lunedì 20 aprile 2020

Immuni

Il 4 maggio è stato programmato, sebbene ancora in modo ufficioso, l’inizio della Fase 2, che significa apertura del sistema produttivo e progressivo allentamento delle misure sociali di lockdown. La situazione da cui si parte non sarà di piena sicurezza. Bene che va, avremo ancora più di mille persone in terapia intensiva, decine di migliaia di persone malate in evoluzione e almeno 250 decessi al giorno. Il virus, scappatoci di mano a febbraio, non è stato ancora ripreso. In effetti le premesse per riaprire non ci sono, se non in alcune, poche regioni, come Umbria, Basilicata, Molise e forse Calabria, dove l’epidemia o non c’è stata o è sotto controllo. Il governo per garantire la sicurezza sta decidendo se rendere o meno obbligatoria l’installazione della App “Immuni” con la quale tracciare i contatti dei cittadini ed essere in grado di avvertire i soggetti in caso di positività di uno dei contatti nei tre giorni precedenti. L’App si affiancherebbe alle misure di distanziamento sociale, al contingentamento delle presenze nei trasporti e dentro i negozi e al rispetto delle norme di sicurezza anti Covid-19 nei luoghi di lavoro, oltre al mantenimento dello smartworking dove possibile.
    Non sembra che, messa così, il governo stia per garantire sicurezza. Con una epidemia ancora in corso nelle regioni più industrializzate, la certezza di perdere nuovamente il controllo del virus è più che concreta. Secondo modelli matematici che fino ad oggi hanno avuto margini di errore minimi, come quello messo a punto da alcuni ricercatori e consultabile al sito https://www.predictcovid19.com, se si allentassero le misure di lockdown da maggio a luglio in Italia si avrebbero 20.000 decessi in più rispetto al mantenere. Ieri il “Corriere della sera”, nel dare notizia di questo studio equivocava completamente le argomentazioni degli studiosi, affermando che «sarebbero solo i primi 17 giorni successivi all’applicazione delle misure di contenimento a determinare l’entità della diffusione del contagio nella pandemia di Covid-19, che sembrerebbe dipendere dunque esclusivamente dai focolai divampati per caso nei primi giorni (come quello successo all’ospedale di Codogno o la partita Atalanta–Valencia) e non dalle differenze nel rigore del lockdown. Di conseguenza, qualsiasi misura restrittiva applicata dopo i primi 17 giorni (come la chiusura delle industrie o i divieti alla libertà di movimento dei cittadini) inciderebbe poco o nulla sull’andamento dei contagi e sul numero finale delle vittime». Niente di più sbagliato; lo studio afferma che i suoi modelli matematici si basano sulle progressioni numeriche dei primi 17 giorni dopo il lockdown, ma insiste sulla grande differenza che comporterebbe una apertura prima del tempo, dati quei numeri. Delle stesse ore è un articolo uscito sul “Sole24ore” a firma di Paolo Becchi e Giovanni Zibordi intitolato “L’economia ferma e il dubbio sui decessi in Italia”. Il pezzo, dal quale la redazione del Sole ha preso le distanze con un comunicato sindacale, raddoppia le previsioni del calo di PIL rispetto a quelle dell’FMI, parlando del 20%, afferma che in Italia si sia avuta una chiusura del tipo di Wuhan, mentre è vero che il 52% delle aziende ha proseguito a funzionare, e sostiene che secondo l’Istat in Italia i decessi siano diminuiti rispetto agli anni precedenti. Non voglio neanche entrare nella polemica su questi ultimi dati, limitandomi a ricordare i conteggi svolti nelle anagrafi della provincia di Bergamo che hanno evidenziato un aumento di decessi rispetto al passato superiori al 100%.
