Una riflessione a più voci (tra loro non corali) su quanto accaduto a Milano.
Marconista, 3 maggio
L'ipocrisia più grande è quella di gridare alla "non violenza", quella di indiganrsi se un migliaio di giovani violenti danno sfogo allo scontro sociale rompendo vetrine e bruciando qualche auto. Noi siamo circondati dalla violenza. Sono 13 anni che bombardiamo il Medio Oriente, mentre il Mediterraneo è diventata una tomba di povera gente.
La vera nemica della libertà non è la violenza ma l'indifferenza. La cosa più comoda è indignarsi, per voltarsi subito dall'altra parte.
David Bidussa
Marconista, 3 maggio
L'ipocrisia più grande è quella di gridare alla "non violenza", quella di indiganrsi se un migliaio di giovani violenti danno sfogo allo scontro sociale rompendo vetrine e bruciando qualche auto. Noi siamo circondati dalla violenza. Sono 13 anni che bombardiamo il Medio Oriente, mentre il Mediterraneo è diventata una tomba di povera gente.
La vera nemica della libertà non è la violenza ma l'indifferenza. La cosa più comoda è indignarsi, per voltarsi subito dall'altra parte.
David Bidussa
1 maggio 2015
A Milano, forse non si è ripetuta l’operazione che riuscì al G8 di Genova nel luglio 2001: l’uccisione di una generazione che poi negli anni successivi non ha trovato gli spazi, le parole, le forme e anche gli slogan per segnare una propria presenza.
Quella generazione non morì alla Diaz o alla scuola Pascoli nella notte tra il 21 e il 22 luglio e nemmeno morì il 20 luglio in Piazza Alimonda, dove morì Carlo Giuliani.
Quella generazione morì la sera di Giovedì 19 luglio, al termine della prima giornata di manifestazioni, quando non fu più in grado di andare oltre l’espulsione dei Black bloc e pensò che quella scena fosse la propria vittoria. Si trattava di prendere in mano la questione, affrontarla non come ordine pubblico, o come provocazione. Bensì di proporre le proprie parole, la èpropria agenda come tema. Ma il giorno dopo non fu questo. Il giorno dopo quella generazione non aveva più voce. Altri avevano la voce, le parole, gli slogan. Si presero il centro della scena e uccisero la generazione che li aveva espulsi da quella piazza il giorno prima.
Quella generazione non morì alla Diaz o alla scuola Pascoli nella notte tra il 21 e il 22 luglio e nemmeno morì il 20 luglio in Piazza Alimonda, dove morì Carlo Giuliani.
Quella generazione morì la sera di Giovedì 19 luglio, al termine della prima giornata di manifestazioni, quando non fu più in grado di andare oltre l’espulsione dei Black bloc e pensò che quella scena fosse la propria vittoria. Si trattava di prendere in mano la questione, affrontarla non come ordine pubblico, o come provocazione. Bensì di proporre le proprie parole, la èpropria agenda come tema. Ma il giorno dopo non fu questo. Il giorno dopo quella generazione non aveva più voce. Altri avevano la voce, le parole, gli slogan. Si presero il centro della scena e uccisero la generazione che li aveva espulsi da quella piazza il giorno prima.
Rispetto ad allora, la voglia di riflettere che è cresciuta in questi mesi intorno ai temi di EXPO Milano 2015 , intorno a “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”i due slogan che stanno al centro della riflessione pubblica promossa dall’occasione di EXPO, indica che la possibilità di non essere scippati è consistente. Ma appunto il problema è mettere al centro temi, riflessioni, percorsi, proposte. In breve esserci.
E’ possibile che la scena del 19 luglio sera, una scena che nessuno ricorda più appunto, perché lì una generazione è morta e non ha avuto chi ne parlasse, non si ripeta oggi.
Dipenderà da molte cose, ma sicuramente la differenza la può fare la riflessione pubblica e la può fare quella generazione che dal futuro si sente coinvolta in termini di scelte da fare, di agende da riempire, di questioni da porre, di voglia di pensare e fare.
Insomma se il vocabolario in cui si combinano diritti, scelte, impegni e responsabilità trova la possibilità di trasformarsi in linguaggio pubblico.
Lì si vedrà se appunto nuovamente una generazione verrà uccisa o se invece, a differenza di 14 anni fa , come è auspicabile, avrà modo di riprendersi in mano un futuro.
