martedì 24 dicembre 2013

UNIVERSITA' PUBBLICA LAVORO PRIVATO CONCORSI NAZIONALI






L’Università italiana riparte da zero. Sarà la quarta o quinta volta da quando ero studente, trenta anni fa. Quando studiavo esistevano due ordinamenti: quello fascista della riforma Gentile (non malaccio, anzi, tosto) e il cosiddetto Nuovo Ordinamento, con il quale lo studente aveva maggiore libertà nella scelta degli esami. Oggi ne esistono quattro. Altri quattro, differenti dai primi due e chiamati: vecchissimo, vecchio, nuovo e nuovissimo. Il nuovissimo è partito quest’anno. E quest’anno, per la prima volta, si sono svolti i “concorsoni nazionali” per l’attribuzione dell’abilitazione a professore associato e ordinario, dopo che la figura del ricercatore a tempo indeterminato è stata congelata dalla riforma Gelmini. Partiamo dai concorsi e diciamo che l’impresa è stata complessa e lunga: le commissioni nazionali hanno avuto quattro proroghe per la conclusione dei lavori e all’oggi 35 su 184 hanno sforato anche l’ultima deadline del 30 novembre 2013. Si attende un nuovo decreto ministeriale in proposito ma ancora (trasparenza) non si sa quali sono le commissioni in ritardo. Nei settore umanistico – si dice a volte con una certa ragione – i giudizi sono un po’ meno legati a ragioni scientifiche rispetto a, che so, fisica o matematica. Perché qui “2+2 fa sempre 4” mentre in storia ognuno se la suona e se la canta. Tralascio il discorso sulla Storia per ovvi motivi e vengo a un esempio concreto, in particolare il settore “Fisica della materia”. In questo, come in tutti i settori disciplinari messi a concorso, ogni candidato poteva presentare “telematicamente” (in pdf) un numero massimo di pubblicazioni per associato od ordinario: rispettivamente 12 o 18. A sua scelta, tra tutte le pubblicazioni avute al momento della scadenza della domanda (31 ottobre 2012). A Fisica, però, le pubblicazioni sono state “normalizzate”. Che significa? Significa che sono state rapportate all’età del candidato. Più si era giovani, più “pesavano”. Il ragionamento (accettato dal ministero dell’Istruzione) è stato il seguente: se uno a trent’anni ha presentato 12 pubblicazioni, a 50 ne avrà 12N. Se ha già 50 anni, il numero diventa 12N-M (di meno insomma). Ma come? Se il numero era fisso, ossia stabilito a priori, un sessantenne con 200 pubblicazioni, se voleva concorrere per ordinario poteva comunque presentarne 18. Come si fa a “normalizzare” un numero prestabilito? Il sistema adottato ha portato a risultati assurdi, tanto che in un caso a me noto (ma ce ne sono altri?), è diventato professore associato un neolaureato (cinque anni fa), mentre il ricercatore che seguì la sua tesi, NO! Che significa tutto ciò? A parte il divertimento intellettuale che si prova, cercando di entrare nella testa di chi ha inventato e approvato questo sistema, mi sembra che lo stesso si presti a fondati ricorsi presso tribunali amministrativi, ricorsi che avrebbero grandi possibilità di essere accolti. Se poi questi si estendessero a macchia d’olio ad altri settori, anche umanistici, dove qua e là si leggono giudizi fa a pugni con qualche altro, si rischi di vedere annullato tutto il concorsone e con esso rimandato il più che necessario ricambio generazionale nei nostri Atenei.
“La ricerca, come ben sappiamo, non si pratica nella Nuova Università e i libri tradizionali sono banditi”. Così ha scritto qualche giorno fa sul Corriere della Sera Sebastiano Maffettone, professore di Scienze Politiche alla Luiss. Non solo la figura del ricercatore a tempo indeterminato – come ho già ricordato – è stata congelata (il ruolo, si dive, va ad esaurimento), ma i corsi si basano da qualche anno su un calcolo (anche qui del tutto teorico, una specie di “normalizzazione” dello studio) di ore e pagine di studio che dipendono dal “peso” dell’esame (ossia da quanti crediti dà allo studente). Il massimo che si può onestamente raggiungere sono 300-400 pagine per gli esami medio grandi. Dunque, o si usano libricini scritti ad hoc (che nei concorsi poi vengono giustamente definiti “divulgativi”, e ottengono in automatico un giudizio negativo), o le dispense. I libri veri, quelli tradizionali, le monografie insomma, per legge non possono praticamente essere proposte. Contestualmente un nuovo organismo, chiamato ANVUR, verifica ogni cinque anni lo stato della Ricerca nell’Università italiana attraverso parametri che riguardano le pubblicazioni, la partecipazione a convegni, gruppi di studio, l’internazionalizzazione ecc. In base al risultato, il ministero distribuisce i fondi (anche per assumere nuovi professori). Quindi, da una parte si chiede ai docenti di studiare e pubblicare monografie, ma dall’altra si stabilisce che gli studenti saltino la parte fondamentale della loro preparazione universitaria: il contatto con i libri, ossia con il risultato concreto di una ricerca.
“Il diritto allo studio dei mediocri non garantisce il posto di lavoro”, scriveva sempre sul “Corriere” Roger Abravanel, un manager autore del best-seller “Meritocrazia”, per il quale l’università deve preparare al mondo del lavoro, formare il tecnico e non l’inividuo. Per lui la meritocrazia, per esempio le borse di studio, devono servire a “mandare più giovani sul mercato del lavoro, in tempi rapidi, e creare degli incentivi che rompano il tabù della «laurea vera».” Laurea vera? Tabù? Tempi rapidi? Il capitalismo è in grave crisi e ha bisogno di mano d’opera. Mano d’opera intellettuale, scarsamente preparata al ragionamento, ma capace di fare una sola cosa, bene o discretamente. È la fabbrica fordista della mente o, se si preferisce detto in modo più scientifico, il “capitalismo cognitivo”, per usare la definizione della scuola economica negriana. Non credo ai complotti, ma qui c’è tanto di quel lavoro sotterraneo che Steven King ne farebbe un buon libro. Da non studiare negli Atenei, ovviamente. 