    A questo punto appare necessario ricordare che l’Italia ha fino ad ora registrato 23660 decessi per Covid-19 in meno di due mesi e che assieme a Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Turchia, Iran, Russia e Belgio al momento non controlla l’epidemia. Per ripartire, dunque, servirebbe controllarla o, quantomeno, la certezza di una convivenza il più possibile sicura con il virus. A parte il distanziamento sociale, il divieto di assembramento e riunione e il contingentamento degli ingressi nei negozi e nei mezzi pubblici, come detto all’inizio è stata adottata una App, Immuni, che si sta pensando di rendere obbligatoria. L’App registrerebbe i dati in modo anonimo, ma la sua obbligatorietà avrebbe ripercussioni importantissime sulla libertà personale. Un cittadino che volesse prendere un mezzo pubblico, infatti, oltre a vedersi controllata la temperatura corporea, dovrebbe poter mostrare il contenuto del proprio telefono agli addetti ai controlli, o a un poliziotto in strada mentre cammina. Si protrarrebbe, in altre parole, lo stato di limitazione della libertà personale che già dura da più di un mese per il lockdown. Ma con il lockdown tutti abbiamo rinunciato a parte della nostra libertà al fine di salvare vite umane, alleggerire la pressione sul sistema sanitario e non ammalarci. Limitazione in cambio di sicurezza. Nel caso della App, invece, non solo aumenteremo in modo esponenziale i decessi, non solo rischiamo di farci nuovamente sfuggire di mano il virus proprio ora che stiamo per riprenderlo, ma non riceviamo in cambio alcuna sicurezza. Nessuno, infatti, mi garantirebbe di non incontrare il virus in un vagone di un treno; l’unica cosa è che se qualcuno si ammalasse tra i passeggeri nei tre giorni successivi, sarei avvisato. A quel punto, poi, che succederebbe? Qualcuno potrebbe violare il mio domicilio e costringermi a seguirlo in quarantena? Garantire circa 20.000 decessi e allargare ancora di più la rinuncia alla propria libertà personale perché riprenda la produzione, non mi sembra una grande idea. Non vorrei sentirmi complice di una strage in nome del capitale e preferirei, allora, continuare a sacrificarmi per salvare altre vite e portare a zero i contagi, cosa che avverrebbe, se mantenessimo il lockdown, solo alla fine di giugno anche in Lombardia e nelle Marche. Il 19 aprile il nuovo presidente di Confindustria, Bonomi, ha dichiarato che “il lavoro è salute”; in questa fase così drammatica risuona sinistro e ricorda altri slogan, mentre il governo ci offre una App che non salva, mettendo tutti nuovamente in pericolo.

La fase 2 e il futuro che ci aspetta


Perché ripetere che la malattia Covid-19 muterà la nostra vita per sempre? Non lo sappiamo. La sta cambiando adesso, ma per il futuro non esiste nessuna certezza.
    Stanno morendo persone che senza il coronavirus sarebbero rimaste in vita; secondo i dati Istat diramati il 17 aprile 2020, in alcune zone dell’Italia la mortalità tra il primo marzo e il 4 aprile è aumentata del 20% rispetto alla media dello stesso periodo degli anni 2015-2019. Dall’inizio dell’epidemia nel nostro paese e fino al 17 aprile sono decedute ufficialmente 22.745 persone, con il coronavirus o per il coronavirus, differenza che per il nostro discorso è di scarso rilievo. Per queste persone e per i loro familiari la vita è cambiata e per questi ultimi sarà segnata per sempre. Lo stesso accade per quanti si sono ammalati in maniera grave e sono riusciti a guarire, affrontando settimane di paura e di incognite. Non ne conosciamo il numero, ma si tratta di decine di migliaia di persone. Tutti gli altri, tralasciando coloro che si sono ammalati in forma lieve, hanno visto cambiare le loro vite perché costretti a restare nelle proprie abitazioni per un tempo lungo, circa due mesi; tutti, a volte in maniera inconsapevole, hanno contribuito a salvare un numero non basso, sebbene imprecisato di vite, perché grazie al loro sacrificio la corsa del virus è rallentata e il fattore R0, ossia il tasso di contagiosità, è precipitato in febbraio in zone come la Lombardia da circa 3 a poco più di 1. Il pericolo, però, mentre scrivo non è ancora passato, perché fino a quando non scenderà sotto l’1 vivremo la minaccia, anzi, la certezza, che in un tempo relativamente breve il nostro sistema sanitario si ingolferà ancora, provocando una nuova emergenza. La nazione, dunque, ha dimostrato maturità e responsabilità, aderendo a richieste inedite per salvare vite. Le violazioni amministrative registrate in questo periodo sono marginali.
