martedì 26 marzo 2013

L'ISOLA DEL TESORO



 Il 25 marzo il piano di salvataggio di Cipro è diventato ufficiale e definitivo. Prevede la ristrutturazione del sistema bancario e un prelievo del 30% sui conti con più di 100.000 euro. Le reazioni dei mercati sono state altalenanti, viziate anche dalle dichiarazioni fuori luogo del ministro delle Finanze olandese Jeroen Dijsselbloem. La decisione è stata accettata anche da Mosca, in quanto la piazza finanziaria di Nicosia è ancora troppo importante, tanto che gli esperti economici russi discutono le eventuali conseguenze per l’economia di Mosca e la possibilità di trarre comunque un beneficio da questo passaggio.
Secondo i dati dell’Agenzia di rating Moody’s, confermati oggi 26 marzo dall’autorevole quotidiano russo “Kommersant”, i depositi d’imprese o privati cittadini russi nelle banche cipriote ammonterebbero a 19 miliardi di dollari americani. Se si dovesse dare corso al prelievo forzoso del 30%, la perdita complessiva non è al momento quantificabile, ma si aggirerebbe intorno ai 3 miliardi di dollari. Tra le banche maggiormente colpite ci sarebbe l’emanazione “cipriota” della Banca commerciale estera russa (Vtb), il cui totale in depositi non è però stato comunicato. La direzione di un altro istituto di credito, la Promsvjaz’bank, che ha una filiale a Cipro, ha definito l’annunciata mossa del governo di Nicosia come un “esproprio nei riguardi d’onesti agenti del mercato finanziario”. Sempre Moody’s ha quantificato i crediti sottoscritti dal sistema bancario russo nel suo complesso a quello cipriota in una cifra compresa tra i 30 e i 40 miliardi di dollari. In caso di default, i danni per l’economia russa sarebbero quindi ben più consistenti di quelli legati al prelievo forzoso, ma complessivamente contenuti perché corrispondenti a circa il 2,5% del capitale totale in mano alle banche russe, stimato da Moody’s a inizio 2013 in 150 miliardi di euro, cifra – è bene ricordarlo – non ufficiale.
Vladimir Putin ha sempre ritenuto la decisione sui depositi bancari viziata da una scorrettezza di fondo, perché non tiene conto degli aiuti erogati nel corso dell’ultimo anno da Mosca. Una reazione che sembra più una dichiarazione di prassi che una reale protesta, tanto che né il sito del presidente, né quello del ministero degli Esteri riportano note ufficiali. I commenti più importanti li hanno fatti pochi giorni fa figure politiche di secondo piano, e sono caratterizzati da una fondamentale comprensione della situazione. Secondo il viceministro dell’Economia, Andrej Klepach, l’eventuale provvedimento è un problema “interno di Cipro” e la Federazione russa può fare ben poco per mettere in sicurezza i depositi dei propri cittadini. Ancora più significativa la presa di posizione di Sergej Shatalov, viceministro delle Finanze, per il quale “la decisione delle autorità cipriote di imporre una tassa sui depositi bancari può essere attenuata in termini di aliquote e oggetto, ma deve essere presa”. La norma sui conti correnti, infatti, se da un lato riguarda il prestigio internazionale di Mosca, dall’altro offre la possibilità alle autorità finanziarie russe di indagare sulle continue fughe di capitali per paradisi fiscali più o meno legali. E proprio Cipro appare il centro finanziario favorito dalle grandi imprese russe grazie al basso coefficiente di tassazione e alla sua normativa finanziaria poco invasiva, nonché al fatto che negli anni Novanta non vigeva il regime dei visti per i cittadini russi. Allo stesso tempo, è la maggiore fonte di investimenti esteri diretti in Russia con denaro in gran parte proveniente dalla Federazione stessa. In questo senso si deve leggere la dichiarazione del presidente dell’organizzazione Delavaja Rossija (Russia degli affari) Aleksandr Galushka, per il quale le autorità russe dovrebbero approfittare della situazione facendo una “mossa forte” per attrarre capitali in Russia come, per esempio, ridurre le tasse. In Kazakistan – ha ricordato Galushka – pochi anni fa un provvedimento del genere ebbe come effetto un significativo aumento degli investimenti.
I rapporti diplomatici tra Federazione russa e Cipro sono buoni. L’ultima visita ufficiale di un presidente russo risale ad appena due anni fa, quando Dmitrij Medvedev giunse sull’isola in occasione del cinquantesimo anniversario dell’apertura di relazione diplomatiche tra i Paesi. Nell’occasione, l’allora presidente russo ringraziò il suo omologo cipriota Dimitris Xristofias per il sostegno dato agli sforzi di Mosca d’avvicinamento all’Unione europea, a partire dalla fine del regime del visto tra Russia e Ue (promessa fatta almeno un decennio fa ma al momento lontana dal realizzarsi). Sempre quel giorno fu firmato un programma di lavoro comune per il triennio 2010-2013 composto da 51 punti suddivisi in 9 paragrafi tra cui uno riguardante l’aspetto fiscale: in esso, il punto 19, le parti si impegnavano a cambiare quanto previsto da un precedente accordo del 1998 e a promuovere la cooperazione per migliorare il reciproco scambio di informazioni ed evitare le doppie imposte sul reddito e sul capitale. Ora tutto questo dovrà essere rivisto.

