L’Università italiana riparte da
zero. Sarà la quarta o quinta volta da quando ero studente, trenta anni fa.
Quando studiavo esistevano due ordinamenti: quello fascista della riforma
Gentile (non malaccio, anzi, tosto) e il cosiddetto Nuovo Ordinamento, con il
quale lo studente aveva maggiore libertà nella scelta degli esami. Oggi ne
esistono quattro. Altri quattro, differenti dai primi due e chiamati:
vecchissimo, vecchio, nuovo e nuovissimo. Il nuovissimo è partito quest’anno. E
quest’anno, per la prima volta, si sono svolti i “concorsoni nazionali” per
l’attribuzione dell’abilitazione a professore associato e ordinario, dopo che
la figura del ricercatore a tempo indeterminato è stata congelata dalla riforma
Gelmini. Partiamo dai concorsi e diciamo che l’impresa è stata complessa e
lunga: le commissioni nazionali hanno avuto quattro proroghe per la conclusione
dei lavori e all’oggi 35 su 184 hanno sforato anche l’ultima deadline del 30 novembre 2013. Si attende un nuovo decreto
ministeriale in proposito ma ancora (trasparenza) non si sa quali sono le
commissioni in ritardo. Nei settore umanistico – si dice a volte con una certa
ragione – i giudizi sono un po’ meno legati a ragioni scientifiche rispetto a,
che so, fisica o matematica. Perché qui “2+2 fa sempre 4” mentre in storia
ognuno se la suona e se la canta. Tralascio il discorso sulla Storia per ovvi
motivi e vengo a un esempio concreto, in particolare il settore “Fisica della
materia”. In questo, come in tutti i settori disciplinari messi a concorso,
ogni candidato poteva presentare “telematicamente” (in pdf) un numero massimo
di pubblicazioni per associato od ordinario: rispettivamente 12 o 18. A sua
scelta, tra tutte le pubblicazioni avute al momento della scadenza della
domanda (31 ottobre 2012). A Fisica, però, le pubblicazioni sono state “normalizzate”.
Che significa? Significa che sono state rapportate all’età del candidato. Più
si era giovani, più “pesavano”. Il ragionamento (accettato dal ministero
dell’Istruzione) è stato il seguente: se uno a trent’anni ha presentato 12
pubblicazioni, a 50 ne avrà 12N. Se ha già 50 anni, il numero diventa 12N-M (di
meno insomma). Ma come? Se il numero era fisso, ossia stabilito a priori, un
sessantenne con 200 pubblicazioni, se voleva concorrere per ordinario poteva
comunque presentarne 18. Come si fa a “normalizzare” un numero prestabilito? Il
sistema adottato ha portato a risultati assurdi, tanto che in un caso a me noto
(ma ce ne sono altri?), è diventato professore associato un neolaureato (cinque
anni fa), mentre il ricercatore che seguì la sua tesi, NO! Che significa tutto
ciò? A parte il divertimento intellettuale che si prova, cercando di entrare
nella testa di chi ha inventato e approvato questo sistema, mi sembra che lo
stesso si presti a fondati ricorsi presso tribunali amministrativi, ricorsi che
avrebbero grandi possibilità di essere accolti. Se poi questi si estendessero a
macchia d’olio ad altri settori, anche umanistici, dove qua e là si leggono
giudizi fa a pugni con qualche altro, si rischi di vedere annullato tutto il
concorsone e con esso rimandato il più che necessario ricambio generazionale
nei nostri Atenei.
“La
ricerca, come ben sappiamo, non si pratica nella Nuova Università e i libri
tradizionali sono banditi”. Così ha
scritto qualche giorno fa sul Corriere della Sera Sebastiano Maffettone,
professore di Scienze Politiche alla Luiss. Non solo la figura del ricercatore
a tempo indeterminato – come ho già ricordato – è stata congelata (il ruolo, si
dive, va ad esaurimento), ma i corsi si basano da qualche anno su un calcolo
(anche qui del tutto teorico, una specie di “normalizzazione” dello studio) di
ore e pagine di studio che dipendono dal “peso” dell’esame (ossia da quanti
crediti dà allo studente). Il massimo che si può onestamente raggiungere sono
300-400 pagine per gli esami medio grandi. Dunque, o si usano libricini scritti
ad hoc (che nei concorsi poi vengono giustamente definiti “divulgativi”, e
ottengono in automatico un giudizio negativo), o le dispense. I libri veri,
quelli tradizionali, le monografie insomma, per legge non possono praticamente
essere proposte. Contestualmente un nuovo organismo, chiamato ANVUR, verifica
ogni cinque anni lo stato della Ricerca nell’Università italiana attraverso
parametri che riguardano le pubblicazioni, la partecipazione a convegni, gruppi
di studio, l’internazionalizzazione ecc. In base al risultato, il ministero
distribuisce i fondi (anche per assumere nuovi professori). Quindi, da una
parte si chiede ai docenti di studiare e pubblicare monografie, ma dall’altra
si stabilisce che gli studenti saltino la parte fondamentale della loro
preparazione universitaria: il contatto con i libri, ossia con il risultato
concreto di una ricerca.
“Il
diritto allo studio dei mediocri non garantisce il posto di lavoro”, scriveva sempre sul “Corriere” Roger Abravanel, un
manager autore del best-seller “Meritocrazia”, per il quale l’università deve
preparare al mondo del lavoro, formare il tecnico e non l’inividuo. Per lui la
meritocrazia, per esempio le borse di studio, devono servire a “mandare più giovani sul mercato del lavoro, in tempi
rapidi, e creare degli incentivi che rompano il tabù della «laurea vera».”
Laurea vera? Tabù? Tempi rapidi? Il capitalismo è in grave crisi e ha bisogno
di mano d’opera. Mano d’opera intellettuale, scarsamente preparata al ragionamento,
ma capace di fare una sola cosa, bene o discretamente. È la fabbrica fordista
della mente o, se si preferisce detto in modo più scientifico, il “capitalismo
cognitivo”, per usare la definizione della scuola economica negriana. Non credo
ai complotti, ma qui c’è tanto di quel lavoro sotterraneo che Steven King ne
farebbe un buon libro. Da non studiare negli Atenei, ovviamente.
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