    Quale è stato il prezzo pagato a livello di diritti? L’articolo 13 della Costituzione afferma che la libertà personale è inviolabile e non sono ammesse forme di detenzione, ispezione o perquisizione, né di restrizione della libertà, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Il lockdown, invece, è stato deciso per decreto e non in forza a una legge dello Stato, tanto che la sanzione penale per i trasgressori prevista inizialmente costituì un atto incostituzionale che dovette essere corretto successivamente, trasformandola in ammenda amministrativa. Non è un dettaglio, perché illustra il grado di conoscenza delle norme da parte dei tecnici che hanno lavorato al decreto e dei politici che lo hanno avallato. Politici, peraltro, che sono in alcuni casi accademici del diritto. Pazienza, nel caos delle prime settimane anche qualcosa che non dovrebbe accadere, può succedere. L’importante è averlo corretto in tempo. Ma è anche e soprattutto importante che la cittadinanza si sia unita nel salvare vite e che si sia riusciti nell’intento. Cosa è accaduto nel frattempo? Lasciamo da parte la questione delle dispute tra regioni e governo centrale e vediamo se noi cittadini, che abbiamo rinunciato a un diritto costituzionale per soccorrere altri cittadini più deboli, siamo stati trattati come tali. Alcuni governatori, così come alcuni sindaci, si sono prodigati per manifestare in maniera forte la loro determinazione a mantenere tutti chiusi in casa nel rispetto delle nuove regole. In che modo? Rispettando i loro concittiadini-elettori o facendoli sentire degli “untori” volontari?
    Il presidente della regione Campania, Vincenzo de Luca, ha dichiarato il 20 marzo 2020 quanto segue: «mi arrivano notizie che qualcuno vorrebbe preparare la festa di laurea. Mandiamo i carabinieri, ma li mandiamo con i lanciafiamme». Cosa voleva dire? Che aveva il potere di interrompere una festa di laurea (presunta) inviando egli stesso i carabinieri? Che le persone che stavano organizzando la festa di laurea meritavano di essere bruciate vive? Che bastava la minaccia, anche se pesante, di bruciare loro la casa? Non lo sappiamo. Nessun presidente di regione, però, ha il potere di inviare in una casa privata i carabinieri, specialmente se armati di lanciafiamme. Attilio Fontana, suo omologo lombardo, lo stesso giorno si è scagliato contro la categoria dei podisti, che all’inizio della quarantena è stata ritenuta da politici e da parte dei mezzi di informazione come possibile responsabile dell’aumento dei casi di Covid-19; nel corso di una telefonata con il presidente del consiglio, Conte, egli avrebbe affermato di aver chiesto un «massiccio utilizzo dell'Esercito come presidio, insieme alle forze dell'ordine, per garantire il ferreo rispetto delle regole vigenti, partendo dalle 'corsette' e dalle passeggiate in libertà». Eppure nessun intervento del governo centrale ha mai vietato l’attività motoria all’aperto, limitandola in seguito al giro del palazzo a causa delle richieste, a mio giudizio assurde, di molti presidenti di regione. Fatto sta, al di là del merito riguardante la possibilità di un runner di infettare qualcuno in una strada poco frequentata, che anche in questo caso si chiede un intervento repressivo, addirittura dell’esercito con il supporto della polizia giudiziaria, per garantire “il ferreo rispetto” di regole limitative della libertà personale alla quale, è bene ripeterlo, noi cittadini abbiamo rinunciato volontariamente per salvare vite.
