martedì 18 giugno 2013

CALASSO, STRADA E IL DISSENSO SOVIETICO



La copertina del libro di Zilli
sulla rivoluzione russa del
1905
Strada Vittorio e Calasso Roberto si sono impegnati qualche giorno fa in una polemica sulle pagine del "Corriere" intorno alla cosiddetta "BIENNALE DEL DISSENSO". Nel 1977, infatti, venne organizzata in particolare dal Psi una sorta di mostra sul dissenso nei paesi dell'Est che vide la partecipazione - tra gli altri - di Josif Brodskij e Andrej Sinjavskij, due tra le menti più acute che la Russia abbia avuto nel secolo scorso in campo letterario. Calasso accusa Strada di aver boicottato la Biennale (il Pci ricevette da Mosca l'ordine di farla fallire), mentre l'ex professore di letteratura russa a Ca' Foscari ricorda le proprie benemerenze nel campo della difesa dei diritti civili all'Est. Si tratta di due grandi intellettuali. Strada l'ho conosciuto di persona, al contrario di Calasso, che non so neanche che faccia abbia, e devo ammettere di aver sempre ammirato i suoi lavori, specialmente quelli degli anni Sessanta. Ultimamente un amico mi ha fatto notare che, però, non ha mai citato il professore Valdo Zilli, autore di importanti studi sulla socialdemocrazia russa, già professore di storia russa all'orientale di Napoli e di cui esiste un fondo a Prato (http://web.rete.toscana.it/cultura/fondi_librari?command=showDettaglioFondo&codice=44).

Politiche accademiche, piccole ripicche, sostanzialmente misere faccende che si ripetono ancora oggi (io non cito te perché tu non citi me ecc. o, non ti cito perché mi fai ombra).

Tra i pochi studi sulla Biennale, vorrei ricordare quello di uno dei suoi organizzatori, CARLO RIPA DI MEANA, autore insieme a GABRIELLA MECUCCI del volumetto: 

L’ordine di Mosca. Fermate la Biennale del Dissenso, Roma, Liberal Edizioni, 2007, 242 pp.