E tuttavia quando l’attacco si fa duro non basta solo dichiarare la propria voglia di riflettere. Occorre anche dare la prova inconfutabile che si è pronti a fare. Ora.
Oggi questa disponibilità, significa dare una parte del proprio tempo per aiutare a rimettere in piedi Milano, una città oggi ferita, ma che è un “bene comune” che oggi va tutelato, meglio “ripristinato”.
Si chiama “nessuno tocchi Milano”, è il luogo virtuale dove darsi appuntamento per aiutare a rimettere a posto ciò che è stato devastato. E riaprire la partita, riappropriarsi del diritto di parola, tornare protagonisti, laddove qualcuno ha cercato di sottrarre la parola a tutti nel pomeriggio di oggi.
Non perché si è buoni e “loro” sono i cattivi. Ma per marcare una spaccatura verticale tra chi prova a darsi un futuro e chi fa di tutto per uccidere quelli della sua generazione che non sono d’accordo con lui perché si accontenta della rabbia che ha dentro e non la tramuta in iniziativa, perché gli basta coccolarla per dire a se stesso che è vivo.
Dipenderà da molte cose, ma sicuramente la differenza la può fare la riflessione pubblica e la può fare quella generazione che dal futuro si sente coinvolta in termini di scelte da fare, di agende da riempire, di questioni da porre, di voglia di pensare e fare.
Insomma se il vocabolario in cui si combinano diritti, scelte, impegni e responsabilità trova la possibilità di trasformarsi in linguaggio pubblico.
Lì si vedrà se appunto nuovamente una generazione verrà uccisa o se invece, a differenza di 14 anni fa , come è auspicabile, avrà modo di riprendersi in mano un futuro.
E tuttavia quando l’attacco si fa duro non basta solo dichiarare la propria voglia di riflettere. Occorre anche dare la prova inconfutabile che si è pronti a fare. Ora.
Oggi questa disponibilità, significa dare una parte del proprio tempo per aiutare a rimettere in piedi Milano, una città oggi ferita, ma che è un “bene comune” che oggi va tutelato, meglio “ripristinato”.
Si chiama “nessuno tocchi Milano”, è il luogo virtuale dove darsi appuntamento per aiutare a rimettere a posto ciò che è stato devastato. E riaprire la partita, riappropriarsi del diritto di parola, tornare protagonisti, laddove qualcuno ha cercato di sottrarre la parola a tutti nel pomeriggio di oggi.
Non perché si è buoni e “loro” sono i cattivi. Ma per marcare una spaccatura verticale tra chi prova a darsi un futuro e chi fa di tutto per uccidere quelli della sua generazione che non sono d’accordo con lui perché si accontenta della rabbia che ha dentro e non la tramuta in iniziativa, perché gli basta coccolarla per dire a se stesso che è vivo.
Guri Schwarz
Vandalismi e distruzioni verificatisi ieri a Milano possono essere letti in relazione a una questione su cui ragionano gli storici della Resistenza da qualche tempo. Nel libro intitolato ‘La Resistenza perfetta’, Giovanni De Luna ha messo in evidenza come oggi risulti per molti versi incomprensibile un dato centrale della lotta antifascista, ovvero l’esercizio della violenza. È una questione su cui ho provato a richiamare l’attenzione con un contributo pubblicato qui il 25 aprile.
C’era un tempo in cui la politica era – anche – violenza, ovvero la violenza era uno strumento di lotta politica. Quel tempo, che possiamo dire nasca con la politica moderna, e quindi con la rivoluzione del 1789, si esaurisce – a grandi linee – con la fine della stagione dei movimenti e del terrorismo.
Negli ultimi quaranta anni ci è sembrato di fare un grosso passo avanti liberandoci della violenza politica, mettendola nell’angolo, relegandola a fenomeno residuale, a barbarie da condannare.
Si è detto che ‘la violenza politica è fascismo’, mettendoci così nelle condizioni di non capire il fascismo, di non capire l’antifascismo e soprattutto di non capire la politica.
Il risultato è che così facendo ci siamo persi per strada la politica, ma la violenza è rimasta. È quello che abbiamo visto ieri a Milano: violenza senza politica.
Quello che ci deve preoccupare non è la violenza in sé, ma la crisi della politica.
Nessun commento:
Posta un commento