venerdì 4 ottobre 2013

PROFUGO SOCIALE PROFUGO DI GUERRA























Il profugo è una persona che è stata fino a ieri un uomo normale, un elemento sociale di pieno valore, che è stato violentemente strappato alle funzioni utili che gli erano assegnate nell’organismo sociale. Il profugo è una persona che può e deve domani ritornare ad essere un elemento utile all’organismo sociale di quel paese dove egli potrà stabilire la sua dimora. Il profugo non è quindi un mendicante, non è un minorato da un punto di vista del valore sociale ed umano, ma è un elemento di pieno valore che ha diritto non alla nostra pietà ma al nostro rispetto come un nostro pari, come un qualunque altro uomo. Il problema del profugo non si può risolvere con la carità e la beneficienza, ma va risolto con l’assistenza intesa come l’aiuto fraterno di un uomo a un suo pari, del fratello al fratello, del figlio al padre, del padre al figlio.


Noi, membri del Consiglio nazionale, rappresentanti del popolo ebraico in Palestina e del movimento sionista del mondo, riuniti in assemblea solenne oggi, data di scadenza del Mandato britannico in Palestina, in virtù del diritto nazionale e storico del popolo ebraico e della risoluzione presa dall’assemblea generale delle Nazioni Unite, proclamiamo la fondazione dello Stato ebraico di Palestina, che si chiamerà Israele. Con fede in Dio onnipotente, noi poniamo le mani su questa dichiarazione, in questa seduta del Consiglio provvisorio di Stato, tenutasi nella città di Tel Aviv, la vigilia del Sabato, quinto giorno di Iyar, cinquemilasettecentotto, quattordici maggio 1948[1].

Con questa dichiarazione di Ben Gurion, firmata da una trentina di delegati, nasceva lo Stato di Israele. Venne nominato un esecutivo provvisorio composto da 13 membri che cancellò immediatamente “tutte le leggi decretate in base al Libro Bianco di Palestina (1939) del governo britannico e tutte le leggi da quelle derivate”[2]. Coloro che fino a quel momento erano stati considerati “profughi” e negli ultimi dieci anni avevano perso il diritto alla cittadinanza, divennero cittadini di un paese loro. Si chiudeva così un capitolo di storia cominciato con l’ascesa al potere di Hitler in Germania, che aveva significato per gli ebrei europei uno sconvolgimento senza precedenti della loro condizione. La Germania nazista, e con questa molti paesi europei che adottarono una legislazione antiebraica[3], rappresentarono un elemento della modernità che considero il più marcatamente originale e rappresentativo: lo spostamento delle popolazioni, l’enorme numero di profughi – sia in termini assoluti che relativi –  provocato dalle leggi razziali e quindi dalla persecuzione diretta subita dagli ebrei europei durante la seconda guerra mondiale. La figura di profugo [di guerra, affiancata poi da quella che chiamo di  “profugo sociale” in tempi più recenti] nel corso del Novecento diventa l’attore principale della storia, il suo vero grande protagonista. Si pensi anzitutto al modo in cui venne portato a termine il genocidio armeno nell’impero ottomano: dopo i massacri del 1895-1896, ripetuti nel 1908, nel 1909 e nel 1912, nel maggio 1915 il partito dei giovani turchi promulgò una “legge temporanea di deportazione” che colpì la popolazione armena dell’Anatolia orientale. Centinaia di migliaia di persone furono spostate verso i deserti della Siria, dove trovarono la morte[4]. Per contro, le comunità armene di zone lontane dalla guerra, come Smirne o Istanbul, non furono toccate.
Milioni furono i profughi provocati dalle guerre mondiali, centinaia di migliaia di persone furono deportate in Unione Sovietica durante le rivoluzioni industriale e agraria portate a termine negli anni Trenta; milioni riempirono i lager nazisti, dove morirono di stenti o furono assassinati. Accanto ai profughi provocati ancora oggi dalle guerre giungiamo ai profughi sociali dovuti anche in Occidente al più  recente fenomeno della gentrificazione. Più dello stato-nazione, che in fondo è un elemento non omogeneo, è proprio la mancanza di sicurezza di poter conservare le proprie origini fino alla morte a caratterizzare in generale il mondo come lo conosciamo direttamente. E sulla base di questa realtà nacque una nuova terminologia per caratterizzare tale condizione inedita di Heimatloser.

