In Italia vogliono vendere le spiagge. In Grecia, dove il mare è a 5 stelle e una giornata costa una decina di euro (quattro il lettino più sei di cibarie varie). Appunto, non finiremo come la Grecia.
sabato 16 novembre 2013
SPIAGGE
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IL POLITECNICO DI ATENE
Il 17 novembre 1973 il regime dei colonnelli sferrava un micidiale attacco contro il Politecnico di Atene in mano da pochi giorni agli studenti.
La rivolta comincia il 14 novembre con l'occupazione del Politecnico di Atene da parte degli studenti della capitale, dopo che ingegneria aveva deciso l'astensione dalle lezioni per protesta contro il regime militare. Gli studenti occuparono l'edificio della facoltà a Patission e cominciarono a trasmettere da una improvvisata radio universitaria, costruita ore nei laboratori della Scuola di Ingegneria Elettrica. Il messaggio che venne inviato a tutti i greci era : "Qui Politecnico! Abitanti della Grecia, Atene è portatrice della nostra lotta, la lotta è la nostra lotta comune contro la dittatura e per la democrazia" .
Raduni e manifestazioni contro il regime cominciarono a crescere, soprattutto ad Atene, ma anche in alcune città di provincia . Dal 14 al 17 novembre il regime ricopre la Grecia di posti di blocco, che furono i primi avamposti ad essere attaccati dai civili. Alle 03:00 del 17 novembre fu deciso dal governo l'intervento militare e come mostrato da un filmato storico girato da una giornalista olandese, l'attacco venne portato con un carro armato AMX 30. Mentre la stazione radio continuava a trasmettere per altri 40 minuti, gli studenti cantavano l'inno nazionale greco, ma molti di loro erano portati fuori dalle truppe speciali. Fuori dal Politecnico i cecchini cominciarono a sparare, colpendo alcuni di quelli appena catturati. Gli altri trovano rifugio in edifici vicini. L'assalto va avanti tutta la notte e si trasforma presto in una caccia all'uomo di grande proporzioni. Alla fine, le cifre non coincideranno. Secondo alcune fonti, i morti saranno 23, secondo altri, 49 e per i dati di Christos Lazos, ben 83, essendo stati coinvolte persone non identificate in seguito, morte durante gli incendi della notte in modo casuale.
La carneficina del Politecnico, che ogni anno viene ricordata in tutte le scuole della Grecia, segna il punto di non ritorno del regime. Di lì a pochi mesi, l'attacco contro Cipro farà crollare definitivamente la dittatura e riporterà la democrazia nel paese.
La rivolta comincia il 14 novembre con l'occupazione del Politecnico di Atene da parte degli studenti della capitale, dopo che ingegneria aveva deciso l'astensione dalle lezioni per protesta contro il regime militare. Gli studenti occuparono l'edificio della facoltà a Patission e cominciarono a trasmettere da una improvvisata radio universitaria, costruita ore nei laboratori della Scuola di Ingegneria Elettrica. Il messaggio che venne inviato a tutti i greci era : "Qui Politecnico! Abitanti della Grecia, Atene è portatrice della nostra lotta, la lotta è la nostra lotta comune contro la dittatura e per la democrazia" .
Raduni e manifestazioni contro il regime cominciarono a crescere, soprattutto ad Atene, ma anche in alcune città di provincia . Dal 14 al 17 novembre il regime ricopre la Grecia di posti di blocco, che furono i primi avamposti ad essere attaccati dai civili. Alle 03:00 del 17 novembre fu deciso dal governo l'intervento militare e come mostrato da un filmato storico girato da una giornalista olandese, l'attacco venne portato con un carro armato AMX 30. Mentre la stazione radio continuava a trasmettere per altri 40 minuti, gli studenti cantavano l'inno nazionale greco, ma molti di loro erano portati fuori dalle truppe speciali. Fuori dal Politecnico i cecchini cominciarono a sparare, colpendo alcuni di quelli appena catturati. Gli altri trovano rifugio in edifici vicini. L'assalto va avanti tutta la notte e si trasforma presto in una caccia all'uomo di grande proporzioni. Alla fine, le cifre non coincideranno. Secondo alcune fonti, i morti saranno 23, secondo altri, 49 e per i dati di Christos Lazos, ben 83, essendo stati coinvolte persone non identificate in seguito, morte durante gli incendi della notte in modo casuale.
La carneficina del Politecnico, che ogni anno viene ricordata in tutte le scuole della Grecia, segna il punto di non ritorno del regime. Di lì a pochi mesi, l'attacco contro Cipro farà crollare definitivamente la dittatura e riporterà la democrazia nel paese.
giovedì 14 novembre 2013
NOI CHE SIAMO LA CLASSE MEDIA
Mentre a Milano vendono la sede del Corriere in via Solferino (segue post - dopo l'inter di Moratti), il governo continua a bloccare adeguamenti all'inflazione e ad aumentare la tassazione. Anche sulle pensioni (il mio stipendio e' bloccato da tre anni e nell'anno precedente non c'e' stato mese in cui ho preso la stessa cifra). Questa l'intervista di oggi.