lunedì 23 dicembre 2013

RAINEWS24: TECHNICOLOR CHIUDE (Vittorio Storaro)

Ne avevamo parlato su questo blog in tempi sospetti ma non ancora definiti. La Technicolor, una delle più importanti case di sviluppo e stampa cinematografica, chiude.[http://primadellapioggia.blogspot.it/2012/01/technicolor-licenzia-e-chiude.html]

La Technicolor, come si vedrà dal filmato, ha fatto parte della mia famiglia da quando sono nato. Mio padre ci ha lavorato per 40 anni, l'ha occupata negli anni 70, è diventato direttore di produzione, è stato accolto da un applauso pochi giorni fa dai suoi ex colleghi in lotta contro la chiusura. Storaro, intervistato qui da RaiNews24, lo cita.
Il negativo di "C'era una volta in America", appena ripulito dopo l'esondazione dell'Aniene, ha passato una notte nella nostra casa. Sergio Leone non ha mai saputo di questo incidente, che mise a rischio dieci anni di lavoro e uno dei più grandi film della storia del cinema. Ormai lo si può dire.

venerdì 20 dicembre 2013

CHODORKOVSKIJ LIBERO

Michail Chorodkovskij, il cinquantenne ex capo della holding petrolifera Yukos, in carcere in Russia da ormai dieci anni, è stato graziato dal presidente Vladimir Putin e liberato la mattina del 20 dicembre dal campo di lavoro della cittadina di Segezha, nella Repubblica di Carelia, non lontano dalla Finlandia. La notizia della liberazione di Chodorkovskij, considerato un prigioniero di coscienza da molte organizzazioni per i diritti civili in Russia e all’estero, tra cui l’importante “Memorial”, il Comitato per i diritti umani dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa e Amnesty International, è giunta del tutto inattesa. Si aspettavano, al contrario, nuove accuse e un altro processo, dopo che nel corso della detenzione Chodorkovskij aveva subito una nuova pena  fino al 2017 in seguito a un secondo giudizio per furto di capitali.
La prima condanna a nove anni per l’allora giovane imprenditore, arrestato nell’ottobre del 2003 nel contesto di un’ampia operazione contro oligarchi ostili al presidente Putin, fu per evasione fiscale e associazione a delinquere finalizzata al controllo delle privatizzazioni, che negli anni Novanta del secolo scorso furono il mezzo usato da qualche migliaio di uomini nuovi, in generale trentenni, per una rapida scalata che li mise in grado di muovere una vasta parte dell’economia post-sovietica. Una diaspora al loro interno sulla figura del nuovo presidente li divise in “buoni” e “cattivi” o, anche, “vincenti” e “perdenti”. Mentre i primi sostennero Putin, ricevendo incarichi prestigiosi all’interno dell’amministrazione, o un benevolo lasciapassare per l’estero come il famoso presidente del Chelsea Roman Abramovich (premiato anni dopo con un governatorato per la sua rinnovata fedeltà), altri morirono in circostanze violente, costretti all’esilio o messi in carcere. Il più noto esule, Boris Berezovskij, che durante la presidenza di Boris Eltsin era stato l’uomo più influente del paese (fu direttamente coinvolto nella rielezione di Eltsin del 1996 e sostenne con vigore la soluzione pacifica della questione cecena), è morto a Londra il 23 marzo scorso. Si è dissolto così un centro estero in grado di coagulare l’opposizione militante nei confronti del sistema putiniano, una specie di governo in esilio che ricordava i tanti esecutivi più o meno “sopportati” (e poi messi da parte per questioni di Realpolitik) proprio a Londra durante la seconda guerra mondiale. Da allora la figura di Chodorkovskij ha perso importanza, ma questa liberazione non può non essere messa in stretto collegamento con la prossima apertura delle olimpiadi invernali, a Sochi fra 50 giorni. Dopo le annunciate defezioni di importantissimi capi di stato e di governo (François Hollande, Angela Merkel e Barak Obama per fare solo i nomi più noti) come protesta contro la legge che discrimina gli omosessuali in Russia, arriva un gesto distensivo e rassicurante, anche se ingannevole. Se si resta ai numeri, Chodorkovskij in realtà ha scontato quasi tutto. In pratica, la condanna inflittagli con il primo processo, più un anno e due mesi. Tenendo conto del cumulo delle pene e dei benefici di legge, sarebbe stato liberato nell’agosto del 2014. Non un grande sforzo, dunque.
Quindi, a dispetto degli interventi per una sua liberazione anche di personaggi pubblici di primissimo piano (tra loro Elie Wiesel e la vedova di Andrej Sacharov, Elena Bonner), la Federazione Russa ha tenuto il punto a sufficienza per dimostrare con chiarezza – ed è una discontinuità rispetto al passato sovietico quando invece la mobilitazione internazionale per i prigionieri di coscienza giocava un ruolo importante – che alla fine dipende tutto solo e sempre dalla volontà del Cremlino e dal suo tornaconto immediato. Perché il rilascio di Chodorkovskij è comunque un punto a favore di Putin, anche se si aprono scenari interessanti. La liberazione è avvenuta sulla base di una richiesta di grazia e si dovranno valutare le condizioni dietro le quale è stata concessa. Se molti, tra gli oppositori del presidente, vedono nell’ex prigioniero un naturale candidato alle elezioni presidenziali, queste sono ancora lontane (2018) ed è ancora presto per ogni illazione. Il fatto, però, che si possa ritirare a vita privata è da escludere vista la mobilitazione in suo favore di questi anni e le richieste che sicuramente arriveranno per una sua presenza attiva nella vita politica o almeno sociale del paese; nel 2006, del resto, dal carcere Chodorkovskij stesso si era candidato per le elezioni parlamentari, non avendo ancora perso i diritti civili.
Qualche giorno fa ci ha lasciato a Parigi Natal’ja Gorbanevskaja, una delle più note dissidenti del periodo sovietico, protagonista di una celebre protesta sulla Piazza Rossa contro l’invasione della Cecoslovacchia il 25 agosto 1968, che durante questi dieci anni aveva unito la sua voce a quella di tanti altri per la liberazione di Chodorkovskij. Mentre si trovava in un campo di lavoro, Joan Baez scrisse per lei una canzone che poi cantò in tutti i suoi concerti fino alla liberazione della donna. Il nome di Michail, invece, resterà per sempre legato a quello del grande compositore Estone Arvo Pärt, che nel 2009 gli ha dedicato la sua quarta, e finora ultima, sinfonia.

