giovedì 16 gennaio 2014

IL PAESE DEL FINE PENA MAI


(fonte, il fatto quotidiano)

Preferisce l’eutanasia alla morte in carcere. Vincenzo Di Sarno ha 35 anni e un tumore che in cella, sostiene, non gli può essere curato come si deve. Da oltre quattro è recluso nel carcere di Poggioreale a Napoli per una condannato a 16 anni per omicidio. In una lettera, ha chiesto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di concedergli l’eutanasia, dopo che più volte ha chiesto la grazia. “Mio figlio non ce la fa più a vivere in queste condizioni, – spiega Maria Cacace, la madre che lancia un ultimo appello a Napolitano: “Gli conceda la grazia prima che sia troppo tardi”.
Di Sarno è stato ritenuto colpevole di omicidio. Un assassinio maturato durante una lite con un extracomunitario, scoppiata nei pressi della stazione di piazza Garibaldi, a Napoli, mentre aspettava un pullman che lo avrebbe portato a casa, nel Vesuviano. La condanna è stata confermata dalla Corte di Appello: ora si attendono le decisioni della Cassazione a cui la famiglia Di Sarno si è rivolta lo scorso mese di novembre.
Il giovane è affetto da un tumore cervico-midollare che lo sta consumando e che, per la sua gravità, richiede controlli e cure assidue. Ha già subito due interventi chirurgici (alla testa e alla colonna vertebrale) che, però, non hanno debellato il male. “Era un ragazzone da 115 kg, alto 1,85, – fa sapere Maria – adesso ne pesa solo 53. Le cure di cui ha bisogno non gli possono essere praticate in carcere. Da madre disperata chiedo al presidente di concedergli la grazia, prima che faccia la stessa fine di Federico Perna (il 34enne morto a Poggioreale lo scorso mese di novembre,ndr)“. “Napolitano – aggiunge Maria Cacace – conosce le condizioni di mio figlio, sa come l’ha ridotto la malattia, l’ha visto durante una sua visita a Napoli. Vincenzo non può restare in carcere, ha bisogno continuamente di cure”.
Circa 15 giorni fa è stato trasferito nel padiglione San Paolo del carcere, dove gli possono praticare le cure in maniera più agevole. Ma, secondo Maria, questo non basta. Anzi, da allora, le sue condizioni di salute addirittura sono peggiorate“Non sta più mangiando, – dice ancora Maria – sono molto preoccupata per la sua sorte perché non so se stia rifiutando il cibo per protesta o se, come temo, per l’inappetenza determinata dalla malattia. Bisogna fare presto, altrimenti morirà”

mercoledì 15 gennaio 2014

CARIOTI SU INTELLETTUALI E ISRAELE




Antonio Carioti sul sito del Corriere. Importanti segnalazioni e una materiale di discussione.