in parte avevo anticipato il discorso pochi giorni fa [http://primadellapioggia.blogspot.it/2013/09/da-piazza-taksim-alla-val-susa.html]



[1] Abba Eban, Storia dello Stato d’Israele, Milano, Mondadori, 1974, p. 9.
[2] Ivi, p. 10.
[3] Si veda Anna Capelli e Renata Broggini (a cura di), Antisemitismo in Europa negli anni Trenta. Legislazioni a confronto, Franco Angeli, Milano 2001.
[4] La legge autorizzava i comandanti dell’esercito, dei corpi d’armata, delle divisioni e delle guarnigioni locali a ordinare la deportazione di gruppi di popolazione sospettati di spionaggio, di tradimento, o per necessità militari. La legge fu abrogata il 4 novembre 1918 dal parlamento ottomano perché mai promulgata dal parlamento stesso, come prevedeva la legge fondamentale.

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giovedì 3 ottobre 2013

YAD VASHEM, GUTMAN E LA SHOAH



Il primo ottobre è morto il professor Israel Gutman, già responsabile del centro di ricerca e del museo Yad Vashem di Gerusalemme e direttore dell'Istituto internazionale di storia dell'Olocausto. Nato nel 1923, fu internato a Majdanek e Auschwitz, da dove venne inviato dai nazisti nel maggio 1945 in quelle che sono state definite "le marce della morte" (si veda il libro di Daniel Blatman con lo stesso titolo). Riuscì a sopravvivere anche a questa prova e raggiunse la Palestina nel 1946. Dopo la laurea intraprese la carriera scientifica e divenne uno tra i maggiori studiosi mondiali della Shoah.

Dato che siamo in tema, ripropongo una notizia dello scorso anno che ha una certa importanza. Nel luglio 2012 il museo della Shoah di Gerusalemme "Yad Vashem" ha cambiato la didascalia accanto alla fotografia di Pio XII. La notizia è apparsa senza molta enfasi sui giornali italiani, mentre si tratta di un fatto epocale. Infatti, secondo almeno gli ultimi studi, il Vaticano avrebbe tenuto un atteggiamento meno ambiguo di quanto creduto in precedenza. Al solito, più che della sostanza si è discusso sull'ipotesi di un coinvolgimento diretto o indiretto della Santa Sede nell'operazione.
Va comunque ricordato che l'unica lettera di protesta ufficiale di un alto prelato scritta in Europa contro la deportazione degli Ebrei fu quella che scrisse l'arcivescovo di Atene, Damaskinos, nella quale affermò che tutti i greci, senza distinzione di razza o religione, erano cittadini del medesimo stato e non potevano essere discriminati. Nella coscienza nazionale, continuava il metropolita, tutti loro costituivano un'unità inscindibile ed erano considerati membri paritari a prescindere dalla religione.

Di seguito, la vecchia e la nuova didascalia.


