia la forza e la coerenza per proporre una linea strategica di riduzione della differenziazione dei gradi di sorveglianza, di eliminazione progressiva del carcere duro e di tendenziale abolizione della pena detentiva, sostituita da un multiforme sistema di risarcimento sociale delle trasgressioni, perché far penare legalmente qualcuno fabbricandone il dolore è sempre una forma di vendetta istituzionale.
La Circolare d’altra parte, al di là della sua concreta efficacia, sembra abbastanza chiara e attenta rispetto alle condizioni di vita e di lavoro della Polizia Penitenziaria ma proprio da quest’ultima sono arrivate le critiche più severe.
Secondo l’opinione di Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria), “la circolare del Dap è illegittima nella parte in cui stravolge l’organizzazione del lavoro della Polizia Penitenziaria, perché questa è materia di confronto sindacale che non c’è stato, e per tale ragione adiremo le competenti sedi della Giustizia. Ma c’è di più: la nota di Tamburino è incredibilmente anacronistica, perché si rivolge ai detenuti con pene brevi da scontare che in tutta Europa scontano la pena fuori dal carcere”.
Il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria Giuseppe Moretti rincara la dose affermando che la Circolare del Dap, prevedendo una “sorveglianza dinamica” senza un “preventivo confronto con i rappresentanti dei lavoratori”, introdurrebbe la “logica dell’autogestione” e aumenterebbe “il rischio di implosione delle carceri”.
In realtà il parere dei Comandanti della Polizia Penitenziaria è previsto dalla Circolare rispetto alla formazione del Progetto da parte di ogni Provveditore e senza dubbio risulta sempre possibile il confronto sindacale sull’organizzazione del lavoro. 
Sulla circostanza per cui la Circolare auspica il “regime aperto” solo per detenuti a “media sicurezza” aventi un fine pena inferiore ai 18 mesi, quelli che in altri paesi europei scontano la pena residua fuori dalle carceri, Capece ha ragione.
Il punto su cui il segretario del Sappe e il segretario dell’Ugl Polizia Penitenziaria vanno al di fuori di una cultura garantista e libertaria è quando invece ritengono che la Circolare rischi di consegnare le carceri all’autogestione dei detenuti.
Questa critica, al di là delle intenzioni e delle mode comunicative di sapore populistico penale, è infondata. Ritenere che la Circolare introdurrebbe la logica dell’autogestione delle carceri da parte dei sepolti vivi è come credere che nei cimiteri si possa manifestare l’autogestione dei sepolti defunti da parte dei sepolti defunti. 
In questa specifica critica sindacale alla circolare del Dap traspare una cultura che, nel concreto, potrebbe ostacolare ogni forma di transizione da un sistema di controllo continuo ad uno di sorveglianza dinamica. E questo non va bene per nulla!
In Italia la categoria della polizia penitenziaria svolge un’attività difficile, dura e stressante ma ha la buona fortuna di avere un posto di lavoro garantito ed uno stipendio superiore alla media dei redditi complessivi da lavoro dipendente perché da una parte lo Stato la finanzia col denaro pubblico, cioè con le tasse pagate dai cittadini (compresi i parenti dei detenuti e i detenuti lavoranti), e dall’altra un’irriducibile popolazione prigioniera - passata il 31 maggio 2012 alle 66487 unità - ne costituisce l’indispensabile “datore di lavoro”, come fece intendere il romanziere Andrea Camilleri in una prefazione del 2007 all’ironico Elogio del crimine di Karl Marx.
Se quindi la polizia penitenziaria - attraverso i suoi svariati sindacati - desidera proporre qualcosa di democratico e pacifico per eliminare il problema del sovraffollamento del sistema penitenziario e ridurre il numero dei suicidi in carcere dovrebbe recepire, con grande senso di responsabilità e spirito altruistico, i bisogni comuni delle moltitudini imprigionate.
Persone detenute e persone della Polizia Penitenziaria stanno sulla stessa barca. Se quest’ultima dovesse affondare le conseguenze si riverserebbero su tutti. O si capisce che la difesa della dignità delle persone detenute e dell’articolo 27 della Costituzione deve essere interna ad ogni piattaforma dei sindacati della Polizia Penitenziaria oppure si andrà verso la comune rovina di tutte le soggettività che vivono nel carcere o grazie al carcere.