ECCO UNA BREVE SCHEDA DEL LIBRO CHE SCRISSI cinque anni fa

Poco più di Trent’anni fa Carlo Ripa di Meana organizzava quella che è passata alla storia con il nome di Biennale del Dissenso. In un libro scritto tra memoria e ricerca documentale intitolato L’ordine di Mosca. Fermate la biennale del dissenso lo stesso ex deputato europeo ripercorre quei giorni e cerca di ricostruire anche la gestione politica dell’avvenimento da parte dei partiti italiani. Il libro ha il pregio di aver riaperto, dopo un periodo di oblio dovuto alla fine della Guerra Fredda e allo spostamento dell’interesse generale su altre zone geopolitiche, una discussione su un fenomeno molto importante che all’epoca vide in Italia impegnati anche gruppi alla sinistra del PCi e quotidiani come “il manifesto”, nell’intento di difendere i diritti civili e la legalità, spesso violati nei paesi allora a regime comunista.
Secondo una certa lettura, condivisa da molti studiosi e appassionati, in Italia questi temi sono stati troppo poco analizzati per ciò che erano. Se ne è di più parlato di riflesso catalizzando l’attenzione su momenti peculiari che hanno interessato da vicino la politica italiana. Purtroppo, però, un esempio del tutto arbitrario che viene portato a sostegno di questo “sentire” è proprio quello relativo alla Biennale del Dissenso. Non che il dibattito su questo episodio sia inutile, è stato recentemente affermato, ma esso viene ritenuto addirittura “alternativo” alla conoscenza dei fatti. Pur riconoscendo il ruolo della Biennale in Italia e in una certa misura anche all’estero, si afferma che ci sia molto provincialismo ingenuo e tutto italiano nel pensare che sia stata la Biennale a provocare la nascita dei principali movimenti del dissenso. In verità, Ripa di Meana nel suo libro afferma dell’altro. Si tratta della riflessione sul significato più recondito della manifestazione (dunque meno sostenibile, quasi detto in una segreta stanza a voce bassa), ed appare più un auspicio che una convinzione: “Oggi – si legge in L’ordine di Mosca – a distanza di trent’anni da quei fatti, mi domando se la Biennalle […] abbia avuto un suo significato duraturo, se sia stata, prima di tutto, come ha scritto Adriano Guerra, la più grande manifestazione indetta nell’Occidente per far conoscere e discutere il Dissenso, e se in qualche modo essa abbia contribuito in minima parte, sostenendo il vasto movimento del Dissenso, al collasso dei paesi comunisti europei”.
Certo, collegare la Biennale alla caduta dei regimi comunisti è ardito, ma è indubbio che all’Est l’episodio venne interpretato come un importante segnale, una sponda sulla quale battere in determinanti momenti, come quando, ad esempio, si rendevano necessarie campagne internazionali per la liberazione di un prigioniero politico o per il miglioramento delle condizioni di detenzione.
La Biennale del 1977, del resto, è entrata a pieno diritto nella storia del dissenso sovietico, non solo in quanto momento importante di riflessione in Occidente, ma anche perché negli stessi giorni di novembre venne organizzata a Leningrado una Biennale russa del dissenso allo scopo di dialettizzarsi con l’avvenimento veneziano. Ovviamente l’iniziativa non durò a lungo, in quanto intervennero le forze repressive, ma il dialogo aveva funzionato. Non solo. A Venezia furono presenti diversi esponenti di primo piano di quel mondo, tra cui Sacharov con un video, mentre il Partito comunista italiano, abbastanza lacerato al suo interno, cercò in tutta fretta di organizzare un contro avvenimento sfruttando la fama di Evgenij Evtušenko, un poeta spesso critico verso il Cremlino, ma molto celebrato anche dal potere, che fece alcune serate in giro per i teatri italiani. Discutere della Biennale di Ripa di Meana, dunque, una volta tanto non vuole assolutamente limitare la prospettiva alla penisola appenninica.
Al contrario di Ripa di Meana, che coglie perfettamente le implicazioni culturali e politiche del dissenso, proprio alcuni studiosi sono stati indotti in passato a identificare il fenomeno del dissenso tout-court o con singoli nomi (Aleksandr Solzenicyn, il già ricordato Sacharov) o con episodi importanti, ma non isolabili dal loro contesto storico, come per esempio Charta 77 – il documento redatto a Praga da Vaclav Havel, Jan Patocka e altri attivisti cecoslovacchi nel gennaio del 1977 al fine di promuovere il rispetto dei diritti civili nel loro paese. Charta 77, o il Gruppo Helsinki sorto in Urss con lo stesso intento in seguito alla firma degli accordi di Helsinki del 1975, rappresentarono in quel preciso momento la sintesi dell’impegno di una parte minoritaria della società – ma più conseguente, se vogliamo coraggiosa – all’interno di un mondo complesso e differenziato, formato da un numero non identificabile di soggetti che per attitudine e modo di vivere si sentivano alieni da quanto il regime proponeva.