PIO XII E L’OLOCAUSTO
La reazione di Pio XII all’uccisione degli ebrei durante l’Olocausto è una questione controversa. Nel 1933, quando era segretario di Stato vaticano, si attivò per ottenere un concordato con il regime tedesco per preservare i diritti della Chiesa in Germania, anche se ciò significò riconoscere il regime razzista nazista. Quando fu eletto papa nel 1939, accantonò una lettera contro il razzismo e l’antisemitismo preparata dal suo predecessore. Anche quando notizie sull’uccisione degli ebrei raggiunsero il Vaticano, il papa non protestò né verbalmente né per iscritto. Nel dicembre 1942, si astenne dal firmare la dichiarazione degli Alleati che condannava lo sterminio degli ebrei. Quando ebrei furono deportati da Roma ad Auschwitz, il papa non intervenne. Il papa mantenne una posizione neutrale per tutta la guerra, con l’eccezione degli appelli ai governanti di Ungheria e Slovacchia verso la fine. Il suo silenzio e la mancanza di linee guida costrinsero il clero d’Europa a decidere per proprio conto come reagire.
E la nuova:
IL VATICANO E L’OLOCAUSTO
Il Vaticano sotto la guida di Pio XI, Achille Ratti, e rappresentato dal segretario di stato Eugenio Pacelli, firmò un concordato con la Germania nazista al fine di preservare i diritti della Chiesa cattolica in Germania. La reazione di Pio XII, Eugenio Pacelli, all’assassinio degli ebrei durante l’Olocausto è oggetto di controversia tra gli studiosi. Dall’inizio della seconda guerra mondiale il Vaticano mantenne una politica di neutralità. Il pontefice si astenne dal firmare la dichiarazione degli Alleati del 17 dicembre 1942 che condannava lo sterminio degli ebrei. Comunque, nel suo radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1942 egli fece riferimento alle “centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talvolta solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate a morte o a un progressivo deperimento”. Gli ebrei non erano esplicitamente menzionati. Quando gli ebrei furono deportati da Roma ad Auschwitz il pontefice non protestò pubblicamente. La Santa Sede si appellò separatamente ai governanti di Slovacchia e Ungheria in favore degli ebrei. I critici del papa sostengono che la sua decisione di astenersi dal condannare l’assassinio degli ebrei da parte della Germania nazista costituisca una mancanza morale: la mancanza di una chiara guida consentì a molti di collaborare con la Germania nazista rassicurati dall’opinione che ciò non era in contraddizione con gli insegnamenti morali della Chiesa. Ciò lasciò anche l’iniziativa del salvataggio degli ebrei a singoli preti e laici. I suoi difensori ritengono che questa neutralità evitò più dure misure contro il Vaticano e contro le istituzioni della Chiesa in tutta l’Europa, consentendo così che avesse luogo un considerevole numero di attività segrete di salvataggio a differenti livelli della Chiesa. Inoltre, essi indicano casi in cui il pontefice offrì incoraggiamento ad attività in cui gli ebrei furono salvati. Finché tutto il materiale rilevante non sarà disponibile agli studiosi, questo tema resterà aperto a ulteriori indagini.
“L’Osservatore Romano” ha dato notizia dell’avvenimento il 3 e 7 luglio 2012

mercoledì 2 ottobre 2013

CONCLUSA INDAGINE SU ALBA DORATA


INQUIETANTI le rivelazioni su Alba Dorata presenti nel fascicolo conclusivo delle indagini del sostituto procuratore della Corte Suprema, Charàlambos Vourliòtis. Vourliòtis parla di una struttura e di un addestramento militare dei membri dell’organizzazione, sul modello dell’addestramento delle forze armate.
Secondo lo stesso Vourliòtis  “per Alba Dorata chiunque non appartenga alla comunità della razza è un subumano. A questa categoria appartengono i migranti, i Rom, tutti coloro che non condividono le loro idee, nonché le persone con problemi mentali. La violenza secondo Alba Dorata è il messaggio e non il mezzo per realizzare i propri obiettivi”. Inoltre, dagli anni ’90, “il gruppo è diventato una formazione politica. Da quell’anno si è distinta la parte operativa da quella politica dell’organizzazione, con la prima ad impegnarsi in attività fuori ufficio, cioè attacchi violenti contro chiunque venisse considerato nemico dell’organizzazione. In base allo statuto di Alba Dorata, in cui viene espressamente fatta questa distinzione,entrambe le parti dipendevano dal medesimo gruppo dirigenziale e da un capo assoluto, secondo il dogma hitleriano del Führerprinzip; l’ordine del capo, anche nelle azioni di poca importanza, era sacro e non negoziabile”.
Gli elementi che risultano dalle conclusioni delle indagini sono scioccanti. “Le caratteristiche dell’organizzazione sono la struttura militare e la gerarchia, la violazione della quale può avere delle conseguenze dure, anche disumane e umilianti” riporta Vourliòtis, e aggiunge: “una delle priorità dell’organizzazione è l’addestramento militare dei suoi membri, che avviene a Malakassa, Mandra e Salamina. Per i bisogni dell’organizzazione vengono usate varie armi, che con molta probabilità sono nascoste in posti ignoti”.
Infine, nel rapporto del Procuratore viene sottolineato come “l’odio contro i migranti non sia indiscriminato nei confronti di questa categoria di persone, in quanto in molte occasioni incaricano questi ultimi della vendita di varie merci e intascano parte dei guadagni, offrendo a queste persone la sicurezza di cui hanno bisogno. Gli ordini vengono trasmessi dal capo e ai sottoposti fino alla finale loro realizzazione “.
Tra l’altro, come risulta dal fascicolo, Alba Dorata dispone di armi pesanti, nascoste in varie parti dell’Attica.
Dopo l'arresto del leader Nikos Mixaloliakos e di molti alti dirigenti, il parlamento greco sta discutendo sulla sospensione dei finanziamenti pubblici al partito.
Fonte: koutipandoras.gr 
Traduzione: Atene Calling