mercoledì 6 giugno 2012

LUCIO DALLA E LA GRECIA

Una sorpresa. Lucio Dalla e Marios Frangoulis insieme: eseguono "Canzone" e la popolare "Strose to stroma sou gja duo" (Prepara il letto per due). Può sembrare un po' kitsch all'inizio, ma vale la pena.

martedì 5 giugno 2012

Margherita Cagol


Il 5 giugno 1975 durante uno scontro a fuoco con i carabinieri veniva uccisa la brigatista Margerita Mara Cagol. Le dinamiche della sua morte sono ancora oggi non del tutto definite. Il brigatista che era con lei alla cascina Spiotta, dove era tenuto prigioniero l'industriale Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima, riuscì a fuggire ma non vide come venne finita la sua compagna. L'identità del Br è conosciuta da pochi e fino ad oggi tenuta in strettissimo riserbo.
In anni recenti una sciocca operazione editoriale giocò sull'ambiguità del titolo "La storia di Mara". Si trattava, invece, di un'altra ex Br, passata attraverso la dissociazione.

Allora, era il 18 maggio 2006, pubblicai il seguente pezzo:



Leonardo era brigatista. Su Storia e fumetti

"Il perché, è quel ragazzo morto la scorsa settimana in quanto cattolico. Si muore per gli stessi motivi di allora". Con queste parole ieri Ken Loach ha risposto alla domanda di un giornalista, che gli chiedeva spiegazioni sull’ultima pellicola girata, la storia dell’Ulster negli anni Venti del secolo scorso.
"Violiamo la verginità del realismo socialista!" gridarono per alcuni minuti i giovani poeti bohémien moscoviti, gli SMOGisti, scalmanati sotto alle finestre dell’Unione degli scrittori sovietici il 14 aprile 1965, anniversario del suicidio di un grande poeta russo, Majakovskij. Erano partiti in corteo dalla piazza che porta il suo nome e avevano raggiunto il centro burocratico della letteratura di regime, per violarlo. E alcuni testimoni giurano di aver sentito distintamente, in alcuni casi, al posto di "violare", il verbo "violentare"...
Da un paio d’anni ci tormenta una risma di carta rilegata intitolata Il codice Da Vinci(per inciso ricordo che nei paesi di lingua tedesca la stessa si intitola Sacrilegio, chissà mai perché); è intrattenimento puro, operazione di marketing compresa. Chi lo legge non è un lettore, è un consumatore.
Da molto meno tempo del Codice circola un libro nel quale, come dice l’editore, "il fumetto si confronta con gli anni di piombo", La storia di Mara.
Che cosa hanno in comune questi quattro episodi così apparentemente disparati?
In qualche modo essi spiegano una trasformazione epocale, il passaggio dalla creazione all’assemblaggio, dall’arte all’abilità, dall’umiltà alla volgarità.
Ken Loach, il regista di Terra e Libertà, prende un momento storico e lo riduce attraverso l’uso di una camera in narrazione. Non c’è trucco. La ricostruzione è fedele. I bianchi sono bianchi, i neri, neri, chi spara per uccidere uccide senz’altro, e così via. Il passato resta passato, ma viene investigato, analizzato, spiegato. È mimesi artistica, in un’espressione.
Gli SMOGisti (SMOG stava per CoraggioPensieroImmaginazioneInteriorità) erano dei poeti giovanissimi, nessuno di loro superava i vent’anni. Vivendo in un paese dove la poesia era la forma artistica più diffusa, ci tenevano a dire la loro in un mondo nel quale il conformismo dell’arte di Stato aveva ingessato la creazione. Non ignoravano il realismo socialista, tutt’altro. Alla fine di un percorso cominciato nel 1953 con un coraggioso articolo pubblicato sulla maggiore rivista dell’epoca da un letterato di secondo piano, passando per una serie di lotte e processi, tra cui quello al futuro premio Nobel, Iosif Brodskij, accusato di parassitismo, essi avevano deciso di violentare la cultura ufficiale, violarne la verginità. Ma non potevano ignorarla. Il passaggio era obbligato, se volevano andare oltre, perché l’arte è lunga, e il principio di quella strada non lo segna il neofita.