Al di là dei singoli episodi, invece, per comprendere adeguatamente le radici del dissenso e il suo significato più nascosto si deve risalire agli anni immediatamente successivi alla morte di Stalin, perché essi segnarono la fine del drammatico periodo delle epurazioni l’inizio di una nuova fase politica nella quale il terrore inteso come strumento di repressione venne definitivamente abbandonato dai partiti comunisti al potere in Europa orientale (con qualche eccezione, come nella Romania di Ceasescu, ma in un ambito comunque diverso dal precedente). All’interno di questa logica, il dissenso trovò le sue origini come fenomeno letterario, ossia passò attraverso la riflessione degli scrittori e poi degli artisti sulla possibilità di coniugare il regime socialista con la libertà di creazione. Ciò condusse alla ricerca di vie alternative a quelle del canone scrittorio del realismo socialista (anche se, paradossalmente, l’opera di maggior impatto di Aleksandr Solzenicyn, Una giornata di Ivan Denisovic, segue tutti gli statuti del realismo socialista) e, allargando la riflessione, a nuove vie nel rapporto tra uomo-cittadino e potere. Tutto questo venne colto allora proprio da Carlo Ripa di Meana, che ebbe la capacità e anche una forte dose di volontà di organizzare una manifestazione sul dissenso (un fenomeno divenuto negli anni Settanta del Novecento prettamente politico) proprio nell’ambito di un evento culturale di primaria importanza.
Se tutto ciò è vero, e lo è, il fenomeno appare comunque più complesso e merita ulteriori riflessioni, che devono esulare dal solo contesto politico e culturale di cui si è detto. Intorno ai nomi più noti del dissenso letterario, artistico e quindi politico, infatti, troviamo una grande e imponderabile massa di persone che vivendo in un determinato modo avevano atteggiamenti di dissenso. Tali atteggiamenti si possono sintetizzare in una esistenza che non è sbagliato definire boheme, quasi da infiltrati all’interno delle maglie della società conformista, dove trovavano ricovero e riparo. Questi soggetti spesso non lavoravano ufficialmente (in Urss venne promulgata una legge sul cosiddetto “parassitismo” con la quale si colpì anche il futuro premio Nobel per la letteratura Josif Brodskij quando era ancora un ragazzo) e conducevano una propria esistenza “parallela” a quella ufficiale. Senza entrare nel dettaglio di questa vita che creò anch’essa dei “canoni”, ossia un certo tipo di conformismo “da dissidente”, (per cui, per esempio a Mosca tutte le cucine dei dissidenti erano provviste di barattoli con spezie che non esistevano in quelle di Leningrado), in termini economici si può affermare che i boheme non partecipavano attivamente al prodotto interno lordo. Siccome il loro numero, come ho già detto, non è quantificabile, ma erano moltissimi proprio là, dove il fenomeno si registrò, il problema al quale si deve cercare una risposta è: come è stato possibile tutto ciò da un punto di vista socio-economico? Non si è lontani dal vero se si afferma che avvenne grazie alla produzione di una quantità di plusvalore tale, da permettere in quei paesi una ridistribuzione della ricchezza omogenea in grado di “premiare” sia i produttori che i dissidenti (o, se si preferisce, coloro che vivevano una vita secondo dei canoni dissidenti). Dunque, accanto alla produzione di idee e agli ampi dibattiti che oggi possiamo documentare grazie al lavoro eroico dei più conseguenti di loro, esiste tutta una schiera di persone che trovò nel regime socialista un luogo all’interno del quale muoversi “vivendo da dissidente”, ossia riproducendo in maniera diffusa, ma singolare, la problematica della realizzazione del proprio io nella società, quell’individualismo che il regime socialista cercava di eliminare proprio attraverso una più equa ripartizione del prodotto interno. Il tema è accattivante. Ridurlo a un elenco scialbo di avvenimenti e a polemica della più infima fattezza, come a volte si è usi fare, appare di un provincialismo che per fortuna in molti si tende ormai a ritenere superato.
Fortunatamente il libro di Ripa di Meana si staglia oltre queste polemiche e, ricostruendo un episodio singolo ma dalle molteplici implicazioni grazie anche all’apporto di materiale inedito come quello proveniente dall’archivio del Pci conservato presso l’Istituto Gramsci di Roma, o poco conosciuto se non da un ristretto ambito di specialisti, come la documentazione raccolta da uno dei più noti dissidenti, Vladimir Bukovskij, tra il 1991 e il 1993, è diventato esso stesso un nuovo prezioso documento per la comprensione di uno degli aspetti più straordinari della vita quotidiana nei regimi comunisti.