             

giovedì 19 dicembre 2013

CASELLI IN PENSIONE





Gian Carlo Caselli è andato in pensione.

Ecco cosa pensa l'avvocato e scrittore Davide Steccanella - autore de "Gli anni della lotta armata".


Gian Carlo Caselli: fu tutta gloria ? (by stekka)

22 febbraio 2012 alle ore 16.53
Oggi che accompagnato dai più  intensi ed accreditati peana va in pensione il più famoso Magistrato italiano, vorrei provare a rivedere con dati alla mano, e senza preconcetti, il “mito” che da tanti anni circonda questo Giudice che come sempre si scrive "ha ottenuto straordinari successi prima contro il terrorismo a Torino e quindi contro la mafia a Palermo".
A Palermo i risultati ottenuti dalla Procura da lui diretta non sono poi stati, a ben vedere, così “brillanti”, visto che le grandi inchieste anti-mafia che portarono alla disintegrazione della cupola dei primi anni ottanta si debbono al precedente pool di Falcone e Caponnetto mentre le indagini sulla successiva cupola responsabile degli omicidi Falcone e Borsellino furono affidate, per evidenti ragioni di competenza, ad altre Procure.
Le grandi inchieste della Procura Caselli furono infatti principalmente rivolte alla classe politica collusa ossia al celeberrimo "concorso esterno" (reato di dubbia tipicità), solo che nei casi più eclatanti, ossia quelli di Andreotti e Mannino, gli esiti processuali non paiono avere troppo premiato gli sforzi intrapresi.
E’ ben vero che il buon Travaglio, e tanti come lui, non perdono occasione per esaltare ad ogni piè sospinto la celebre prescrizione andreottiana ante legge La Torre, a riprova della antica mafiosità (seppure a intermittenza temporale…) del divo Giulio, ma sta di fatto che la invocata condanna non ci fu, e questo è quello che per una Procura, che non è Travaglio né “annozero”, deve contare, per valutarsi il risultato finale di cotanto impegno.
Ma alla trincea della anti-mafia di Palermo il Dr. Caselli ci era giunto soprattutto sull’onda dei grandi meriti nella precedente trincea torinese degli anni di piombo dove invece, si dirà, i risultati processuali furono di ben altro spessore.
Ed in effetti era proprio lui quel giovane Giudice Istruttore (abrogata figura in qualche modo assimilabile all’odierno PM) che ebbe ad occuparsi prima delle Brigate Rosse e poi di Prima Linea, ossia delle due organizzazioni guerrigliere più significative degli “anni spietati” per usare il titolo di alcuni film-documentari realizzati qualche anno fa dal di lui figlio e di recente pubblicati in un libro dedicato a quelli solo di Torino (meno bello il libro dei documentari video, va detto).
Anche lì però, fermo restando il comprovato impegno, i meriti dei risultati ottenuti non paiono totalmente attribuibili alle sue capacità investigative, ma andiamo con ordine.
La prima operazione significativa contro le prime BR è del settembre 1974 (quindi dopo oltre 3 anni almeno di attività guerrigliera, sequestro del Giudice Sossi incluso) e si deve in realtà al generale Dalla Chiesa che utilizzò il secondo infiltrato (il primo era stato Pisetta) ossia il noto Frate Mitra, per stanare i due capi storici Curcio e Franceschini. Poco dopo quel fatto il nucleo speciale di Dalla Chiesa venne smantellato per essere riesumato in tutta fretta dopo lo choc del fatto Moro del 1978, ma negli anni di interregno i risultati raccolti dalla Procura di Torino furono invero modesti.
Si deve sempre al ritornato Dalla Chiesa il duplice “colpo” del 1980 del concatenato “pentimento” di Peci e di Sandalo che consentì di indebolire e di molto le BR e di sostanzialmente annientare Prima Linea (grazie al secondo pentito Viscardi), ma anche qui la abilità investigativa di Caselli non sembra avere avuto un particolare rilievo.
Peci ha raccontato che fu Dalla Chiesa a convincerlo a quella scelta dopo essere stato avvicinato in carcere da un maresciallo del suo nucleo speciale (Incandela) e Sandalo, come si sa, decise di pentirsi subito dopo essere stato denunciato dallo stesso Peci, il lavoro di Caselli fu dunque quello di verbalizzare ex post un pentimento già concordato prima.
Come si era arrivati all’arresto del Peci la tesi ufficiale da sempre sostenuta fu quella della mera “causalità”, ossia che i carabinieri del nucleo speciale si trovavano già sul posto perché impegnati ad arrestare il semi-sconosciuto piellino Mastropasqua.
Oggi siamo alle tante operazioni NO TAV e solo i successivi processi di merito diranno (forse) come stanno le cose, ma in mezzo a questo coro di magnificat mediatici sulla ineguagliabile abilità investigativa del Dr. Caselli una valutazione un po’ meno agiografica mi pareva potesse trovare un suo piccolo spazio.
Certamente criticabile invece la sua ultima sdegnata, ed anche un tantino supponente, pretesa abiura alla nuova agenda della corrente MD da lui fondata, causa pubblicazione di un peraltro bellissimo brano di Erri De Luca sul mito di Orfeo riadattato alla gioventù coinvolta nella grande rivolta mondiale degli anni 70, nonostante già detto pezzo fosse stato premesso da una presa di distanza del mittente. A seguito di ciò sembrano "saltate" tutte le previste presentazioni della nuova agenda di MD, ed anche questo, oggi che lo si saluta con tutti gli onori, va ricordato.




