martedì 5 maggio 2015

ISTITUTI DI CULTURA

Il 30 marzo scorso il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale Paolo Gentiloni ha nominato i direttori di tre dei più importanti Istituti italiani di Cultura all’estero: Marco Delogu è andato a quello di Londra, Giorgio Van Straten a New York e Olga Strada a Mosca. La nomina è avvenuta, dice il comunicato del ministero al termine della procedura prevista per l’individuazione dei Direttori “di chiara fama” [virgolettato loro] e basato sul lavoro istruttorio “di una commissione in cui erano rappresentati, accanto agli Esteri, i ministeri dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e dell’Università e della Ricerca”.
Negli anni passati una nostra concittadina, Paola Cioni, si è distinta dimostrando grandi capacità in diversi Istituti italiani di Cultura, tra cui quelli di Mosca, Francoforte e Toronto, ma non è mai arrivata a occupare la carica di Direttore. Carica, che come si è visto, ora si ottiene solo per “chiara fama” (virgolettato). Tanto per essere chiari, non sono i nomi a essere messi in discussione; non è forse la sede, ormai sono in carica e, a parte uno, li conosciamo poco. Ci interessa, invece, capire il senso delle nomine, il denominatore comune che le sostiene e alimenta, in altre parole, cosa è importante per il ministro Gentiloni, e cosa risulta, invece, dirimente. Delogu è un fotografo, forse tra i migliori che abbiamo in Italia nonché, come dice il ministero, “editore, regista, curatore di mostre, direttore artistico di vari Festival”. Van Straten uno “scrittore, vincitore del premio Viareggio”, ma è stato anche consigliere di amministrazione della Biennale di Venezia, consigliere di amministrazione Rai, presidente dell’Azienda Speciale PalaExpo di Roma e presidente dell’Agis. La Olga Strada, figlia di Vittorio Strada, uno dei massimi slavisti italiani, è “organizzatrice culturale”.  Ha una “profonda conoscenza di ambienti culturali russi anche grazie [anche grazie] alle sue iniziative presso le maggiori istituzioni museali del Paese, tra i quali il Museo di Mosca [che, vi assicuro, non esiste], e il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo” [che per fortuna esiste]. Quali siano state queste iniziative, però, non viene specificato.
Come si vede, il profilo dei chiara fama [senza virgolette, essendo una locuzione in uso in italiano] è generico e ha una forte connotazione manageriale, mentre sono del tutto assenti produzione scientifica e curricula accademici. Cosa abbiano fatto in Commissione i rappresentati degli altri due ministeri, chi fossero e cosa si sono detti (i verbali delle sedute, per esempio), resta sconosciuto.  L’Italia, si sa, è un paese particolare. Si occupano posti così importanti senza concorso, mentre si lasciano a casa decine di migliaia di docenti medi “idonei” perché, come ha detto oggi il ministro [la ministra] Stefania Giannini, “un concorso non l’hanno vinto”. L’Italia, si sa, è un paese irriconoscente. La nostra Paola magari non ha organizzato mai mostre [ma forse sì], però ha lavorato sodo per anni, parla cinque lingue e conosce perfettamente il mondo culturale russo. Magari è stata ferma un giro. O magari nessuna chiara fama, mai. 

Ricordo con esattezza un fatto: era il 1995, venti anni fa. A San Pietroburgo giunse un trentenne come direttore dell’Istituto culturale olandese. Per un po’ visse anche a casa mia, in attesa di trovare un posto adeguato. Aveva fatto domanda a l’Aja, presentato un progetto, ed era stato scelto da una commissione. E non era neanche olandese, bensì belga, della parte fiamminga.


Markonista

domenica 3 maggio 2015

LA VIOLENZA

Una riflessione a più voci (tra loro non corali) su quanto accaduto a Milano.

Marconista, 3 maggio

L'ipocrisia più grande è quella di gridare alla "non violenza", quella di indiganrsi se un migliaio di giovani violenti danno sfogo allo scontro sociale rompendo vetrine e bruciando qualche auto. Noi siamo circondati dalla violenza. Sono 13 anni che bombardiamo il Medio Oriente, mentre il Mediterraneo è diventata una tomba di povera gente. 

La vera nemica della libertà non è la violenza ma l'indifferenza. La cosa più comoda è indignarsi, per voltarsi subito dall'altra parte.