MC


GIANGIACOMO L'EDITORE


Ivan Tolstoj, redattore di Radio Free Europe, con sede a Praga, e studioso di storia sovietica, ha dato alle stampe per la casa editrice “Vremja” di Mosca un interessante studio intitolato Otmytyj Roman Pasternak. “Doktor Živago meždu KGB i CRU“ [Il romanzo epurato di Pasternak. “Il Dottor Živago tra KGB e CIA”]. Lungo ben 492 pagine, compresa una ricca bibliografia, il libro è diviso in dieci capitoli più una appendice con alcuni documenti pubblicati nel 1958 a Monaco di Baviera e poi caduti nel dimenticatoio.
UN GIOVANE PASTERNAK
L’interesse e la novità rappresentati dal libro, che verte intorno alla vicenda della pubblicazione dell’edizione in russo del romanzo e all’assegnazione al poeta e scrittore del Premio Nobel per la letteratura nel 1958 (premio poi rifiutato), sono costituiti dalla ricostruzione minuziosa della vicenda, svolta attraverso documentazione in parte inedita. Pasteernak, però, non è l'unico protagonista del saggio; intorno al manoscritto, infatti, si muovono molte figure: editori europei interessati a pubblicare il libro nella loro lingua, uomini dei servizi statunitensi, sovietici e olandesi, intenti a bloccare le iniziative degli avversari. Com'è noto, Pasternak, poeta e scrittore conosciutissimo in patria fin dal secondo decennio del Novecento, quando partecipò alla grande stagione dell'avanguardia russa, dopo la morte di Stalin inviò all'importante giornale letterario “Novyj Mir” il manoscritto del suo unico romanzo, Il Dottor Živago. Il libro, che raccontava fuori dai canoni del realismo socialista la storia della rivoluzione bolscevica attraverso le vicende di Živago, incontrò diverse perplessità e rimase bloccato in redazione. Non si trattava di un “no” ufficiale, ma la risposta tardava ad arrivare. Nel 1956 un militante del Partito comunista italiano, Sergio D'angelo, fu inviato a Mosca a lavorare alla radio internazionalista e venne a conoscenza del manoscritto, che fece avere al suo amico Giangiacomo Feltrinelli, allora trentenne editore talentuoso e in cerca successo. Dimostrando capacità letterarie e manageriali di assoluto valore, Feltrinelli comprese la valenza del libro e decise di pubblicarlo in italiano, dopo che nel settembre del 1956 “Novyj Mir” lo aveva ufficialmente rifiutato: la vita e la morte di Živago erano state intese come la vita e la morte dell'intelligencija russa dopo la rivoluzione e l’individualismo del protagonista (e dello scrittore) come un segno quasi patologico di alienazione dai principi sovietici.
Feltrinelli ebbe dunque modo di entrare in contatto con Pasternak e dopo una serie di missive nelle quali si stabilirono le questioni legali, pubblicò l’edizione italiana di Živago nel novembre del 1957. L'edizione era importantissima per vari motivi: innanzitutto, si trattava della prima mondiale del libro; in secondo luogo, il fatto apriva per Feltrinelli un nuovo scenario per quanto concerneva i diritti del testo; infine, la pubblicazione era avvenuta resistenso alle pressioni del Pci (partito al quale Feltrinelli era iscritto) che, su input di Mosca, aveva cercato di fermare l'operazione. Quanto all'epoca le pressioni di Mosca erano importanti (almeno all'interno del mondo comunista) lo dimostra il fatto che nel luglio del 1957 la rivista polacca “Opinie” aveva pubblicato a Varsavia due capitoli del libro, ma dopo era stata costretta a chiudere.
Subito dopo l’uscita del libro in italiano si pose una questione non secondaria, alla quale si è fatto cenno, ossia quella dei diritti sulle traduzioni. Se, infatti, a partire dall’uscita della prima edizione, tempo due mesi, fosse stata pubblicata un'edizione in russo, Feltrinelli li avrebbe perduti. In caso contrario, la lingua originale del romanzo sarebbe stata considerata l’italiano e tutti gli altri editori avrebbero dovuto pagare il milanese. A favore di Feltrinelli giocava la difficoltà di pubblicare un testo in russo in tempi brevi. Di contro, il testo che egli aveva non era quello più completo. Pasternak era intervenuto in seguito e l'esito finale in lingua originale di discostava un poco da quanto pubblicato a Milano in italiano.
Secondo Ivan Tolstoj che riprende le convinzioni di molti famigliari di Pasternak e di qualche amico (e questa è una delle tesi principali del saggio) un’edizione in russo di Živago si rese subito necessaria al fine di sostenere, nel 1958, la candidatura di Pasternak al Nobel per la letteratura. Senza il libro in originale il Comitato del Nobel non avrebbe potuto assegnare il premio. Le testimonianze degli storici del Nobel, però, tendono a smentire questa circostanza, nel senso che il Comitato del premio non avrebbe mai posto alcuna condizione a nessuno. Chi scrive tende a credere a questa ipotesi, ma al di là del motivo contingente, l'edizione russa di Živago ebbe una certa importanza, rientrando in pieno nel clima di Guerra fredda dell'epoca.