venerdì 13 dicembre 2013

IL BACIO OLIMPICO



EastJournal. Redazione
Attraverso twitter Viviane Reding, Commissario Europeo per la per la giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza nonché vicepresidente della Commissione Europea; fa sapere che sicuramente non andrà ai Giochi Olimpici Invernali di Sochi 2014 “finché le minoranze sono trattate così come sta avvenendo con l'attuale legislazione russa”.
I will certainly not go to Sotchi as long as minorities are treated the way they are under the current Russian legislation
— Viviane Reding (@VivianeRedingEU) 9 Dicembre 2013
La legislazione a cui si riferisce la commissaria è evidentemente la recente norma russa contro la “propaganda omosessuale”. La legge anti-propaganda gay è stata approvata dal parlamento russo quest'estate e sottoscritta da Putin, rendendola effettiva in tutta la Russia, il 30 giugno di quest'anno. Questa legge prevede pene economiche severe e incarcerazione per le persone partecipanti a qualsiasi manifestazione di propaganda omossesuale. Se le proteste vengono fatte via web questa legge prevede l'immediato oscuramento del sito e, qualora fosse supportato da una azienda, una multa che può arrivare fino ai 23 mila euro e la chiusura dell'azienda stessa per 90 giorni. L'applicazione di questa legge è lasciata arbitrariamente in mano alle forze dell'ordine già note per i casi di violenza nei confronti di persone omosessuali.
La norma anti-propaganda omosessuale può venire applicata anche agli stranieri, i quali oltre alle pene pecuniarie rischiano di essere incarcerati senza processo per 15 giorni ed espulsi dal paese. Per questo motivo preoccupazioni sono state avanzate da attivisti e associazioni LGBT riguardanti la sicurezza degli atleti e dei partecipanti alle Olimpiadi Invernali di Sochi 2014. E' stata inoltre lanciata una petizione online perspostare i giochi invernali da Sochi a Vancouver, petizione che ha raggiunto 174 mila firme.
Nonostante queste pressioni il Comitato per le Olimpiadi Invernali si è dichiarato soddisfatto delle rassicurazioni fornite dal governo russo tramite il suo ministro dello sport, Vitaly Mutko, che ha dichiarato “Nessuno vieterà ad uno sportivo con un orientamento sessuale non tradizionale di andare a Sochi. Ma se scenderà in strada ed inizierà a fare propaganda, naturalmente sarà poi chiamato a dover rispondere delle sue responsabilità”. Nel frattempo con decreto legge Putin ha vietato ogni manifestazione proprio nel periodo in cui si svolgeranno i giochi. In altre parole, gli atleti dovranno stare bene attenti a come si comportano o potranno rischiare delle ripercussioni. Anche comportamenti ormai considerati normali come un bacio, così come accaduto alle olimpiadi di Pechino 2008 tra il tuffatore Matthew Mitcham e il suo fidanzato potrebbero avere conseguenze negative.
La posizione della Commissaria Viviane Reding nei confronti dei Giochi Olimpici Invernali di Sochi 2014 è una novità nello scenarioeEuropeo. Per la prima volta un commissario prende una posizione così forte nei confronti della legge anti-propaganda omosessuale. Il messaggio che viene lanciato è che l'Europa non è solamente economia e finanza ma è anche difesa, protezione e supporto delle minoranze.

lunedì 9 dicembre 2013

CIAO CARLO



Apprendo con ritardo e grazie a Sandro Paddi.