IL GOVERNO DELL'UOMO INDEBITATO

Dal libro 



Il neoliberismo ha un modo del tutto singolare di piegare il rapporto a sé (la produzione del soggetto, dell’individuo), spingendolo al parossismo. Rappresentazione esemplare ne è il capitale umano, l’imprenditore di sé, punto di arrivo di un assoggettamento che facendo della persona un «capitale», ne impone una valutazione e una misura a partire dalla logica del guadagno e delle perdite, dell’offerta e della domanda, dell’investimento (in formazione, assicurazioni individuali, ecc.) e della sua redditività.
L’organizzazione postfordista sollecita continuamente un individuo che, a partire dalla propria libertà e dalla propria autonomia, deve negoziare non solo con situazioni esterne ma anche con se stesso. Il lavoratore indipendente, il cui modello è stato importato nel lavoro salariato, funzionando come un’impresa individuale, è continuamente impegnato a negoziare tra il suo io e il suo super-io «economici», proprio perché è lui stesso il responsabile del suo destino: lavoro o vado in vacanza? Accendo il telefono e mi rendo disponibile a qualunque sollecitazione o taglio le comunicazioni e mi rendo indisponibile? L’individuo, isolato dalla sua stessa libertà, si ritrova alle prese, oltre che con la concorrenza con gli altri, con la concorrenza con se stesso.
Questo continuo negoziato tra sé e sé è la specifica modalità di soggettivazione e di controllo delle società neoliberiste. Come nel sistema fordista la norma rimane esterna, è sempre prodotta dal dispositivo socio-economico, ma si manifesta come se l’individuo stesso ne fosse l’origine, come se scaturisse dal soggetto stesso.
L’ordine e il comando devono dare l’impressione di provenire dall’individuo, perché «sei tu a comandare!», perché «sei tu il padrone di te stesso!», perché «sei tu il tuo manager!». L’assoggettamento contemporaneo sottopone l’individuo a una valutazione «infinita», facendo del soggetto il suo primo giudice. L’ingiunzione a essere soggetto, a darsi degli ordini, a negoziare continuamente con se stessi, a obbedire a se stessi, è il punto terminale dell’individualismo.
Frustrazione, risentimento, senso di colpa, paura costituiscono le «passioni» della relazione a sé nel neoliberismo, perché le promesse di realizzazione, di libertà, di autonomia si scontrano con una realtà che sistematicamente le nega. Il fallimento del capitalismo non risuona così forte come dovrebbe, perché è l’individualismo ad attutirlo attraverso un’interiorizzazione del conflitto in cui il «nemico» finisce col confondersi con una parte di sé. La tendenza è allora quella di rivolgere la «denuncia» contro se stessi, anziché contri i rapporti di potere. Da qui la colpevolizzazione, la cattiva coscienza, la solitudine, il risentimento. La piena «sovranità» dell’individuo, dal momento che è l’individuo a scegliere, a decidere, a comandare, corrisponde alla sua piena e completa alienazione. Diversamente dalla nevrosi, patologia di un capitalismo trapassato, la malattia del XXI secolo si manifesta nella depressione, resistenza passiva e individuale alla «mobilitazione generale», all’ingiunzione all’attività, a fare progetti, a investirsi: impotenza ad agire, impotenza a decidere, impotenza a intraprendere dei progetti"

martedì 1 ottobre 2013

E MENO MALE

Il grande Bode Miller, quattro volte campione del mondo e una olimpico, (che ho avuto la fortuna immeritata di vedere in allenamento e in gara sulla Gran Risa e la Sas Long), ha dichiarato che la legge antigay russa è una vergogna e - cosa ben più importante - non è possibile chiedere a un atleta di tacere. Dopo le unghie arcobaleno di Emma Green e Moja Hjelmer, atlete svedese ai mondiali di atletica di Mosca, censurate dalla IAAF, voglio proprio vedere se hanno il coraggio di non dare il visto a Bode in occasione delle Olimpiadi invernali di Sochi (che sta sul mare, giova ricordarlo).