David Bidussa

1 maggio 2015
A Milano, forse non si è ripetuta l’operazione che riuscì al G8 di Genova nel luglio 2001:  l’uccisione di una  generazione che poi negli anni successivi non ha trovato gli spazi, le parole, le forme e anche gli slogan per segnare una propria presenza.
Quella generazione non morì alla Diaz o alla scuola Pascoli nella notte tra il 21 e il 22 luglio e nemmeno morì il 20 luglio in Piazza Alimonda, dove morì Carlo Giuliani.
Quella generazione morì la sera di Giovedì 19 luglio, al termine della prima giornata di manifestazioni, quando non fu più in grado di andare oltre l’espulsione dei Black bloc e pensò che quella scena fosse la propria vittoria. Si trattava di prendere in mano la questione, affrontarla non come ordine pubblico, o come provocazione. Bensì di proporre  le proprie parole, la èpropria agenda come tema. Ma il giorno dopo non fu questo. Il giorno dopo quella generazione non aveva più voce. Altri avevano la voce, le parole, gli slogan. Si presero il centro della scena e uccisero la generazione che li aveva espulsi da quella piazza il giorno prima.
Rispetto ad allora, la voglia di riflettere che è cresciuta in questi mesi intorno ai temi di EXPO Milano 2015 , intorno a “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”i due slogan che stanno al centro della riflessione pubblica promossa dall’occasione di EXPO, indica che la possibilità di non essere scippati è consistente. Ma appunto il problema è mettere al centro temi, riflessioni, percorsi, proposte. In breve esserci.
E’ possibile che la scena del 19 luglio sera, una scena che nessuno ricorda più appunto, perché lì una generazione è morta e non ha avuto chi ne parlasse, non si ripeta oggi.
Dipenderà da molte cose, ma sicuramente la differenza la può fare la riflessione pubblica e la può fare quella generazione che dal futuro si sente coinvolta in termini di scelte da fare, di agende da riempire, di questioni da porre, di voglia di pensare e fare.
Insomma se il vocabolario in cui si combinano diritti, scelte, impegni e responsabilità trova la possibilità di trasformarsi in linguaggio pubblico.
Lì si vedrà se appunto nuovamente una generazione verrà uccisa o se invece, a differenza di 14 anni fa , come è auspicabile, avrà modo di riprendersi in mano un futuro.
E tuttavia quando l’attacco si fa duro non basta solo dichiarare la propria voglia di riflettere. Occorre anche dare la prova inconfutabile che si è pronti a fare. Ora.
Oggi questa disponibilità, significa dare una parte del proprio tempo per aiutare a rimettere in piedi Milano, una città oggi ferita, ma che è un “bene comune” che oggi va tutelato, meglio “ripristinato”.
Si chiama “nessuno tocchi Milano”, è il luogo virtuale dove darsi appuntamento per aiutare a rimettere a posto ciò che è stato devastato. E riaprire la partita, riappropriarsi del diritto di parola, tornare protagonisti, laddove qualcuno ha cercato di sottrarre la parola a tutti nel pomeriggio di oggi.
Non perché si è buoni e “loro” sono i cattivi. Ma per marcare una spaccatura verticale tra chi prova a darsi un futuro e chi fa di tutto per uccidere quelli della sua generazione che non sono d’accordo con lui perché si accontenta della rabbia che ha dentro e non la tramuta in iniziativa, perché gli basta coccolarla per dire a se stesso che è vivo.

Guri Schwarz

Vandalismi e distruzioni verificatisi ieri a Milano possono essere letti in relazione a una questione su cui ragionano gli storici della Resistenza da qualche tempo. Nel libro intitolato ‘La Resistenza perfetta’, Giovanni De Luna ha messo in evidenza come oggi risulti per molti versi incomprensibile un dato centrale della lotta antifascista, ovvero l’esercizio della violenza. È una questione su cui ho provato a richiamare l’attenzione con un contributo pubblicato qui il 25 aprile.
C’era un tempo in cui la politica era – anche – violenza, ovvero la violenza era uno strumento di lotta politica. Quel tempo, che possiamo dire nasca con la politica moderna, e quindi con la rivoluzione del 1789, si esaurisce –  a grandi linee –  con la fine della stagione dei movimenti e del terrorismo.
Negli ultimi quaranta anni ci è sembrato di fare un grosso passo avanti liberandoci della violenza politica, mettendola nell’angolo, relegandola a fenomeno residuale, a barbarie da condannare.
Si è detto che ‘la violenza politica è fascismo’, mettendoci così nelle condizioni di non capire il fascismo, di non capire l’antifascismo  e soprattutto di non capire la politica.
Il risultato è che così facendo ci siamo persi per strada la politica, ma la violenza è rimasta. È quello che abbiamo visto ieri a Milano: violenza senza politica.
Quello che ci deve preoccupare non è la violenza in sé, ma la crisi della politica.