Era da tempo malato, di una di quelle malattie che non danno scampo, Carlo Picchiura, morto ieri, come hanno subito riferito sui vari network alcuni suoi antichi “compagni di lotta”, ricordandone, con immenso affetto, e come è giusto che sia in questi casi, le qualità umane e di amico di “Picchi”, come lo chiamavano tutti loro.
Salvatore Ricciardi, che lo conobbe solo in carcere, e del quale parla lungamente nel proprio libro Maelstrom editato nel 2009 da Deriveapprodi pur chiamandolo sempre C., ricorda “i tanti anni condividendo la stessa cella e la sua passione per la montagna, gli uccelli e per la natura tutta” e Barbara Balzerani ha riferito su FB di una recente e bella giornata trascorsa insieme a sorseggiare quel vino che amava e collezionava, altri hanno scritto “per noi Picchi era come Prospero (riferendosi alla morte avvenuta nel gennaio di quest’anno di Gallinari)”, Mariella Altomare, sempre su Fb, oggi scrive “Conserverò sempre il ricordo della sua intelligenza illuminante e mai esibita. Ciao Carlo Picchiura rivoluzionario (Gigi)”, e così via…
Ma Carlo Picchiura, nato a Brescia ma cresciuto a Padova, è stato per la storia di quegli anni, i “suoi” anni, un combattente comunista tra i più tosti, anche se la narrativa di maniera, che da sempre si ferma ai soliti noti, ben poco di lui ci ha tramandato.
Già nei primi anni settanta è tra i principali militanti della “sezione” veneta di Potere Operaio dalle cui ceneri, come noto, nasceranno, dopo lo scioglimento del 1973, molti dei più significativi movimenti autonomi di una delle regioni più attive in quella successiva e generale insurrezione che avrebbe attraversato l’Italia nel finale del secolo scorso, ma lui decide, a differenza di altri, di entrare quasi subito nella più importante organizzazione armata, che aveva già posto in essere alcune eclatanti azioni di guerriglia urbana.
Alessandro Naccarato, deputato PD ed autore del libro “Violenze, eversione e terrorismo del partito armato a Padova” (ed. il Mulino, 2008), nel corso di una intervista rilasciata al Mattino di Padova del 30 novembre 2008 afferma che “Il primo gruppo veneto di qualità nella strategia eversiva è il patto tra i Gap di Feltrinelli, le Br e Pot Op, con la nascita della Brigata Ferretto tra Mestre e Padova. Là, secondo la testimonianza di un dirigente della colonna veneta delle Br, Michele Galati, militarono Carlo Picchiura, Susanna Ronconi, Pietro Despali, Ivo De Rossi, Giuseppe Zambon, Massimo Pavan, Roberto Ferrari, Carlo Casirati, Rossano Cochis e un tale di Verona soprannominato Sherif, poi identificato per Martino Serafini.
Esaurita la prima fase, il gruppo entra nelle Br e rafforza la colonna veneta costituita nel 1974, la cui direzione comprendeva Giorgio Semeria, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene e Fabrizio Pelli. La Brigata Ferretto fu quindi la prima esperienza di cooperazione tra militanti di Pot Op e militanti Br sul terreno della lotta armata”.
Secondo il pentito Fioroni invece avrebbe anche fatto parte del commando di brigatisti che il 17 giugno 1974 uccise i missini Mazzola e Giralucci nella sede padovana di Via Zabarella, ma sarà una delle tante “inesattezze” del “professorino”, giacchè in sede giudiziaria verrà appurato che il padovano presente (oltre a Ognibene, Pelli, Ronconi e Semeria) era Martino Serafini, e non lui.
Arrestato a Ponte di Brenta (insieme allo studente Pietro Despali) il 4 settembre del 1975, nel corso di un conflitto a fuoco seguito ad un posto di blocco, dove muore l’agente Antonio Niedda, in tasca gli vengono trovate due banconote relative ad una precedente rapina commessa alla banca di Lonigo insieme ad uno dei principali dirigenti delle BR Rocco Micaletto, ai tempi già ricercato e latitante. Condannato a 26 anni di reclusione dalla Corte di Assise di Padova il 1 giugno 1977, affronta quella lunghissima trafila degli speciali di quegli anni, da dove tuttavia continua imperterrito, unitamente ai detenuti del nucleo storico delle BR, la sua battaglia rivoluzionaria, che in quegli anni, come noto, si faceva anche dentro le carceri e non solo fuori.
Nel dicembre del 1980 infatti è tra i principali organizzatori della celebre rivolta di Trani scaturita dal sequestro D’Urso, che fu l’ultimo episodio significativo delle Brigate Rosse ancora unite prima delle definitive spaccature interne degli anni successivi, ma ancora nel 1985, e quindi dopo oltre 10 anni di dura prigionia, è tra i più convinti sostenitori della perdurante necessità della lotta armata contro lo Stato, rivendicando, dalle gabbie del processo alla colonna veneta arrestata parecchi anni dopo di lui, l’omicidio Tarantelli.
Su un sito dedicato ai “caduti della Polizia di Stato” viene definito da Gianmarco Calore “una gran brutta bestia, uno che fin dagli esordi ha aderito all’ala “dura” delle brigate rosse mettendosi in evidenza per la sua violenza e per la sua spietatezza.” ma oggi, sul sito Contropiano, si legge che: “Una malattia cattiva, la sla, se l’è portato via in pochi mesi. Schivo, quasi timido nei modi, tanto che non sembra possibile trovare una sua foto in Rete, ma dotato di grande determinazione, appassionato naturalista ed etologo, aveva dato un grande contributo al libro Politica e rivoluzione, uscito nel 1983 dal processo di Torino, firmato – come si usava allora – dai militanti presenti nel processo (Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Francesco Piccioni, Andrea Coi), ma opera collettiva con cui le Br prendevano le distanze teoriche dalle teorie del “Partito Guerriglia”.
Una vita in carcere, anche per lui, che lo aveva visto tornare in libertà solo negli anni ’90, quando una classe politica incapace di chiudere quella stagione con l’unico strumento giuridico all’altezza dello scontro – l’amnistia – scelse di aprire le porte ai prigionieri politici con la “legge Gozzini”; ovvero uno alla volta, in tempi quasi individualizzati, senza alcuna riflessione pubblica
Ciao Carlo, che la terra ti sia lieve.”


Da https://bellaciao.org/it/spip.php?article33393

EUROPA NON EUROPA

Santa Sofia a Kiev
In attesa di partire per Kiev (giovedì) per capire meglio cosa accade, questo pezzo di Giovanni Savino che non mi sembra male



Le proteste di piazza a Kiev e in Ucraina hanno attirato l'attenzione dei media: migliaia di persone scese per strada, chiedendo l'adesione al trattato di associazione con l'Unione Europea, secondo quanto possiamo leggere e vedere dai resoconti di giornali e tv.
In realtà, le contraddizioni in seno alla società ucraina sono molto più profonde di quanto viene mostrato in mondovisione, e sono meno semplici di un proclamato sentimento “europeista”. Una strana rivolta a favore di Bruxelles, in un momento in cui l'UE è in preda alle convulsioni della crisi economica, e con una crisi di prospettive su diversi piani senza precedenti nella sua storia.

La strada verso il partneriato
Il percorso intrapreso dal presidente Viktor Yanukovych verso la firma del trattato di associazione con l'Unione Europea sembrava dato per concluso, con addirittura convegni già convocati sugli effetti dell'accordo di Vilnius sul futuro dell'Ucraina. Prima dell'improvviso dietrofront, il 20 novembre, il premier Mykola Azarov confermava i preparativi della delegazione verso il summit di nove giorni dopo durante una conferenza stampa a San Pietroburgo, sostenendo di non aver cambiato piani. Il giorno successivo, giovedì 21 novembre, una nota del consiglio dei ministri di Kiev sospendeva i negoziati, senza però ritirare la partecipazione del proprio governo al vertice.
A causare il congelamento degli accordi sono intervenuti diversi fattori, essenzialmente basati sulle condizioni economiche dell'Ucraina, un paese che sembra non uscire mai dal tunnel imboccato dopo il crollo dell'URSS. Il ruolo della Russia e delle pressioni, politiche e non, esercitate da Vladimir Putin è stato importante fino a un certo punto, perché a farla da padrona sono state le controindicazioni sull'economia ucraina, anche perché, come affermato da uno dei negoziatori europei al Der Spiegel, “(Yanukovych) ha portato avanti più riforme del suo predecessore filo occidentale, Yulia Timoshenko”. La lettera dell'FMI al governo ucraino, in cui si chiedeva l'aumento del 40% delle tariffe energetiche, il congelamento degli stipendi e il taglio alle spese sociali, ricevuta il 20 novembre, è stata l'ultima goccia per la retromarcia. Già di per sé le procedure d'associazione all'UE prevedono la liberalizzazione economica e l'ulteriore apertura del mercato ai capitali stranieri, il che, unito alla possibilità quasi certa di perdere una quota importante delle proprie esportazioni verso la Russia (a cui sono diretti 1/3 degli scambi) ha fatto tremare il presidente ucraino, timoroso di un rovinoso peggioramento della situazione sociale e dell'instabilità politica. La difficoltà dovuta alla dipendenza energetica del paese, importante snodo del gas russo, ha contribuito poi a far recedere le velleità europeiste di Azarov e del suo governo.

