martedì 24 dicembre 2013

UNIVERSITA' PUBBLICA LAVORO PRIVATO CONCORSI NAZIONALI






L’Università italiana riparte da zero. Sarà la quarta o quinta volta da quando ero studente, trenta anni fa. Quando studiavo esistevano due ordinamenti: quello fascista della riforma Gentile (non malaccio, anzi, tosto) e il cosiddetto Nuovo Ordinamento, con il quale lo studente aveva maggiore libertà nella scelta degli esami. Oggi ne esistono quattro. Altri quattro, differenti dai primi due e chiamati: vecchissimo, vecchio, nuovo e nuovissimo. Il nuovissimo è partito quest’anno. E quest’anno, per la prima volta, si sono svolti i “concorsoni nazionali” per l’attribuzione dell’abilitazione a professore associato e ordinario, dopo che la figura del ricercatore a tempo indeterminato è stata congelata dalla riforma Gelmini. Partiamo dai concorsi e diciamo che l’impresa è stata complessa e lunga: le commissioni nazionali hanno avuto quattro proroghe per la conclusione dei lavori e all’oggi 35 su 184 hanno sforato anche l’ultima deadline del 30 novembre 2013. Si attende un nuovo decreto ministeriale in proposito ma ancora (trasparenza) non si sa quali sono le commissioni in ritardo. Nei settore umanistico – si dice a volte con una certa ragione – i giudizi sono un po’ meno legati a ragioni scientifiche rispetto a, che so, fisica o matematica. Perché qui “2+2 fa sempre 4” mentre in storia ognuno se la suona e se la canta. Tralascio il discorso sulla Storia per ovvi motivi e vengo a un esempio concreto, in particolare il settore “Fisica della materia”. In questo, come in tutti i settori disciplinari messi a concorso, ogni candidato poteva presentare “telematicamente” (in pdf) un numero massimo di pubblicazioni per associato od ordinario: rispettivamente 12 o 18. A sua scelta, tra tutte le pubblicazioni avute al momento della scadenza della domanda (31 ottobre 2012). A Fisica, però, le pubblicazioni sono state “normalizzate”. Che significa? Significa che sono state rapportate all’età del candidato. Più si era giovani, più “pesavano”. Il ragionamento (accettato dal ministero dell’Istruzione) è stato il seguente: se uno a trent’anni ha presentato 12 pubblicazioni, a 50 ne avrà 12N. Se ha già 50 anni, il numero diventa 12N-M (di meno insomma). Ma come? Se il numero era fisso, ossia stabilito a priori, un sessantenne con 200 pubblicazioni, se voleva concorrere per ordinario poteva comunque presentarne 18. Come si fa a “normalizzare” un numero prestabilito? Il sistema adottato ha portato a risultati assurdi, tanto che in un caso a me noto (ma ce ne sono altri?), è diventato professore associato un neolaureato (cinque anni fa), mentre il ricercatore che seguì la sua tesi, NO! Che significa tutto ciò? A parte il divertimento intellettuale che si prova, cercando di entrare nella testa di chi ha inventato e approvato questo sistema, mi sembra che lo stesso si presti a fondati ricorsi presso tribunali amministrativi, ricorsi che avrebbero grandi possibilità di essere accolti. Se poi questi si estendessero a macchia d’olio ad altri settori, anche umanistici, dove qua e là si leggono giudizi fa a pugni con qualche altro, si rischi di vedere annullato tutto il concorsone e con esso rimandato il più che necessario ricambio generazionale nei nostri Atenei.
“La ricerca, come ben sappiamo, non si pratica nella Nuova Università e i libri tradizionali sono banditi”. Così ha scritto qualche giorno fa sul Corriere della Sera Sebastiano Maffettone, professore di Scienze Politiche alla Luiss. Non solo la figura del ricercatore a tempo indeterminato – come ho già ricordato – è stata congelata (il ruolo, si dive, va ad esaurimento), ma i corsi si basano da qualche anno su un calcolo (anche qui del tutto teorico, una specie di “normalizzazione” dello studio) di ore e pagine di studio che dipendono dal “peso” dell’esame (ossia da quanti crediti dà allo studente). Il massimo che si può onestamente raggiungere sono 300-400 pagine per gli esami medio grandi. Dunque, o si usano libricini scritti ad hoc (che nei concorsi poi vengono giustamente definiti “divulgativi”, e ottengono in automatico un giudizio negativo), o le dispense. I libri veri, quelli tradizionali, le monografie insomma, per legge non possono praticamente essere proposte. Contestualmente un nuovo organismo, chiamato ANVUR, verifica ogni cinque anni lo stato della Ricerca nell’Università italiana attraverso parametri che riguardano le pubblicazioni, la partecipazione a convegni, gruppi di studio, l’internazionalizzazione ecc. In base al risultato, il ministero distribuisce i fondi (anche per assumere nuovi professori). Quindi, da una parte si chiede ai docenti di studiare e pubblicare monografie, ma dall’altra si stabilisce che gli studenti saltino la parte fondamentale della loro preparazione universitaria: il contatto con i libri, ossia con il risultato concreto di una ricerca.
“Il diritto allo studio dei mediocri non garantisce il posto di lavoro”, scriveva sempre sul “Corriere” Roger Abravanel, un manager autore del best-seller “Meritocrazia”, per il quale l’università deve preparare al mondo del lavoro, formare il tecnico e non l’inividuo. Per lui la meritocrazia, per esempio le borse di studio, devono servire a “mandare più giovani sul mercato del lavoro, in tempi rapidi, e creare degli incentivi che rompano il tabù della «laurea vera».” Laurea vera? Tabù? Tempi rapidi? Il capitalismo è in grave crisi e ha bisogno di mano d’opera. Mano d’opera intellettuale, scarsamente preparata al ragionamento, ma capace di fare una sola cosa, bene o discretamente. È la fabbrica fordista della mente o, se si preferisce detto in modo più scientifico, il “capitalismo cognitivo”, per usare la definizione della scuola economica negriana. Non credo ai complotti, ma qui c’è tanto di quel lavoro sotterraneo che Steven King ne farebbe un buon libro. Da non studiare negli Atenei, ovviamente. 

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