Dan Bronwn ha deciso che Maria è l’unica vergine della sua famiglia. Gesù, il candidato numero due, aveva una donna, la Maddalena, che gli diede una figlia, divenuta in qualche modo il Santo Graal. Per difendere questo segreto sarebbero cominciate le Crociate, nel XII secolo. Da Vinci Leonardo dovrebbe aver capito tutto e oggi si continua a uccidere come allora (le crociate), per difendere il segreto. Come allora? Come Ken Loach? No. La differenza è che in questo caso si tratta di una storia inventata usando personaggi realmente esistiti. Proprio il contrario di Loach. Una storia per consumo e intrattenimento del pubblico, una mistificazione che miscela la fantasia e trasforma il reale (poco ma fondamentale, direi portante) in verosimile, che mente sapendo di mentire. Altro che verginità del realismo socialista! Qui si tratta di una bagascia che per denaro vende le virtù altrui. O, forse, non di bagascia si tratta, ma di paraninfo, di usuraio che per poche ore di lavoro donate all’assemblaggio universale richiede al lettore uno sforzo inusuale per poterlo evitare, ignorare, dimenticare, cancellare.
Ma se la letteratura mistificata diventa intrattenimento, cos’è il fumetto? Arte minore? Pur sempre arte, dunque. Ambigua? Per certi versi. Uno dei suoi nomi, per esempio, si presta a usi indesiderati. S-t-r-i-s-c-i-a la notizia. Una trasmissione di pettegolezzi. Mondo papero. Mondo cane. Storia di Mara. L’ultimo libro a fumetti di un bravo disegnatore, Paolo Cossi, anni 26, premio "Rino Albertarelli" 2004 come miglior giovane autore italiano, che quando parla del suo fumetto dice "il mio libro". Dunque è un libro. Che, come afferma la fascetta, "si confronta con gli anni di piombo" e al quale Marcello Buonomo ha allegato un saggio intitolato La storia difficile. Quest’ultimo, citando Hannah Arendt, afferma che gli individui creano il male attraverso un crescendo di particolari situazioni che sono piccole, banali. La Storia di Mara conferma, a suo dire, che dal punto di vista storiografico solo attraverso la ricostruzione delle vite personali di chi vi ha aderito si possa comprendere nel profondo il fenomeno sociale delle Br e la sua parabola storica. Questo dice. E nel fumetto che racconta la sua vita, Mara afferma che per entrare nelle Br, nella "banalità del male" (la Arendt, lo ricordo, ne parlava riguardo agli autori dell’Olocausto – circa sei milioni di morti), ci si doveva semplicemente vestire di falsità. Per entrare lì, da dove non era più possibile uscire. Dunque, in questo fumetto si fa storia. Dunque, qui si ricostruisce una vita, perché l’insieme delle vite fa la Storia. È la somma che dà il totale.
Mara è morta nel 1975, credo. Uccisa da un carabiniere, a freddo, mentre stava con le braccia alzate dopo uno scontro a fuoco. Il 6 giugno le Br diffusero il seguente volantino, scritto da Renato Curcio, il marito: "è caduta combattendo Margherita Cagol ‘Mara’, dirigente comunista e membro del comitato esecutivo delle Brigate rosse. La sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà mai dimenticare [...]. Non possiamo permetterci di versare lacrime sui nostri caduti, ma dobbiamo imparare la lezione di lealtà, coerenza, coraggio ed eroismo [...]. Che tutti i sinceri rivoluzionari onorino la memoria di Mara meditando l’insegnamento politico che ha saputo dare con la sua scelta, con la sua vita. Che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile! Noi , come ultimo saluto le diciamo: Mara, un fiore è sbocciato e questo fiore di libertà le Brigate rosse continueranno a coltivarlo fino alla vittoria".
Poi vai avanti nella lettura del fumetto e ti accorgi che Mara non è Mara. Ovvero, è Mara, perché si chiama così, ma non è morta nel 1975. Si chiama Mara Nanni, è un’altra Mara. Nelle Br è entrata nel 1978. È stata arrestata nel 1979. È stata condannata all’ergastolo al primo processo Moro, nel 1981. E poi si è dissociata e la sua pena è stata ridotta. No. Quest’ultimo particolare il fumetto lo omette. La storia non è quella che credevamo di leggere. E non è neanche completa. Non è una storia. È solo un fumetto. Puff. E non c’è più.