Samuele Brivio MILANO - Il punto è presto detto: è giusto che un pensionato da 2.110 euro netti al mese si lamenti se il governo, il Parlamento (e anche gli amici al bar) gli chiedono di lasciare che la sua pensione venga rosicchiata, anno dopo anno, dal tarlo dell’inflazione? Samuele Brivio, ex bancario e militante di Sel - uno che quei soldi li porta a casa precisi al centesimo - non ha dubbi: «No, non è giusto. No e poi no. Lo scriva pure. E le spiego anche perché».
Brivio, 62 anni, milanese del quartiere Niguarda, di patrimoni da amministrare se ne intende. Per una vita ha lavorato, in Comit prima e in banca Intesa poi, come responsabile delle gestioni. Dei soldi degli altri, si capisce. Oggi fa i conti nel proprio di portafogli. Apre il mobile del soggiorno e ci mostra il 730. «Beh, come vede, con 2.110 euro netti supero i tremila lordi. Morale: già da due anni mi hanno bloccato l’adeguamento all’inflazione. Il mio assegno reale diminuisce mese dopo mese. Sia chiaro: da me non sentirà un lamento.
Nessuno mi deve spiegare che c’è un’Italia che soffre, arranca e lotta per colpa della crisi: lo so già. Però non venitemi nemmeno a dire che con i miei duemila euro al mese faccio parte della categoria dei ricchi. Eh no, non ci sto! La verità è che lo Stato va a prendere i soldi nel mucchio, nelle tasche in cui è sicuro di trovarli, dove è convinto che poi, alla fine, tutto si risolverà con qualche mugugno».
«Però no, non sono ricco - continua Brivio, prendendo fiato a stento -. Benestante sì, sicuro. Ma io qui vorrei che per una volta si guardasse a chi sta meglio. E una cosa è certa: ai ricchi, quelli veri, non vengono chiesti sacrifici proporzionati al reddito».
C’è un altro rospo che il nostro pensionato-bancario non riesce a mandare giù. «Ma lei ha idea di tutti i contributi che ho versato? - riparte con nuovo slancio -. Ho iniziato a lavorare a 17 anni. Quando sono andato in pensione, nel 2009, potevo contare su 2.167 euro al mese. Adesso, con il blocco dell’indicizzazione e le tasse locali che aumentano, ne prendo 2.110: 50 euro in meno al mese, 684 che mancano all’appello ogni anno. E’ a questi conti che bisogna aggiungere la mancata indicizzazione. Con un’inflazione all’uno per cento mi spetterebbero circa 390 euro l’anno. E per fortuna che il tasso di crescita dei prezzi oggi è molto contenuto».
Ciascuno ha un buon motivo per lamentarsi. Ma dove lo Stato dovrebbe prendere quello che serve a far tornare i conti? «Hanno tolto l’Imu a tutti, e questo è già uno scandalo, per poi aumentare l’Iva. Guardi che io mangio quanto mangia una milionario, alla fine il rincaro dell’Iva al supermercato non pesa in modo tanto diverso sui nostri conti correnti».
Brivio ricorda quando nel ‘69 entrò in banca. «Ero appena stato licenziato dall’azienda per cui lavoravo perché ero andato al funerale delle vittime di piazza Fontana senza chiedere permesso a nessuno. In realtà avevo già fatto il colloquio in Comit e sapevo di avere buone possibilità. Il primo gennaio ‘70 sono stato assunto. Allora sapevamo di appartenere all’aristocrazia del lavoro dipendente. Ma non immaginavamo che saremmo finiti così. Con i figli precari che hanno solo noi come ancora di salvezza. La mia, per dire, insegna. Ma ogni anno viene licenziata a giugno e assunta a ottobre. Il suo compagno idem».
«E adesso basta, però - dice Brivio con gli occhi -. Guardi devo uscire». Quelli come lui si sentono stritolati. Da una parte chi sta peggio non perdona alla classe media quel po’ di benessere costruito in una vita. «E chi sta meglio si nasconde per non pagare pegno. Abbiamo detto tutto. Finiamola qui».
Samuele Brivio MILANO - Il punto è presto detto: è giusto che un pensionato da 2.110 euro netti al mese si lamenti se il governo, il Parlamento (e anche gli amici al bar) gli chiedono di lasciare che la sua pensione venga rosicchiata, anno dopo anno, dal tarlo dell’inflazione? Samuele Brivio, ex bancario e militante di Sel - uno che quei soldi li porta a casa precisi al centesimo - non ha dubbi: «No, non è giusto. No e poi no. Lo scriva pure. E le spiego anche perché».
Brivio, 62 anni, milanese del quartiere Niguarda, di patrimoni da amministrare se ne intende. Per una vita ha lavorato, in Comit prima e in banca Intesa poi, come responsabile delle gestioni. Dei soldi degli altri, si capisce. Oggi fa i conti nel proprio di portafogli. Apre il mobile del soggiorno e ci mostra il 730. «Beh, come vede, con 2.110 euro netti supero i tremila lordi. Morale: già da due anni mi hanno bloccato l’adeguamento all’inflazione. Il mio assegno reale diminuisce mese dopo mese. Sia chiaro: da me non sentirà un lamento.