In quel tempo la Guerra fredda significava anche una lotta a livello di propaganda e gli Stati Uniti finanziavano da tempo diverse iniziative in questo senso, tra cui alcune associazioni di emigrati russi, come il “Congresso per la Libertà”, guidato da Nikolaj Nabokov, che come spiega il libro, giocò un certo ruolo nella vicenda. La maggiore impresa, però, fu costituita dal cosiddetto Book Projekt, nato nel 1956 a New York sotto la direzione di George Minden, emigrato romeno (si può vedere in proposito il sito www.cryptome.org/cia-minden.htm). Minden guidava la Free Europea Press e il compito che gli venne affidato fu di coordinare la stampa di libri in qualche modo avversi ai regimi in tutte le lingue dei paesi comunisti e farli passare oltre la cortina. In poco più di 33 anni furono portati al di là del Danubio circa un milione di libri di storia, letteratura, economia, poesia. Accanto ai libri, la Cia finanziò direttamente la pubblicazione di giornali propagandistici come l’inglese “Encounter”, il tedesco “Der Monat”, il francese “Prevue” e l’italiano “Il Tempo Presente”. Tra le associazioni direttamente finanziate dalla Cia troviamo, accanto al già citato “Congresso per la libertà” una”’Unione centrale degli emigranti del dopoguerra, con sede a Monaco di Baviera, da dove trasmettevano anche alcune Radio dell'emigrazione. Se è vera l'ipotesi di Tolstoj, ossia che dopo la fine della seconda guerra mondiale era impensabile stampare libri in russo in Occidente senza la partecipazione dei servizi segreti americani, si può ipotizzare che la Cia sia stata anche dietro alla pubblicazione dell'edizione russa di Živago. Stando alla ricostruzione offerta dal libro, si direbbe che le cose siano andatte proprio in questo modo. Mentre, infatti, Feltrinelli non si decideva a stampare l’edizione in russo, perché ciò avrebbe significato diventare un nemico dichiarato dell’Urss, cosa che l’editore milanese voleva evitare, alla fine del 1957 i servizi statunitensi incaricarono tale Elsa Bernaut di cercare un contatto in occidente per la pubblicazione di Živago in originale. Furono preparati due scenari paralleli: uno coinvolse la casa editrice olandese Mouton & Co, nota per aver pubblicato in edizione reprint molti classici filologici e letterari russi ormai introvabili in patria. l’altro, più segreto, si avvaleva di una stamperia anonima che avrebbe editato il libro come se fosse stato fatto a Milano (ormai i diritti erano acquisiti da Feltrinelli), e quindi inviare l'intera tiratura Bruxelles all'Expo del 1958.
Per la pubblicazione del romanzo in russo la Cia offrì 10.000 dollari a Peter de Ridder, redattore di Mouton, ed egli accettò, pur sapendo che da quel momento la casa editrice avrebbe partecipato non più a un discorso culturale, ma si sarebbe posta all'interno di un contesto politico ben preciso Feltrinelli, pur consultato in modo ufficioso, non ebbe sentore di quanto stesse accadendo e. Peter de Ridder, dunque, si incaricò di preparare le circa 1000 copie del libro,
Non appena l'edizione fu pronta e stava per essere consegnata per la distribuzione all'Expo, Feltrinelli venne informato e si precipitò in Olanda, dove ebbe modo di intervenire per rimediare a quella che era una edizione pirata del libro. Incontratosi con la direzione della casa editrice, viene presa la decisione di cambiare il colophon di tutte le copie, che venne sostituito con uno portante la scritta, in russo, Giangiacomo Feltrinelli (con due errori di trascrizione in cirillico per la fretta: G anziché Dzh per il nome e la mancanza di un apostrofo dopo la “l” del cognome). La Cia non era contraria a questa soluzione e, anzi, poté portare a termine la propria provocazione sotto una copertura ufficiale: all'inizio di settembre del 1958 le mille copie del Živago in originale furono distribuite all'Expo di Bruxelles di fronte alla delegazione sovitica. Non volendo, Feltrinelli vi aveva partecipato. Passarono pochi giorni, e il mondo seppe che quell'anno il premio Nobel per la letteratura sarebbe andato proprio a Pasternak, secondo russo dopo Bunin, che, però, a causa delle pressioni del governo sovietico, avrebbe poi rifiutato.  