I diktat europei e l'azione di Mosca
Le condizioni previste dal partneriato possono presentare degli scenari drammatici per milioni di lavoratori: il mercato sarà aperto a prodotti più economici e di maggiore qualità, con il problema, per il commercio ucraino, di non poter esportare i propri su altri mercati (Russia e paesi ex sovietici). L'introduzione delle norme europee, ad oggi non adottate in Ucraina, e le quote di mercato porterebbe alla chiusura di ciò che resta dell'apparato industriale; tutto ciò è apparso come una minaccia anche a quella parte della borghesia ucraina pronta a cambiare fronte, passando dall'orientamento verso Mosca a quello verso Bruxelles. La poca flessibilità dei funzionari europei nel negoziare condizioni più favorevoli per Kiev ha successivamente prodotto la crisi attuale. Yanukovych ha visitato anche Pechino in questi giorni, in cerca di prestiti e di condizioni favorevoli anche da parte della Cina, ormai sempre più presente a livello globale.
Mosca gioca su alcuni fattori fondamentali: il prezzo del gas e dei combustibili, la minaccia di introdurre il visto per i cittadini ucraini, e la chiusura del proprio mercato all'agricoltura e alla produzione alimentare di Kiev. In Russia lavorano oltre un milione e trecentomila (1.342.476, dati dell'Ufficio Immigrazione russo) ucraini, di cui circa 550 mila illegalmente, agevolati dall'assenza del regime di visti, e questi lavoratori costituiscono una percentuale importante della forza lavoro migrante, pari al 13,3%. In Italia ci sono circa seicentomila ucraini, di cui solo 153 mila regolarizzati. Le rimesse degli immigrati costituiscono il 25% del PIL nazionale, di questi il 9% dalla Russia e il 6,5% dall'Italia. Lo sfascio dell'era post-sovietica continua a colpire le campagne, ormai svuotate di uomini e donne, con un'incidenza più alta dell'emigrazione dalle zone tradizionalmente contadine dell'Ucraina occidentale. Anche le condizioni previste dall'adesione all'Unione Doganale con Mosca possono penalizzare il sistema ucraino: quel che è stato descritto per l'UE, nel caso di un ingresso di Kiev nella TS (Tamozhennyj Soyuz, Unione Doganale) potrebbe avere le stesse conseguenze: quanto sta avvenendo in Russia a seguito dell'entrata nel WTO con la crescita delle tariffe, la distruzione del sistema d'istruzione e la liquidazione dell'Accademia delle Scienze, e la privatizzazione della sanità sono un ulteriore monito alla classe operaia ucraina.

Rivoluzione o rivolta nazionalista?
Ad organizzare EuroMajdan, come è stata soprannominata la mobilitazione in corso nella centrale piazza (Majdan) dell'Indipendenza, sono state le forze all'opposizione del governo. Queste forze sono composte di oligarchi in rottura con il governo, sostenitori di Yulia Timoshenko (in carcere dal 2011), dal partito Udar (legato alla CDU tedesca) guidato dall'ex pugile Vitalii Klichko e da Svoboda, partito d'estrema destra e ultranazionalista. La presenza dei nazionalisti, raggruppati attorno alle bandiere di Svoboda e del “Blocco di destra del Majdan”, ha subito provato ad egemonizzare la piazza: azioni squadriste contro manifestanti “non conformi”, lo slogan di liberare le strade da omosessuali e liberali, e la volontà di procedere allo scontro. L'Assemblea nazionale ucraina – Autodifesa popolare ucraina (UNA-UNSO) ha guidato gli assalti di questi giorni, con l'aiuto di membri di Svoboda. Quest'ultima formazione ha una concezione molto particolare di Europa, visti i suoi rapporti con il Front National di Marine Le Pen e con i camerati italiani di Forza Nuova, una cui delegazione ha visitato recentemente Kiev.
Andriy Mokhnyk, vicepresidente di Svoboda, ha elogiato i tentativi di coordinamento compiuti dai forzanovisti e li ha invitati a partecipare alla marcia in onore dell'Esercito popolare ucraino, l'UPA, macchiatosi durante la Seconda guerra mondiale dei massacri di ebrei e polacchi nell'Ucraina occidentale ( ). Oleh Tyagnibok, capo indiscusso di Svoboda, si è reso più volte autore di dichiarazioni antisemite che hanno provocato lo sdegno della comunità ebraica e la sua esclusione, nel 2004, dalle liste di Nasha Ukraina. L'ultima azione organizzata dai giovani del partito di Tyagnibok prima delle mobilitazioni è stata l'irruzione violenta durante la presentazione di una raccolta di scritti di Trotskij, con la denuncia della propaganda “omosessuale e satanista” (il video della provocazione lo si trova qui ). Non è la prima volta che avviene, e la caccia ai sindacalisti scatenata dagli squadristi in questi giorni è un'ulteriore tremenda conferma dell'avanzata delle forze neofasciste in Ucraina e della loro impunità, agli occhi della polizia e dell'opposizione “occidentale” e “liberale” che ci viene descritta: durante le assemblee a più riprese si son sentiti discorsi in difesa della razza ariana, e il saluto “Slava Ukrainy” (Gloria all'Ucraina), tipico delle formazioni collaborazioniste del Terzo Reich, è riecheggiato più volte nel centro di Kiev. L'egemonia esercitata da queste formazioni rischia di diventare un pericolo anche per quella parte della gioventù scesa in piazza per un'associazione che rischia di non divenire mai realtà, come è il caso della Turchia, da 50 anni partner dell'Unione Europea.
Alle masse lavoratrici ucraine vengono presentate due possibilità: la prima è il mantenimento dello status-quo, con l'iperinflazione, la perdita progressiva di competitività e di efficienza e la crisi finanziaria. La seconda è rappresentata dalle riforme liberiste, dalla liquidazione dei settori chiave dell'economia, l'aumento esponenziale del costo di acqua, luce e gas, e dalla disoccupazione di massa. Un proverbio popolare nell'ex Urss dice quanto sia poco saggio scegliere tra la peste e il colera, e la via d'uscita della classe operaia è una sola: fermare il decadimento del proprio paese con l'occupazione e la riapertura delle fabbriche sotto il controllo operaio, e da questa partire alla riscossa e alla riconquista del futuro. Tra la peste dell'Unione Europea e il colera dell'Unione Doganale, c'è una sola medicina: il socialismo.