Nessuno mi deve spiegare che c’è un’Italia che soffre, arranca e lotta per colpa della crisi: lo so già. Però non venitemi nemmeno a dire che con i miei duemila euro al mese faccio parte della categoria dei ricchi. Eh no, non ci sto! La verità è che lo Stato va a prendere i soldi nel mucchio, nelle tasche in cui è sicuro di trovarli, dove è convinto che poi, alla fine, tutto si risolverà con qualche mugugno».
«Però no, non sono ricco - continua Brivio, prendendo fiato a stento -. Benestante sì, sicuro. Ma io qui vorrei che per una volta si guardasse a chi sta meglio. E una cosa è certa: ai ricchi, quelli veri, non vengono chiesti sacrifici proporzionati al reddito».
C’è un altro rospo che il nostro pensionato-bancario non riesce a mandare giù. «Ma lei ha idea di tutti i contributi che ho versato? - riparte con nuovo slancio -. Ho iniziato a lavorare a 17 anni. Quando sono andato in pensione, nel 2009, potevo contare su 2.167 euro al mese. Adesso, con il blocco dell’indicizzazione e le tasse locali che aumentano, ne prendo 2.110: 50 euro in meno al mese, 684 che mancano all’appello ogni anno. E’ a questi conti che bisogna aggiungere la mancata indicizzazione. Con un’inflazione all’uno per cento mi spetterebbero circa 390 euro l’anno. E per fortuna che il tasso di crescita dei prezzi oggi è molto contenuto».
Ciascuno ha un buon motivo per lamentarsi. Ma dove lo Stato dovrebbe prendere quello che serve a far tornare i conti? «Hanno tolto l’Imu a tutti, e questo è già uno scandalo, per poi aumentare l’Iva. Guardi che io mangio quanto mangia una milionario, alla fine il rincaro dell’Iva al supermercato non pesa in modo tanto diverso sui nostri conti correnti».
Brivio ricorda quando nel ‘69 entrò in banca. «Ero appena stato licenziato dall’azienda per cui lavoravo perché ero andato al funerale delle vittime di piazza Fontana senza chiedere permesso a nessuno. In realtà avevo già fatto il colloquio in Comit e sapevo di avere buone possibilità. Il primo gennaio ‘70 sono stato assunto. Allora sapevamo di appartenere all’aristocrazia del lavoro dipendente. Ma non immaginavamo che saremmo finiti così. Con i figli precari che hanno solo noi come ancora di salvezza. La mia, per dire, insegna. Ma ogni anno viene licenziata a giugno e assunta a ottobre. Il suo compagno idem».
«E adesso basta, però - dice Brivio con gli occhi -. Guardi devo uscire». Quelli come lui si sentono stritolati. Da una parte chi sta peggio non perdona alla classe media quel po’ di benessere costruito in una vita. «E chi sta meglio si nasconde per non pagare pegno. Abbiamo detto tutto. Finiamola qui».
mercoledì 13 novembre 2013
IL GOVERNATORE DI RODI
Domani, 14 novembre, Cesare Maria De Vecchi conte di Val Cismon avrebbe compiuto 129 anni. Era nato, infatti, nel 1884. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, divenne fascista della prima ora e partecipò alla marcia su Roma che nel '22 portò al potere il fascismo. Uomini nuovi, giovani, diversi dai logori politici liberali, si impadronirono dell'Italia e ne fecero un esempio di sviluppo della modernità per tanti paesi europei dell'epoca interbellica.
Cesare Maria, già governatore della Somalia Italiana, all'inizio degli anni Trenta divenne un collega, avendo un ruolo dirigenziale negli archivi di Stato, ruolo dal quale si dimise nel 1934 perché nominato ministro dell'Educazione Nazionale. Ed è l'idea di fascistizzazione totale che portò con sé a Rodi quando Mussolini lo nominò, nel 1936, Governatore delle Isole Italiane dell'Egeo, ossia del Dodecaneso. In quattro anni tentò di fare del Dodecaneso una vetrina del fascismo nel Levante, eccedendo spesso nei confronti della popolazione locale, in maggioranza greca, alla quale impose l'uso dell'Italiano nelle scuole e negli uffici. Secondo molte fonti, fu contrario alla guerra che l'Italia avrebbe dichiarato alla Grecia nell'ottobre 1940 e per questo alla fine di novembre rientrò a Roma, dove non ebbe più alcun incarico fino al 1943, quando contribuì alla caduta di Mussolini. Condannato sia dal tribunale fascista di Verona sia da quello italiano repubblicano, poté rientrare in Italia qualche anno dopo la fine della guerra e continuare a vivere tranquillamente fino alla morte, avvenuta nel 1959. I suoi nipoti, Cesare e Vittorio, hanno visitato di recente Rodi. Si riportano le firme sul registro che ho trovato in archivio questa mattina.
Le foto che seguono sono prese dalla piano superiore nella disponibilità dell'archivio del Dodecaneso, dove si dovrebbe allestire un museo.
martedì 12 novembre 2013
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