OPERE DA TRE SOLDI


SOKOLOV SUL MANIFESTO




1 ottobre, il Manifesto, Marconista

Il caso Moro è recentemente tornato attuale a causa della proposta di istituire una nuova Commissione Parlamentare di Inchiesta e della decisione della Procura di Roma di riaprire un fascicolo sul rapimento dell’allora presidente della Democrazia Cristiana. L’ex giudice Ferdinando Imposimato, autore di lunghi studi sulla vicenda ai quale si sono richiamati i due parlamentari del PD firmatari della proposta di legge per la Commissione, Gero Grassi e Giuseppe Fiorono, sostiene da tempo che nel delitto Moro abbiano avuto un ruolo primario forze esterne e, in particolare, il KGB. Come altri prima di lui, si è concentrato sulla figura di Sergej Sokolov, uno studente sovietico che guinse in Italia pochi mesi della strage di via Fani con una borsa di studio in Storia del Risorgimento e che frequentò anche alcune lezioni di Aldo Moro alla “Sapienza”. Lo stesso sarebbe tornato in Italia nel 1981 come corrispondente della Tass, per poi comparire nelle liste dell’Archivio Mitrokhin, rapporto Impedian N° 83 del 23 agosto 1995 dove si dice che tale Sergej Fedorovich Sokolov, nato il 5 giugno 1953 [dove?], è stato un ufficiale del KGB “di comprovata attendibilità, con accesso diretto ma parziale”, e corrispondente della Tass a Roma dal 1981 al 1985.
Al di là del fatto che essere un membro dei servizi di sicurezza sovietici non comporta il necessario coinvolgimento della struttura di appartenenza a un complotto internazionale, prima di qualsiasi discussione sarebbe utile individuare con certezza la persona di cui si parla. La storia del KGB è piena di Sokolov: in una raccolta neanche tanto voluminosa  di documenti sulla Ljubjanka, già sede del KGB [330 pp., Mosca 1997] sono presenti tre Sokolov, P.N., Ja.P. e I.I. e altri quattro in una successiva [Mosca 2004], uno senza iniziali, un A.G., un P.A. e un F.V. In tutto, sette Sokolov che hanno avuto a che fare con i servizi, dei quali nessuno è certamente Sergej. Dunque, Sokolov è un cognome molto diffuso in Russia, così come lo è il nome Sergej. Per individuare con certezza una persona in caso di piena omonimia di nome e cognome, l’uso russo fornisce come parte integrante del nome anche la paternità, o patronimoco. Se il Sergej dell’archivio Mitrokhin è lo stesso che nel 1978 frequentò le lezioni di Moro, intanto per cominciare il patronimico deve coincidere. Secondo quanto si legge nel libro “Doveva Morire”, edito da Chiarelettere e scritto da Imposimato insieme a Sandro Provvisionato, il Sergej [Fedorovich?] Sokolov studente che frequentò le lezioni di Moro nel 1978, in patria si occupò del notissimo dissidente Andrej Sacharov e di sua moglie Elena Bonner, che visitò più volte a Gor’kij (oggi Nizhnij Novgorod) durante gli anni dell’esilio. Ecco quanto riportato a p. 230:

“Nell’estate del 1985 il governo di Mosca è fortemente preoccupato del fatto che l’attenzione dei media di tutto il mondo sia puntata sul destino dell’intellettuale Andrej Dmitrevic Sacharov, l’emblema stesso del dissenso all’interno dell’impero sovietico. Il compito di controllare l’intellettuale e sua moglie, Yelena Bonner, viene affidato a un ufficiale del KGB, proprio Sokolov, che incontra Sacharov nell’ospedale dove è ricoverato, al confino di Gor’kij”.