    In occasione della Pasqua ancora Fontana ha diffuso un video in cui, rivolgendosi ai lombardi, si è espresso nel modo seguente: «Amici, le giornate sono belle, la primavera è iniziata la voglia di uscire è tanta. Ma non si può. Non si può ancora, non abbiamo ancora raggiunto nessun obiettivo. Dobbiamo concludere la nostra opera […]. Vi prego ed insisto, non uscite di casa». Proprio a ridosso della stessa festività un’altra amministratrice locale, la sindaca di Roma Virginia Raggi, aveva dichiarato in un twitter: «A Roma potenziati i controlli della Polizia Locale per le festività di Pasqua e Pasquetta. Verifiche ci saranno anche di notte. Se fate i furbi vi pizzichiamo. Non vanifichiamo tutti i sacrifici fatti finora. Non è il momento di abbassare la guardia». Il termine “furbo” appare ricorrente nei suoi twitter. Lo aveva usato il 21 febbraio scorso: «I ricavi di Atac continuano a crescere, di pari passo con la lotta ai furbetti che non pagano il biglietto». E l’11 aprile, sui buoni spesa: «Vorrei fosse chiara una cosa: nessuno pensasse di fare il furbo sui buoni spesa, perché vi becchiamo. Facciamo controlli molto scrupolosi sulle dichiarazioni che ci arrivano. Se sono false ce ne accorgiamo».
    Questo tipo di interventi manifestano un paternalismo non giustificato nei confronti di quelli che, a seconda del momento, sono chiamati concittadini, elettori, romani, italiani, lombardi e, anche, furbetti. Tutti, indistintamente, proiettando nel futuro immediato il giudizio su un loro eventuale errore. Manca sempre il necessario distacco verso il cittadino e il rispetto per il suo senso di responsabilità dimostrato con coscienza in questo tempo in cui il primo fine è salvare vite. Ma lo è veramente, e lo sempre?
    Nella settimana seguente la Pasqua si è cominciato a discutere di fase 2. Cosa è la fase 2 e quali sono le condizioni? La fase 2 è il periodo successivo al lockdown, in cui riprenderanno le attività economiche ma il virus non sarà scomparso e quindi nessun lavoratore sarà veramente garantito. I numeri, che sono stati giustamente ricordati dai presidenti di regione in molte occasioni, sono così differenti da pochi giorni o da una o due settimane fa, da prospettare una riapertura a breve?
     Non sembra. Intanto, come si è detto, R0 deve essere minore di 1 per consentire una riapertura che non metta nuovamente in crisi in breve tempo il sistema sanitario, e ancora non ci siamo. In secondo luogo, i dati quotidiani non si discostano molto da quelli del passato, se non per un elemento non secondario, ma che da solo non basterebbe a farci allentare la chiusura, quello delle terapie intensive, in calo da alcuni giorni. Prendiamo i numeri dei decessi, senza porci il problema se siano sottostimati, come molti dicono: un mese fa, il 16 marzo, erano stati 349 e il 17 marzo 345; il 16 aprile 525, il 17 aprile 575. Il 27 marzo è stato il giorno che ha registrato più decessi: 919; dopo è cominciata una irregolare discesa fino al 12 aprile, con 431, ma dal 13 sono nuovamente aumentati sempre abbondantemente sopra i 500. Non siamo fuori dall’emergenza e forse siamo appena entrati nella fase di plateau. I decessi, così come i positivi ufficiali, salgono e scendono in modo irregolare. Tra l’altro, abbiamo capito con molto ritardo, perché non siamo stati informati prima, che i nuovi positivi corrispondono in linea di massima ai nuovi ricoveri di persone già malate da tempo che si trovano in casa con sintomi meno gravi, senza essere tamponate, e che di giorno in giorno peggiorano. Non sappiamo, invece, la percentuale, tra quanti escono dalle terapie intensive, di persone decedute o migliorate; né conosciamo il loro numero assoluto e il numero di quanti, peggiorando, entrano quotidianamente in terapia intensiva. Dunque, se da una parte i cittadini sono trattati come furbetti potenziali untori senza senso di responsabilità e pronti a vendere la pelle del vicino per una passeggiata in più, dall’altra non sono informati in modo preciso da chi avrebbe il dovere di farlo sulla reale evoluzione dell’epidemia.