AUTOBIOGRAFIE E MEMORIA DEL '900

Questo è l'intervento al convegno organizzato al Nuovo Cinema Palazzo dal titolo "Autobiografie e memorie del 900. Un contadino nella metropoli", che si svolge domani 27 marzo a Piazza dei Sanniti 9 (via dei Volsci).




Come avete scritto nella presentazione di questo incontro, Primo Levi riteneva la memoria umana uno strumento meraviglioso, ma fallace: “I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei”.

Questo ci dice alcune cose importanti: che la memoria è uno strumento, che però sbaglia, ossia, spesso è inattendibile. La memoria, intesa come la capacità di ricordare gli avvenimenti, è una macchina complessa che lavora per inclusioni ed esclusioni.

Strettamente collegato a questo troviamo l’altro problema di cui si parla nella presentazione di questo pomeriggio: l’autobiografia come fonte.

Si pone il problema delle differenze sottese a ciascuna autobiografia, “specchio di diverse esperienze di vita”. Ma ciò è ben più che naturale. Il vero problema, mi chiedo, non è forse – come ho detto – che la memoria lavori per inclusioni ed esclusioni? Se è così, appare secondario che nelle autobiografie ci siano differenze dovute alle diverse esperienze di vita. perché ciò è normale. noi, invece, parliamo di metodo prima che di contenuto.

E mi chiedo ancora: è vero che “Un primo elemento di analisi applicabile a tutti i testi e, attinente in realtà al genere autobiografico in generale, è il problema della memoria”?

La mia risposta è che potrebbe esserlo, ma potrebbe anche non esserlo. Se io, nel momento in cui scrivo una autobiografia, mi comporto come uno storico, e dunque inserisco documenti a sostegno dei miei ricordi, che verifico constantemente, l’autobiografia cessa di essere un problema della memoria.

In realtà la memoria è, non solo e non soprattutto, il ricordo personale. ovvero: se potessi intervistare tutti i partecipanti alla lotta armata degli anni settanta, mi avvicinerei molto alla verità storica di quel periodo. La forchetta all’interno della quale ricostruisco una vicenda sarebbe molto stretta. Ma un’operazione del genere è complicata, al limite del possibile. Non mi fermo però a chiarire perché. sono problemi di facile intuizione.

La memoria è anche il modo in cui una generazione usa il ricordo, gli oggetti attraverso cui ricorda (che trascendono la memoria personale) il luogo e il modo in cui questi oggetti sono conservati e il momento in cui nella società scatta la possibilità che essi diventino condivisibili. Che non è sinonimo di memoria condivisa, un concetto politico che poco ha a che vedere con il lavoro dello storico e sul quale si ritornerà. Condivisibili vuole dire “fruibili”, perché li si cerca, nella società si accende intorno a loro un interesse e li si vuole vedere, conoscere, valutare. ci si vuole confrontare. 

In Italia tutti i tipi di memoria degli anni settanta, tra cui la memoria incarnata nella cultura materiale, non sono potuti diventare comune retaggio culturale. Non mi soffermo sui motivi per cui questo è accaduto [l’elenco è lungo: posizione delle forze politiche e dei loro eredi, posizione della stampa, delle associazioni dei parenti delle vittime, delle istituzioni, ma anche del fatto che la storia giudiziaria di alcuni ex ha perso progressivamente il carattere politico]. Perché ho parlato di “tipi di memoria”? Perché accanto alla memoria orale troviamo quella materiale, che riveste un grande interesse nello studioso e una grande importanza.