domenica 8 dicembre 2013

HUFFINGTON POST. EBREI ITALIANI NEL DODECANESO


OGGI, sull'HUFFI.



Rodi, Gruppo Carabinieri Reali – Ufficio Centrale Speciale. Dietro questa sigla si nascose per più di dieci anni, dal 1932 fino alla fine della seconda guerra mondiale, l’ufficio politico italiano di pubblica sicurezza, che riuscì a mettere sotto controllo praticamente l’intero Dodecaneso.
Su una popolazione di 130.000 abitanti furono raccolti circa 90.000 dossier, conservati oggi in un archivio unico e per il momento non accessibile agli studiosi, ma che si spera in un paio d’anni potrà fornire materiale in grado di aiutare a rileggere la presenza italiana nel Dodecaneso (1912-1947) e offrire nuovi spunti per la comprensione del fascismo.
Eirini Toliou, la direttrice del locale Archivio di Stato che ha acquisito i fascicoli, sostiene che fu Mussolini a volere questo stretto controllo. Probabilmente, nonostante un governo non disprezzabile, l’Italia non era stata in grado di ottenere la piena fiducia dei dodecanesini. Il luogo, inoltre, meta turistica di prestigio, si prestava allo spionaggio di stranieri residenti o di passaggio, provenienti dal Levante o dall’Europa, alleati o possibili nemici.
Scheda del nominato: così era chiamata la cartella contenente cognome e nome della persona controllata, paternità e maternità, data e luogo di nascita e residenza. In basso il numero di pratica, ossia il dossier, con l’indicazione dell’anno in cui era stato creato. Da quel momento, tutte le successive informazioni venivano allegate nella cartella originale. Persone normali si è detto, come Nichitas Zavolas, nato a Pigadia il 15 marzo 1897, o Teorodo Costantinidi fu Costantino, medico condotto, sul quale il 17 febbraio 1939 i carabinieri scrivono: “In passato fu un fervente irredentista ed era tenuto in molta considerazione dalla popolazione per l’opera che svolgeva a favore dell’unione di queste Isole alla Grecia”. Da diversi anni però (siamo nel 1939) “si disinteressa di politica ed affianca le autorità italiane dando a vedere di essere un leale collaboratore […]. Non è di razza ebraica”.

Cambiano i tempi. Siamo dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia. A Rodi è governatore Cesare Maria de Vecchi conte di Val Cismon, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Moderato verso gli ebrei, mantiene il Collegio rabbinico ma deve comunque gestire il formale controllo razziale. Ai cittadini viene fornito un questionario dove specificare, cancellando con un tratto di penna le indicazioni che non interessano, se si appartiene alla razza ebraica (padre o madre), se si è iscritti alla comunità israelitica o se ne professi la religione.
Gli ebrei e gli irredentisti sono tenuti sotto controllo. Si capisce. Ma anche gli amici, come il maggiore della polizia tedesca Rodolfo Kaufmann, numero di protocollo 1229 categoria 2=10=15=1938, o il presidente della compagnia di bandiera “Ala Littoria”, Umberto Klinger, l’onorevole Klinger, che partecipò all’impresa di Fiume e durante la seconda guerra mondiale diresse il 114º Gruppo Autonomo di Bombardamento, protocollo 4950 categoria 2.11.1698-1937. Con lui, i passeggeri dei voli per Rodi, tutti regolarmente segnalati.
Poi i nemici, certo, come Kermeth Arthur Noel Anderson, maggiore comandante le truppe inglesi in Palestina, protocollo 6880 categ. 2.10.41=1933, o il deputato “irakiano” Yassin Taymore (167:1.1-102:1939) e la certissima “agente servizio informazioni cecoslovacco” Margaret Kis, agganciata nel 1936.
Scoppia la guerra e il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, la cui giurisdizione non era stata estesa alle Isole Egee, diventa a Rodi il “Tribunale speciale per la difesa del Possedimento”, e condanna all’ergastolo Giorgio Chirmicali per aver “portato armi contro lo Stato italiano”. Prigioniero a Taranto, non può neanche ricevere un pacco dal padre Elias. Sono i Carabinieri dell’Ufficio Centrale Speciale a sconsigliarlo il 29 gennaio 1943, considerando il detenuto “non meritevole di alcuna agevolazione” a causa della gravità del crimine commesso.
L’epoca è complessa. Migliaia di ebrei fuggono dall’Europa, ma milioni restano. Alcuni vanno in Francia, altri negli Stati Uniti. Quelli cosiddetti “revisionisti”, convinti che la terra promessa sia la Palestina, si imbarcano come possono diretti verso Haifa. Le navi inglesi bloccano le rotte, affondano navi e carrette del mare entrano nelle acque del Dodecaneso, fanno naufragio. Il Possedimento accoglie i naufraghi. Alcuni ripartono subito, ma altri restano più a lungo, in improvvisati campi profughi. E sono messi sotto controllo. Nel frattempo l’Italia ha occupato la Grecia. I carabinieri collaborano con l’ufficio informazioni del Comando superiore delle Forze Armate dell’Egeo, si passano notizie e dati. Rosa Spiegel, di Bratislava, così come Eugene Reimann, non riceveranno mai alcune lettere inviate dalla loro città natale. Interviene la censura militare, blocca la corrispondenza, traduce e gira ai carabinieri, che aprono nuovi fascicoli. Sono decisi, fermi, ma alla fine trattano bene i profughi. Che nel 1942 vengono trasferiti in Italia, a Ferramonti, in Calabria, e il 16 settembre 1943 saranno i primi ebrei europei ad essere liberati dagli Alleati.
Qualche settimana fa lavoravo al “Titolario”, il vecchio indice che fecero gli italiani nel 1942 dell'archivio amministrativo assieme a Eleonora Papone, che collabora come me all'archivio di Rodi. Tra le tante voci, mi restava come sospesa la classe G del titolo IV: “tipografia, macchine tipografiche, gestione”. Una classe per la tipografia? Che senso ha, quando cose apparentemente più importanti come la costruzione di acquedotti o caserme sono una sottoclasse? Solo osservando le “schede del nominato”, ho capito l’importanza e la necessità di una voce separata dalle altre spese. La tipografia stampava le schede, a Rodi, in segreto. Gestire il potere, allora, osservare senza essere visti, significava avere anche il controllo totale di quelle macchine. 