    Grazie a questa ignoranza generalizzata, la fase 2 viene prospettata in modi diversi; sarà un periodo lungo, si dice, in cui dovremo convivere con il virus, in cui ci saranno nuovi focolai mentre ognuno di noi sarà seguito, contingentato, limitato nei movimenti, controllato nelle sue condizioni di salute, multato in caso di violazione di una nuova norma. Dal punto di vista della limitazione della libertà personale, la fase 2 si presenta come il proseguimento della fase 1 con altri mezzi. Sarà determinante per cambiare le nostre esistenze? Cerchiamo di capire cosa intendiamo con la parola “cambiamento”. Se intendiamo che le nostre esistenze saranno limitate nel diritto costituzionale che riconosce come inviolabile la libertà personale, sì, sarà così. Se, invece, intendiamo che la fase 2 e il mondo che ci aspetta durante e dopo sarà diverso, la risposta è no. La fase 2, verso la quale spinge da tempo Confindustria e diversi dirigenti politici locali specialmente al Nord nelle regioni più colpite e quindi meno sicure, non è pensata per permettere al cittadino di fare una passeggiata al parco con amici o figli ma per rimettere in moto la macchina produttiva del paese, con la promessa, impossibile da mantenere, di impiegare la forza lavoro nel rispetto di norme sanitarie aggiuntive a quelle di sicurezza che già dovrebbero essere presenti nei luoghi di lavoro. Si tratta di un ponte pieno di incognite verso la fase 3, quella del vaccino o più probabilmente della cura, che permetterà di tornare al dicembre 2019, quando tutto potrà ricominciare come prima. In questo modo la presa di coscienza di quanto sta accadendo, ossia che stiamo salvando ogni giorno migliaia di vite, che lo stiamo facendo tutti insieme e che questo è il nostro principale dovere e merito, passerà in secondo piano. Lo Stato non interverrà in soccorso delle famiglie in difficoltà, perché “permetterà” loro, a rischio della vita, di tornare a lavorare; anzi, toglierà loro il merito del grande sacrificio fatto, di aver impiegato la propria libertà a favore degli altri, e farà credere che tutto si risolva con la ripresa delle attività produttive. Porterà esempi, attraverso i mezzi di informazione, raccontando che in fondo si rischia la vita anche in autostrada e non per questo si vietano le automobili, e si disimpegnerà dal dovere di curare i malati e proteggere i deboli, lasciando che il virus circoli liberamente purché il PIL riprenda a crescere fino al raggiungimento (ma nessuno sa con certezza se esistono le premesse scientifiche) della immunità di comunità, o fino alla scomparsa del virus per un qualche colpo di fortuna.
    Stando a casa e osservando bene la vita, però, ci stiamo accorgendo che non abbiamo bisogno di vestiti nuovi, di scarpe, di Europa e di Banche centrali, del campionato di calcio e degli aerei, forse neanche delle vacanze. Non abbiamo bisogno neanche di trasporti locali contingentati, di controlli della temperatura costanti o di plexiglas nei bar e nei luoghi di ritrovo. Tutto quello che ci viene presentato come parte della fase 2 è irrealizzabile da un punto di vista organizzativo, a meno che non si rinunci alla propria libertà personale a tempo indeterminato, ponendola nelle mani di chi fino ad ora non ha dimostrato rispetto per la nostra volontaria rinuncia.
    Se vogliamo davvero che questa vicenda muti le nostre esistenze, dobbiamo prendere coscienza del valore del nostro sacrificio e sapere che ogni giorno passato in casa ha contribuito a quanto di più grande e profondo possa fare un essere umano per un altro essere umano; che questo è il grande aumento di PIL nel 2020, e che il nemico non è il virus ma sono quei politici che continuano a non rispettarci, a trattarci da volgo e a convincerci che il lavoro e la produzione sono più importanti della vita stessa. Se non capiremo ciò, tutto questo dolore non sarà servito a cambiare né noi, né il mondo che sta arrivando.