La figura di questo ufficiale è messa in cattiva luce sostenendo che incaricò i medici di nutrire in modo coatto Sacharov durante uno sciopero della fame e che in seguito propose un accordo allo stesso fisico sovietico: permettere a lui e alla moglie di andare negli Usa per vedere la famiglia a patto che non rilasciassero dichiarazioni pubbliche. Ebbene, anche il Sokolov che si occupò di Sacharov si chiama Sergej, ma il patronimico comincia con la lettera I [Ivanovich?]. Inoltre, secondo le memorie dello stesso dissidente, quel rapporto sembra essere più complesso. Anzitutto, Sergej I. Sokolov era un agente del KGB già nel 1973. Scrive Sacharov:

“Nei primi giorni di novembre [del 1973] Ljusia [Elena Bonner] ricevette una citazione che la convocava in veste di testimone a Lefortovo [dove si trova la sezione istruttoria del KGB; a Lefortovo c’è anche il carcere istruttorio, tecnicamente definito isolamento istruttorio]; la citazione le ingiungeva di presentarsi dal giudice istruttore Gubinskij. Prima dell’interrogatorio la conversazione venne condotta da un certo Sokolov (ora pensiamo si trattasse del capo della sezione locale del KGB; in seguito lo incontrammo varie volte a Gor'kij)”.

Se questo è il Sokolov nato nel 1953, nel 1973 aveva 20 anni. Chi conosce il funzionamento dei servizi sovietici sa che è impossibile che a quell’età si potesse essere già a capo di una sezione locale degli stessi, o avere la responsabilità di una dissidente del livello di Sacharov e Elena Bonner. Più avanti nelle sue memorie, pubblicate in Italia da Sugarco nel 1990, Sacharov riprende il discorso [pp. 707-708]:

“Il mattino del 5 settembre [1985] arrivò [a Gor’kij] inaspettatamentee un inviato del KGB dell’URSS, S.I. Sokolov. Probabilmente era direttore di uno degli uffici del KGB incaricati di seguire il mio caso e quello di Ljusja. Nel novembre del 1973, prima che Ljusja fosse interrogata da Syscikov, Sokolov aveva usato con lei, nel corso di un ‘colloquio’, accenti persuasivi. Nel maggio del 1985 era venuto a trovarci per parlare con me e Ljusja (separatamente). Con me era stato assai duro, voleva convicermi dell’assoluta inutilità dello sciopero della fame allo scopo evidente di costringermi a interromperlo”.

Tre sono le cose importanti di questo passaggio: la prima è che il Sokolov che viene a trovare Sacharov nel 1985 è lo stesso di 12 anni prima. La seconda è che egli non ordinò l’alimentazione coatta, ma cercò di dissuadere Sacharov a continuare lo sciopero della fame. Tanto che quando il fisico premio Nobel per la Pace parla nel suo libro di alimentazione forzosa, non fa alcun riferimento a Sokolov. La terza riguarda l’anno: l’11 marzo 1985 venne eletto segretario generale del CC del Pcus Michail Sergeevich Gorbachev che diede il via all’ultimo tentativo di riforma del sistema sovietico, noto come perestrojka. Sokolov giunse a Gor’kij su incarico dello stesso Gorbachev per contrattare con Sacharov il viaggio all’estero di sua moglie e, eventualmente, quello di Sacharov stesso, al quale chiese esplicitamente una sola condizione vincolante: non rivelare i segreti sugli armamenti nucleari sovietici che il dissidente conosceva perché tra i padri della bomba termonucleare sovietica, cosa per la quale era stato insignito in passato per ben tre volte dell’onorificenza di eroe del lavoro socialista.
            Per concludere, prima di ogni altra possibile discussione sul presunto coinvolgimento del KGB nel caso Moro, è bene individuare con precisione il Sokolov di cui si sta parlando. Dai riscontri oggettivi, infatti, appare molto probabile che il borsista sovietico e l’agente dei servizi siano due persone diverse.

lunedì 30 settembre 2013

Κι αν τα μάτια σου -- Χάρις Αλεξίου Νίκος Πορτοκάλογλου


GIORNATE EUROPEE DEL PATRIMONIO

A Livorno, in occasione delle Giornate Europee del patrimonio (28-29 settembre 2013) il Consolato Onorario Greco della città, l'Archivio di Stato, il ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, la Chiesa degli Armeni, l'associazione Guide Storiche di Livorno, il centro culturale Giorgio Caproni e con il patrocino dell'Ambasciata di Grecia in Italia, è stato presentato il libro di Marconista (che davvero non poteva chiedere di più) "Camicie nere sull'Acropoli".

Ecco un breve reportage fotografico.


Il Console onorario greco Giangiacomo Panessa 

Il direttore dell'Archivio di Stato di Livorno Massimo Sanacore


Il direttore con Mauro Faroldi, storico e giornalista




L'intervento dell'Assessore alla Cultura di Livorno Mario Tredici






Faroldi