Ed è una memoria doppia: vale per i combattenti, vale per – usando una definizione che neanche è del tutto loro, perché non arrivano a tanto, ma ha un suo significato storiografico preciso – la memoria delle vittime del terrore politico.

La memoria degli oggetti, delle cose, così come ogni altra memoria, si divide in privata e pubblica. privata è ciò che si conserva in famiglia in memoria di coloro che sono morti. si tratta di oggetti lasciati da chi ha scelto la strada della clandestinità, o da chi, non avendola scelta, è morto conducendo una vita “normale”. Ma anche di tutti quegli oggetti conservati oggi di quel periodo da chi ha passatto decine di anni in carcere. Gli oggetti di uso quotidiano, i regali inviati a casa dal carcere.

La memoria pubblica è invece composta da tre componenti principali: la prima è la collezione tematica dei musei. La seconda sono le “cicatrici” della storia: luoghi dove sono state eseguite, per esempio, stragi, o il cercere stesso. La terza è costituita dalle lapidi commemorative e da singoli segni della memoria.

Una raccolta di articoli di giornale riguardante un singolo episodio fa parte di quella memoria privata che si conserva in famiglia, di norma in un luogo appartato, da parte di una sola persona, che si è assunta l’incarico. Così come le lettere, quaderni, materiale scritto che riporta la presenza della persona morta. Vale per i militanti, vale per le vittime delle stragi, per quelle di azioni militari (attentati). Si tratta di cose che vanno a costituire una specie di archivio privato (se volete poi potrò tornare su un archivio che ho rimesso in ordine a milano), ma che spesso restano lì. Non riescono a venire alla luce, perché mancano nella società le condizioni per cui questo ciò accada. per i parenti delle vittime, per esempio, si è dovuto attendere un libro come “spingendo la notte più in là”, perché quelle memorie – al di là del loro contenuto – fossero accettate dai circoli del mercato libraio italiano e dai giornali come novità e quindi inizio di un nuovo genere. ma quanti anni ci sono voluti?
Memoria pubblica, che non c’entra qui con i giorni della memoria – legati strettamente alla politica e non alla ricerca.
Collezioni dei musei. Esiste un “Museo per la Memoria di Ustica”; per Bologna un archivio virtuale. Poi ci sono i film, che è un modo strano per ricordare, ma rientrano in questo genere. Le cicatrici della Storia sono i luoghi in cui si sono svolti attentati, stragi, rivolte. Le piazze fotografate da Tano d’Amico, il circuito dei camosci, i resti dell’aereo di Ustica, la crepa che ancora si vede nella stazione ferroviaria di bologna.
Il terzo sono i monumenti alle vittime. Prendiamo le lapidi che ricordano Pinelli, come esempio. Due le troviamo in piazza fontana a pochi metri una dall’altra. Una dice: “A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, innocente morto tragicamente nei locali della questura di Milano”. è del comune di milano. l’altra: “A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, ucciso innocente nei locali della questura di Milano”. Gli studenti e i democratici milanesi, più un intervento esterno.
Una mano, in passato, ha corretto nel primo caso morto con ucciso. Si tratta di due memorie: una pubblica, del comune, una privata resa pubblica, da parte di “studenti e democratici milanesi”.
La lapide di Bologna dice: 2 agosto 1980: vittime del terrorismo fascista. In più l’orologio, fermo all’ora dell’attentato.
Per piazza fontana:

IN QUESTA PIAZZA
LUOGO DI OPEROSI INCONTRI CIVILI
IL 12 DICEMBRE 1969
UN CRIMINOSO ATTENTATO
RECAVA TRAGICA SFIDA
ALLA CITTA' ED ALLE ISTITUZIONI
REPUBBLICANE
MILANO POPOLARE E DEMOCRATICA
ONORAVA CON DETERMINAZIONE
UNITARIA IL SACRIFICIO DELLE
VITTIME INNOCENTI MOBILITANDOSI
CONTRO L'ATTACCO EVERSIVO
E CONTRO OGNI TENTATIVO DI
AVVENTURISMO AUTORITARIO
A RICONFERMA DELL'ATTUALITA'
DEI VALORI DI LIBERTA' E GIUSTIZIA
CARDINI DEL RINNOVAMENTO
CIVILE E SOCIALE DEL PAESE



per via fani e aldo moro, rispettivamente:

Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera. In questo luogo alle 9.05 del 16 marzo 1978 cinque uomini fedeli allo Stato e alla democrazia sono stati uccisi con fredda ferocia mentre adempivano il loro dovere.