lunedì 17 giugno 2013

TURCHIA 3. COSA FA TAYYIB?


Cosa fa Tayyib

by Günes Koç, Istanbul


Questa è la domanda che si presenta a ogni turco oggi. Nel suo discorso di Kazliceme del 16 giugno Erdogan ha dichiarato guerra a quanti sono nell’opposizione e sostengono la resistenza. Il discorso ha mostrato che l’atteggiamento autoritario di Erdogan potrebbe essere il preludio a un vero totalitarismo. Il primo ministro ha annunciato che prenderà provvedimenti contro i mezzi di comunicazione che hanno mostrato le violenze della polizia nonostante il blackout imposto ai media, contro gli artisti che sostengono la resistenza, i direttori e gli insegnanti delle scuole che hanno consentito agli studenti di prendere parte alle manifestazioni, i medici e gli avvocati impegnati nel movimento, gli imprenditori come, Koc o Boyner, che sostengono la resistenza. E ha anche accennato al fatto che saranno arrestate e punite singolarmente tutte le persone che in qualche modo possono essere ricollegate al movimento. Allo stesso tempo, Tayyib Erdogan ha dichiarato legittimo ogni atto di forza della polizia perché la protesta è stata usata da gruppi “marginali” per terrorizzare la società. Ha quindi ricordato che i paesi sviluppati occidentali permettono alle proprie forze dell’ordine l’uso delle armi contro quanti provocano danni durante una manifestazione o minacciano le istituzioni.
Dunque, ancora una volta i manifestanti sono stati chiamati “gruppi marginali di provocatori e vandali” scesi in piazza solo per usare violenza contro la polizia; allo stesso tempo, sono state ripetute le menzogne degli ultimi giorni riguardo l’atteggiamento dei giovani di piazza Taksim, l’uso di sostanze alcoliche nelle moschee e i pestaggi di donne con il velo. Vandali senza dio, terroristi pronti a colpire il nucleo sano della società: queste sarebbero le nuove generazioni della Turchia, con le quali il governo non dà alcun segnale di voler dialogare. Anzi, il primo ministro ha sottolineato come in questo momento sia difficile “tenere a casa” la maggioranza che lo sostiene, che sarebbe pronta a liquidare l’opposizione con un atto di forza (e di guerra civile).
Erdogan ha diviso nettamente il popolo turco in due campi: i buoni musulmani, che sono i suoi elettori e quindi rappresentano la “maggioranza”, e i “senza Dio”, i terroristi, la minoranza che ha dichiarato guerra alla Turchia appoggiata dai media internazionali come la BBC, la CNN e la Reuters e che sono strumento di una non meglio specificata “cospirazione internazionale”. Per risolvere la grave situazione, il primo ministro ha chiesto i poteri assoluti, respingendo l’intromissione dell’UE e sottolineando l’importanza per il suo paese di restare “indipendente”. Il mondo, ha concluso, vedrà ora “il vero presidente”. In altre parole, Erdogan sembra pronto a scatenare una guerra civile. Ma a che scopo? Per quale motivo? Per portare a termine – finalmente – la vendetta storica sul kemalismo, da sostituire con uno stato assolutista e confessionale? Perché vuole diventare lui il presidente di una nuova Repubblica?
Dopo il suo discorso, seguaci di Erdogan pattugliano strade con coltelli, bastoni e spranghe e in alcuni casi hanno già assalito giovani al grido di “Allahuhekber” e “Siamo tutti soldati di Erdogan”. Istanbul sta vivendo uno stato d’emergenza non dichiarato. La vita normale è un ricordo. La città non dorme più, c’è sempre gente in strada. Tutti sono con la mente a Gezi e piazza Taksim e nonostante le provocazioni del governo, non solo verbali, fino ad oggi i manifestanti sono rimasti pacifici.
Ma gli arresti si sono intensificati e molte persone “scompaiono”, come lamentano gli avvocati, ai quali è impedito per ora ogni contatto con loro. Vi è un triste stato d’animo tra la gente perché non è chiaro per quanto tempo si potrà andare avanti. Giri per strada e senti dire: “Nessuno ha più una vera vita sessuale a casa, nessuno riesce più a rilassarsi. Tutti vogliono stare svegli, allerta. “Bu Daha Baslangic, mücadeleye devam”, ossia, “Questo è solo l’inizio. La lotta continua”. E già si dice che Tayyib giocherà la sua ultima battaglia fino allo strenuo, perché deve dimostrare che non è vero quello che in molti cominciano a credere. Che la sua fine è prossima.