La questione ebraica resta aperta, più viva che mai, controversa quanto i giudizi che abbiamo udito in occasione della morte di Ariel Sharon. E la complessità di questi temi può dare adito a indebite semplificazioni, anche da parte di studiosi attenti e raffinati. Enzo Traverso, nel saggio La fine della modernità ebraica (Feltrinelli), coglie e deplora una svolta conservatrice nell’orientamento prevalente degli intellettuali ebrei: un tempo, scrive, erano «la coscienza critica» dell’Occidente, ne illuminavano il lato oscuro; oggi, allineati in maggioranza al sionismo e all’impero americano, ne sorreggono «il dispositivo di dominio». Invece lo storico israeliano Shlomo Sand, nel libro Come ho smesso di essere ebreo (Rizzoli), afferma che «non esiste un retaggio culturale specificamente ebraico all’infuori di quello religioso», contestando quindi la stessa ragion d’essere dello Stato in cui vive, dipinto come una «etnocrazia» sedicente laica, ma retta su un’impalcatura confessionale.
Insomma, Traverso rimpiange un ebraismo (ateo e progressista) che secondo Sand non è mai esistito in quanto tale. I due autori condividono però la critica radicale a Israele, di cui denunciano l’atteggiamento oppressivo verso i palestinesi e l’uso strumentale della Shoah. Posizioni simili a quelle espresse da Moni Ovadia e Judith Butler nello speciale che l’ultimo numero della rivista «MicroMega» dedica al sionismo. Eppure Traverso ammette «la vitalità della nazione israeliana odierna». E Sand riconosce che l’identità culturale plasmata dal sionismo «si è consolidata con una rapidità stupefacente», cogliendo un successo che «non ha precedenti nella storia». Ma se l’impresa è stata titanica, si può davvero pensare che le sue fondamenta siano così fragili e malsane?
Popoli e nazioni sono in realtà creature politiche assai più che culturali. E alle origini dell’attuale identità ebraica, a parte il vincolo religioso, troviamo appunto due giganteschi fattori storico-politici. Da un lato la memoria di una persecuzione sterminatrice su basi razziali, che prendeva ugualmente a bersaglio l’osservante più ortodosso e il miscredente più secolarizzato; dall’altro il persistente rifiuto arabo nei riguardi d’Israele, in parte comprensibile, ma certo destinato a suscitare nella controparte una non meno comprensibile mentalità da fortezza assediata. Addebitare tutte le responsabilità del conflitto al «pregiudizio coloniale» dei sionisti, fino al paragone abnorme con il Sudafrica dell’apartheid, evocato da Traverso come da Sand, significa sbilanciare il giudizio in modo inaccettabile.
Quanto alla svolta occidentalista del pensiero ebraico, lo stesso Traverso ne illustra una delle ragioni, osservando che la cultura politica anglosassone «fondata sull’esaltazione del diritto e delle libertà individuali» ha offerto agli intellettuali israeliti (già nell’Inghilterra vittoriana, ma poi soprattutto negli Stati Uniti) opportunità d’integrazione sconosciute altrove. Ma c’è un altro elemento, che Traverso non cita: la violenta repressione antisemita scatenata nel dopoguerra da Stalin, con il pretesto della lotta al sionismo, e proseguita in forme meno cruente dai successori del despota sovietico. La rottura con il comunismo divenne così per molti ebrei inevitabile, anzi doverosa.
Ben consapevole di tali precedenti si mostra Fabio Nicolucci, che nel libro Sinistra e Israele (Salerno) esorta le forze progressiste europee a perseguire «una identificazione politica e culturale» con lo Stato ebraico, riscoprendo la radici socialiste del sionismo. A suo parere esiste un’alternativa forte all’indirizzo neoconservatore del premier Benjamin Netanyahu, che danneggia «gli interessi nazionali di Israele di più lungo periodo». Nell’ambito del sionismo, sostiene Nicolucci, una linea di maggiore apertura verso i palestinesi «riflette il consenso maggioritario degli apparati di sicurezza». E la sinistra dovrebbe adoperarsi, in sintonia con l’amministrazione americana, per renderla vincente. Non tutto persuade in questa analisi: piuttosto rituali e forzati appaiono per esempio i richiami di Nicolucci agli scritti di Antonio Gramsci. Ma almeno qui siamo sul terreno della politica, comunque preferibile alle fughe nella nostalgia o nell’utopia proposte dai libri di Traverso e di Sand.
Enzo Traverso, La fine della modernità ebraica. Dalla critica al potere, Feltrinelli 2013, pagine 191, € 19
Shlomo Sand, Come ho smesso di essere ebreo, traduzione di Francesco Peri, Rizzoli 2013, pagine 153, € 15
Fabio Nicolucci, Sinistra e Israele. La frontiera morale dell’Occidente, Salerno 2013, pagine 280, € 12,90
Sionismo/antisionismo, dossier con interventi di Gianni Vattimo, Furio Colombo, Moni Ovadia, Judit Butler, Avishai Margalit, in «MicroMega», n. 9/2013

lunedì 13 gennaio 2014

QUEL GIORNO

Quel giorno di un anno fa, il 14 gennaio, la morte di Prospero Gallinari ha avuto una forza dirompente. Una forza rara in grado di cambiare prospettiva e senso di sé, capace di travolgere  e stravolgere progressivamente, accumulando giorno dopo giorno, sopra il ricordo, la consapevolezza di quanta storia sia passata per Coviolo durante i funerali. Storia passata per rimanere. Storia di questo paese,. Che sia accettata o meno da chi lo dirige, da chi prenota le fiction surreali che, al contrario, tramonteranno prestissimo in un oblio neanche stentato. 
Ci siamo mischiati, quel giorno a Coviolo,  ognuno per come poteva e per chi poteva. Quel giorno abbiamo testimoniato che il terrorismo è una invenzione. Eravamo lì con nome e cognome, il volto scoperto, i figli accanto, la Digos all'ingresso. I nostalgici? I nostalgici. I reduci di una guerra persa? Forse. Ma quanto carcere c'era, quel giorno a Coviolo. E quanto carcere è rimasto a casa, quel giorno. Perché per questo Stato quella guerra, dopo 35 anni, non è ancora finita. Non voglio parlare, oggi, di libri e dietrologie. Durante l'ultimo anno (e non solo) gli abbiamo dato ripetuti colpi. 
Voglio ricordare una stretta di mano, tra un settantenne e una non ancora diciassettenne. Sotto i miei occhi. E di un regista che ci ha ripreso tutti e tutte, e messo in un film.