martedì 3 dicembre 2013

SANTE NOTARNICOLA


Ai funerali di Gallinari prese la parola Sante Notarnicola, poeta. 
Oggi si ritrova indagato dalla procura di Bologna.



IL CORRIERE DELLA SERA E CEFALONIA

http://lettura.corriere.it/caduti-di-cefalonia-il-conteggio-infinito/

Se vi domandate quanti furono i militari italiani della divisione Acqui uccisi dai tedeschi nell’isola greca di Cefalonia, dopo l’armistizio del settembre 1943 e la loro decisione di non cedere le armi, le risposte possono essere le più varie. Spesso si dice che l’eccidio di settant’anni fa costò la vita a 9 o 10 mila uomini. Nell’introduzione alla riedizione del romanzo di Marcello Venturi Bandiera bianca a Cefalonia(Mondadori), che nel 1963 ebbe il merito di riportare l’attenzione sul massacro, Francesco De Nicola parla di 6.500 «trucidati». Cifre prive di riscontro, largamente esagerate.
La consultazione degli archivi militari italiani porta a ridimensionarle molto. Massimo Filippini prima, Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti poi, hanno riportato alla luce documenti da cui risulta che i caduti sull’isola furono tra i 1.650 e i 1.900, cui vanno aggiunti altri 1.300 militari periti nel naufragio delle navi che li trasportavano verso la prigionia in Germania. Nel recente saggio Camicie nere sull’Acropoli(Derive Approdi), dedicato all’invasione italiana della Grecia, Marco Clementi si attiene a un elenco da cui risultano 1679 uccisi in combattimento o fucilati dopo la resa, più 1364 affogati in mare.
La questione però si complica sul versante tedesco. In un libro sull’unità militare che perpetrò la strage, lo storico Hermann Frank Meyer, scomparso nel 2009, fornisce dati diversi. Il testo, ora tradotto in Italia con il titolo Il massacro di Cefalonia e la 1ª divisione da montagna tedesca (Gaspari), riferisce che furono esumati 2176 cadaveri e almeno altri 137 furono gettati nel Mar Jonio. Siamo intorno alle 2.300 vittime, mentre 1564 sarebbero i morti nei successivi naufragi. Tuttavia, nella sua prefazione al libro di Meyer, Giorgio Rochat sostiene che il numero dei militari italiani sull’isola era più alto rispetto al calcolo dell’autore tedesco e che i caduti a Cefalonia furono circa 3.800.
Si potrebbe ironizzare sugli storici che «danno i numeri», ma in realtà la ricerca procede sempre per approssimazioni successive. In tal senso il lavoro di Clementi rappresenta una tappa importante per ragioni che vanno ben oltre Cefalonia, poiché si tratta di uno studio specifico e approfondito sull’occupazione in Grecia, finora poco esplorata. Per esempio l’autore evidenzia le responsabilità italiane e tedesche, ma anche britanniche, nel determinare la micidiale carestia che colpì la popolazione ellenica nell’inverno 1941-42, cui peraltro le autorità di occupazione cercarono in parte di rimediare.
Interessante è anche il modo in cui Clementi, distinguendosi da un precedente studio di Davide Conti, affronta il tema dei crimini di guerra italiani in Grecia e della controversia che ne seguì tra Roma e Atene. Senza minimamente negare la violenza della repressione, con esecuzioni sommarie, torture, incendi di villaggi, Clementi nota che i governi del Cln, cercando di proteggere i nostri militari dalle richieste delle autorità di Atene che intendevano processarli, agirono in sostanza come tutte le altre potenze coinvolte nella guerra. Semmai il paradosso è che a pagare il conto della proditoria aggressione contro la Grecia, lanciata da Mussolini nel 1940, furono soprattutto i civili italiani residenti a Patrasso e nel Dodecaneso, di fatto costretti a lasciare le loro case e a rifugiarsi nella madrepatria. Una vicenda per molti versi analoga all’esodo istriano, sia pure su scala ridotta, ma coperta da un velo di oblio ora squarciato da Clementi.
Marco Clementi, Camicie nere sull’Acropoli. L’occupazione italiana in Grecia (1941-1943), DeriveApprodi, pagine 367, € 23
Hermann Frank Meyer, Il massacro di Cefalonia e la 1ª divisione da montagna tedesca, a cura di Manfred H. Teupen, prefazione di Giorgio Rochat, Gaspari 2013, pagine 492, € 29
Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, prefazione di Sandro Pertini, introduzione di Francesco De Nicola, postfazione di Giovanni Capecchi, Mondadori 2013, pagine 307, € 9,50
Antonio Carioti