domenica 16 giugno 2013

DALLA TURCHIA - 2





by Günes Koç (Istanbul, Piazza Taksim)

Sebbene la polizia abbia disperso con gas lacrimogeni e cannoni ad acqua il movimento di protesta che da più di due settimane occupava il Parco Gezi a Istanbul per impedirne la distruzione – movimento al quale partecipano anche bambini e anziani – la resistenza popolare si è estesa in altre parti della città e in nuovi centri della Turchia, prendendo in alcuni casi gli aspetti di una rivolta popolare. Dopo un paio d’ore dall’inizio dell’operazione del 15 giugno un comunicato stampa del governatore di Istanbul, Hüseyin Avni Mutlu, affermava che la polizia non aveva attaccato il Parco e che le persone avevano deciso spontaneamente di porre termine all’occupazione, liberando la piazza. Con la falsa retorica propria del partito di Erdogan (il Partito della Giustizia e lo Sviluppo – Adalet ve Kalkınma Partisi- d’ora in poi AKP), ha poi dichiarato che gli unici scontri registrati erano quelli con gruppi marginali di manifestanti e che ormai la polizia aveva assunto il controllo dell’ordine pubblico, indicando nei media stranieri la fonte di disinformazione per colpire la Turchia. In breve, ogni parola di Hüseyin Avni Mutlu è stata smentita dalle notizie che arrivavano direttamente dalla piazza attraverso le numerosi fonti indipendenti. E si è scoperto che quanto stava accadendo in Turchia il 15 giugno era la soppressione del maggiore movimento di protesta dagli anni ’70 e per alcuni politici dell’opposizione e giornalisti di testate non controllate dal governo, addirittura della più ampia protesta nella storia della Repubblica. A parte la speculazione politica su quanto grande sia stata la rivolta e forte la resistenza, una cosa è certa, ossia che il movimento è stato fronteggiato con un grande spiegamento di forze di polizia, supportate in alcuni luoghi dall’esercito. Cosa che ci offre l’idea dell’ampiezza e della forza del movimento e della resistenza incontrata dalle forze repressive. La vastità della protesta dimostra anche che la resistenza di Parco Gezi ha trovato piena legittimazione all'interno della popolazione, mentre le menzogne, la disinformazione e la manipolazione dell’informazione da parte del governo sono uno dei segnali che indicano il modo in cui il partito di Erdogan ha reagito. Nel suo discorso del 16 giugno lo stesso primo ministro ha voluto dimostrare la solidità del proprio elettorato e il sostegno che egli godrebbe all’interno del paese. In realtà, egli cerca con il brutale uso della forza di sostenere il proprio potere e la politica di divisione della società in buoni e cattivi cittadini cominciata dal governo dopo l’occupazione del Parco Gezi il primo giugno.