Ecco cosa riporta la lapide di Moro in via Caetani:

Cinquantaquattro giorni dopo il suo barbaro rapimento, venne ritrovato in questo luogo, la mattina del 9 maggio 1978, il corpo crivellato di proiettili di Aldo Moro. Nato a Maglie il 23 settembre 1916 professore ordinario dell’università di Roma segretario politico e poi presidente della Democrazia Cristiana più volte presidente del consiglio dei ministri della Repubblica italiana. Per oltre trent’anni recò all’attività politica del paese rinato alla libertà e alla democrazia il contributo impareggiabile della sua lucida intelligenza della rettitudine morale di una squisita sensibilità capace di cogliere nella fedeltà ai principi fermamente professati le varie esigenze emergenti nella società italiana in rapida trasformazione. Il suo sacrificio freddamente voluto con disumana ferocia da chi tentava inutilmente d'impedire l'attuazione di un programma coraggioso e lungimirante a beneficio dell'intero popolo italiano resterà quale monito e insegnamento a tutti i cittadini per un rinnovato impegno di unità nazionale nella giustizia, nella pace, nel progresso sociale. Il comune di Roma pose nel primo anno della morte.

Non una parola, in entrambi i casi, sulle Brigate Rosse.
La Memoria è sempre legata all’oblio. Cosa si sceglie di ricordare esclude ciò che si decide di non ricordare.

C’è poi la memoria che in realtà non lo è. Vi leggo cosa è stato scritto da Repubblica in occasione del trentennale di via fani:

Quel che mette a disagio, se ci si guarda intorno, è la memoria. Un'ingombrante memoria, in questo colle di Roma, non aiuta quel po' di storia identitaria che abbiamo messo insieme negli ultimi trent'anni. L'immagine del passato è ancora lì incorrotta come per il ricordo dell'assassinio di JFK o dell'11 settembre. Non c'è chi non ricordi dov'era e con chi in quel momento, che cosa disse e fece in quel momento preciso quando seppe che cosa era accaduto a Roma. Non c'è chi non abbia ancora negli occhi - al punto da poterne sentire ancora l'ansia - i parabrezza frantumati, i fori neri nell'auto bianca, il corpo di Iozzino a braccia larghe coperto da un lenzuolo bianco e la macchia di sangue sull'asfalto - densa, scura - un caricatore vuoto accanto al marciapiede nel piano sequenza di 3 minuti e 12 secondi dell'operatore del Tg che accompagna la voce ansimante di Paolo Frajese. Quel che non va è la storia, non la memoria. La storia, dopo trent'anni, dovrebbe essere ferma, fissa in un ordine temporale chiuso e ordinato, immobile, ragionevolmente condivisa alle nostre spalle e dovrebbe essere deficit della memoria farsi abitualmente ondivaga, flessibile, soggettiva, un po' falsaria. Per il "caso Moro" quest'equilibrio è capovolto: la memoria è solida, resistente, "condivisa"; la storia è fragile, contraddittoria, incerta, ancora precaria, quasi impedita dalla memoria. Dalla memoria dei brigatisti che scrivono, parlano, raccontano tra silenzi e omertà; la memoria di chi era al potere in quei giorni e ancora ha voce oggi: più che parlare spiegando, dissimula, confonde reticente e ancora oggi nasconde che cosa è stato.

Tutto questo non ha nulla a che vedere con la memoria, per la quale il giornalista intende il semplice ricordo. né con la storia. Le accuse sono buttate lì, generiche, senza un nome, un fatto, un “fare i conti” con la storia. Tutto troppo facile, come spesso accade.

prendiamo una parte del discorso di Giorgio Napolitano in occasione del primo giorno della memoria, il 9 maggio 2008, istituito dal parlamento italiano nel 2007. anche qui troviamo degli importanti spunti di riflessione.

