lunedì 25 novembre 2013

GENOVA PER NOI





Il giornale al quale era destinata tarda. Intanto, per pochi intimi.


Sono trascorsi più di due anni da quando il presidente di una commissione concorsuale per un posto all’Università di Catania mi chiese come mai fossi così convinto che le Brigate Rosse non erano state eterodirette, al punto da dedicare alla loro storia una monografia di quasi 400 pagine. Al di là della risposta e dell’esito del concorso, che il lettore può facilmente immaginare, l’episodio è indicativo del fatto che a molti, in questo paese, quella vicenda proprio non è andata giù. Accademia, politica, giornalismo – nei posti in cui si riflette sulle cose italiane trovi sempre qualcuno che ti si para davanti agitando il nome di un servizio segreto. Sta difendendo il suo passato, che peraltro nessuno mette in discussione parlando di Br. Sta indicando il responsabile della propria sconfitta politica (o della sua parte), avvenuta grosso modo all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. L’Italia è un paese strano. Ha metabolizzato guerre di aggressione, l’uso dei gas in Eritrea, il tintinnio di sciabole e le bombe di natale, ma non riesce proprio ad ammettere una cosa semplice e all’occorrenza poco sconvolgente. Ossia che in questo paese per una quindicina di anni una generazione si è armata e ha certato di sovvertire il sistema. E che tra le centinaia  di gruppi che nascono e muoiono nel giro di mesi o qualche anno, quello delle Brigate Rosse è stato il più longevo e il più attivo. Certo, viene da pensare che avrebbero metabolizzato anche le Br se non avessero ucciso Moro e la sua scorta. Viene da credere che quella vicenda – l’aver osato contro un “intoccabile” – sia la spina rimasta per traverso. Tanto che oggi si sente parlare addirittura di due nuove “Commissioni Moro”, una alla Camera e una al Senato, commissioni che si vorrebbe mettere in piedi durante la legislatura in corso. Ma come avrò fatto a convincermi che le Br non siano mai state eterodirette? Forse perché ho in mente le biografie di quelli che stavano in via Fani? È un modo per partire, questo delle biografie. Poi, magari, non ci si trova d’accordo, ma è un punto. La pensa così anche Andrea Casazza, un giornalista del Secolo XIX che in questi giorni esce in libreria con il volume “Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate rosse”, edito da DeriveApprodi [496 pp.]. È la storia della colonna genovese delle Br, la colonna più complessa e anomala rispetto al resto dell’organizzazione. Una storia che è parte integrante del tessuto sociale cittadino, che si intreccia con il vasto mondo extraparlamentare dell’epoca e che Casazza cerca di ricostruire anche attraverso le biografie dei militanti. Il libro, per forza di cose, è un testo complesso, ma si legge fortunatamente con facilità, a parte qualche ripetizione. Ed è un testo che nella sua struttura già contiene una risposta – indiretta – a chi dubita dell’originalità del fenomeno della lotta armata. Il volume, che va avanti in un bel modo diacronico, si apre e si chiude con una vicenda cominciata il 17 maggio del 1979, quando vengono effettuati 14 ordini di cattura, 9 fermi giudiziari e una quindicina di fermi per accertamenti. Finiscono in carcere militanti dell’autonomia genovese come Giorgio Moroni, e figure non certo di primo piano delle Br, come Enrico Fenzi. È trascorso poco più di un anno dall’assassinio di Aldo Moro: secondo alcuni magistrati di Genova tutta la sinistra extraparlamentare costituisce una banda armata che di volta in volta assume un nome diverso. Un teorema, simile, ma meno famoso, a quello cosiddetto “Calogero” [che condusse alla ben più conosciuta retata del 7 aprile ‘79], che grazie a Casazza siamo ora obbligati a mettere insieme. Erano anni che si cercavano le Br di Genova e finalmente, dopo Padova, ci si fa coraggio e le si trova un po’ così, andando a naso. In prima istanza vengono tutti prosciolti (l’ingiustizia che assolve, avrebbe commentato il generale Dalla Chiesa), ma in appello e Cassazione gli autonomi sono condannati come brigatisti (l’ingiustizia che condanna, ricorda l’autore). Ci sarebbero voluti  decenni perché Moroni e altri che mai avevano fatto parte dell’organizzazione armata venissero infine riconosciuti innocenti e ricevessero un indennizzo dallo Stato italiano per la galera fatta ingiustamente. Perché conoscere e frequentare un brigatista, non è essere uno di loro. Ed è in questo mondo disomogeneo, dove tutti conoscono tutti, che le Br di Genova agiscono per anni senza che le forze dell’ordine riescano a trovare un punto di partenza. Imprendibili e sconosciuti. Questi sono i brigatisti di Genova. Al punto che, dopo la strage di via Fracchia del 28 marzo 1980, quando i carabinieri di Dalla Chiesa uccidono 4 brigatisti senza che questi reagiscano al fuoco (fu trovato un solo bossolo partito da una loro pistola), sono le stesse Br a rendere nota l’identità di uno di loro: Riccardo Dura. Imprendibili al punto che uno dei magistrati impegnati nella lotta contro il terrorismo nella città ligure, nel corso degli anni ha ripetutamente scritto e detto che la colonna genovese nasce solo nel 1980. L’anno, invece, in cui praticamente si disgrega. Genova, la città in cui compie la sua parabola “l’organizzazione” XXII Ottobre, il primo tentativo di organizzare militarmente il proletariato, dove le Br nel 1974 sequestrano il pm Mario Sossi, l’accusatore di Mario Rossi e compagni. La città dove una compartimentazione strutturata è possibile, ma non si può non partecipare all’occupazione delle case, alla distribuzione gratuita di medicinali e dove la fabbrica non può non essere il centro gravitazionale dell’azione politico-militare dei brigatisti. Una città in cui le contraddizioni sociali e politiche sono più forti che altrove: dove un professore universitario come Gianfranco Faina entra ed esce dalla colonna perché è troppo anarchico per quel mondo e un suo stimato collega, il petrarchista Fenzi, distribuisce volantini. Dove un operaio sindacalista del Pci, Guido Rossa, è ucciso nel gennaio 1979 per aver denunciato un altro militante delle Br che quegli stessi volantini li distribuiva nella sua fabbrica, l’Italsider. Una città nella quale padre e figlio militano in tempi e modi diversi nelle Br e dove nel 1976 le stesse portano a termine il primo omicidio programmato della loro storia: quello del giudice Francesco Coco. E dove, infine, chi viene arrestato può tranquillamente non dichiararsi prigioniero politico e difendersi (tanto da essere alla fine assolto), pur continuando in carcere la propria militanza brigatista. Casazza si muove bene dentro la matassa, solo scivolando, quasi per inerzia in alcuni – pochissimi e nel complesso ininfluenti – luoghi comuni della dietrologia. E ci ricorda, perché ce lo siamo davvero dimenticati, che dal 1976 al 1981 l’occupazione a Genova si riduce del 40% e sempre dal 1976 le giornate lavorative al porto ligure crollano in dieci anni del 54%. Molto, del perché di quella lotta armata, si trova in queste cifre.

SCIROCCO