Questo è il giorno del ricordo e del pubblico riconoscimento che l'Italia da tempo doveva alle vittime del terrorismo. E' il giorno del sostegno morale e della vicinanza umana che l'Italia sempre deve alle loro famiglie. Ed è il giorno della riflessione su quel che il nostro paese ha vissuto in anni tra i più angosciosi della sua storia e che non vuole mai più, in alcun modo, rivivere.
Parlo del terrorismo serpeggiante in Italia a partire dalla fine degli anni '60, e infine esploso come estrema degenerazione della violenza politica ; parlo delle stragi di quella matrice e della lunga trama degli attentati, degli assassinii, dei ferimenti che insanguinarono le nostre città. L'obbiettivo che i gruppi terroristici così perseguivano era quello della destabilizzazione e del rovesciamento dell'ordine costituzionale. Dedichiamo l'incontro di oggi in Quirinale alle vittime di quell'attacco armato alla Repubblica, che seminò ferocemente lutto e dolore.
Sappiamo che nell'istituire, un anno fa, questo "Giorno della memoria" il Parlamento ha raccolto diverse proposte, comprese quelle rivolte a onorare gli italiani, militari e civili, caduti in anni recenti nel contesto delle missioni in cui il nostro paese è impegnato a sostegno della pace e contro il terrorismo internazionale, nemico insidioso capace di colpire anche a casa nostra. Alla loro memoria rinnovo l'omaggio riconoscente delle istituzioni repubblicane e della nazione. Sono certo che anche al loro sacrificio si rivolgerà pubblico omaggio nelle manifestazioni e negli incontri cui darà luogo ovunque la celebrazione del "Giorno della memoria". E colgo l'occasione per ricordare anche le vittime causate da fatti di diversa natura, dal disastro di Ustica all'intrigo delittuoso della Uno Bianca, ai caduti nell'adempimento del loro dovere e ai semplici cittadini, uomini e donne, che hanno perso la vita in torbide circostanze, su cui non sempre si è riusciti a fare pienamente chiarezza e giustizia. Più in generale, mi inchino a tutti i caduti per la Patria, per la libertà e per la legalità democratica, e dunque - come dimenticarle ! - alle tante vittime della mafia e della criminalità organizzata.


Come possiamo vedere, si tratta di un grande calderone, dove denominatori comuni sono l’essere stati uccisi e l’essere italiani, civili o militari, in guerra o in pace, non fa differenza. Però, qui viene per la prima volta nominata l’organizzazione Brigate Rosse.

La scelta della data per il "Giorno della memoria" è caduta per validi motivi sull'anniversario dell'assassinio di Aldo Moro. Perché se nel periodo da noi complessivamente considerato, si sono incrociate per qualche tempo diverse trame eversive, da un lato di destra neofascista e di impronta reazionaria, con connivenze anche in seno ad apparati dello Stato, dall'altro lato di sinistra estremista e rivoluzionaria, non c'è dubbio che dominanti siano ben presto diventate queste ultime, col dilagare del terrorismo delle Brigate Rosse. E il bersaglio più alto e significativo che esso abbia raggiunto è stato il Presidente della Democrazia Cristiana, sequestrato, tenuto prigioniero per quasi due mesi e infine con decisione spietata ucciso.


Basterebbe un conto delle vittime per definire il “tributo di sangue” (usiamo le loro parole) pagato per mano delle BR meno incisivo di quello stragista, con un rapporto di uno a tre. Si tratta forse di un riconoscimento della loro valenza politica, allora?
No, leggendo di seguito non è così. ovviamente. La loro è una logica abberrante e Moro non viene ricordato per aver detto che la DC non si sarebbe fatta processare in parlamento o nelle piazze, ma perché aveva individuato

"manifestazioni di violenza" che avevano "uno sfondo ideologico" e si collocavano "tra la lotta politica e la lotta armata" ; di qui l'"apprensione per il logoramento" cui erano "sottoposte le istituzioni e le stesse grandi correnti ideali che credono nella democrazia".


Sono costretto a fermarmi, perché il tempo è terminato e forse sono andato oltre. Vorrei concludere  con un cenno al libro di Prospero. Egli dichiarò che nello scrivere la propria autobiografia avrebbe tentato di evitare il senno di poi e di Raccontare attingendo a critiche, autocritiche, scomuniche, valutazioni o giudizi maturati a posteriori. Avrebbe cercato di far riemergere il filo dei pensieri e degli atti compiuti nel modo in cui, effettivamente questi hanno attraversato e poi portato ad agire di conseguenza.

Un proposito difficile, arduo da realizzare, ma di grande fascino. Il comportamento di chi, come detto, si appresta a scrivere di se stesso con il rigore dello storico. Serve una grande capacità di spersonalizzazione e di oggettivizzazione, universalizzazione della materia e una vicenda cristallina alle spalle. Cose che Prospero aveva.