Nonostante gli sforzi di Erdogan di mantenere intatto il proprio potere, ormai non si può più parlare dell’AKP come di una struttura omogenea, perché alcuni ministri sono pronti alle dimissioni dopo aver espresso, insieme ad altri influenti membri del partito, forti critiche sull’intervento del 15 giugno. Accanto alla dirigenza, anche gli elettori sono divisi. Se, per esempio, il conflitto in atto dovesse degenerare e sfociare in scontri ancora più sanguinosi, Erdogan è convinto che i suoi elettori – il cosiddetto “50% della Turchia” – darebbe forza e sostegno al governo, ma tra le conseguenze negative dall’intervento del 15 giugno si registra a caldo un immediato calo di fiducia per Erdogan e la diffusione dell’idea che sia stato il suo governo a dichiarare guerra al popolo, e non il contrario. Ciò si deve alla brutalità dell’intervento con cui è stato sgomberato Parco Gezi. Dopo lo sgombero del Parco Gezi l’opposizione chiede a gran voce le dimissioni di Erdogan, mentre dal movimento si fa sapere che “La resistenza continua. Questo è solo l’inizio”. E la resistenza si è ormai estesa alla parte anatolica di Istanbul, sebbene i tentativi dei manifestanti di attraversare il grande ponte che unisce i due continenti fino a ieri (16 giugno) sono stati resi vani dai gas della polizia. Così tutta Istanbul sta diventando progressivamente una piazza che accoglie la dilagante protesta. E la resistenza, con il corpo e il cuore spezzati a Gezi dall’intervento della polizia, si riforma altrove, pronta a gridare a gran voce: “Sik sik bakalım bakalım, kaskini Cikar, copunu Birak deli kanli kim bakalım!” (Sparaci pure con il gas e l’acqua ma togliti il casco e posa il manganello. Lo vedremo allora chi è il più forte, chi è l’uomo”). E ancora: “Ovunque Taksim, ovunque Resistenza!”

DALLA TURCHIA - 1





by Günes Koç (Istanbul, Piazza Taksim)


Il movimento universalmente noto come #Resistgezi (in turco Direngezi) aveva chiuso da poco la sua seconda settimana di vita, quando nella notte del diciottesimo giorno, il 15 giugno, è stato brutalmente attaccato e disperso con una grande operazione di polizia che ha usato centinaia di  lacrimogeni, idranti e gas chimici. Le strade di Istanbul sono state chiuse, il trasporto pubblico fermato. I manifestanti in fuga sono stati rincorsi fin dentro il grande albergo di Piazza Taksim, l’Hotel Divan, ed è stato attaccato finanche l’ospedale tedesco che sorge nelle vicinanze dove erano stati soccorsi alcuni feriti. Secondo alcune testimonianze, frammista all’acqua sparata dagli idranti ci sarebbe stato anche dell’acido che avrebbe ustionato diversi manifestanti, ma si tratta di una informazione da verificare.
Almeno dall’11 giugno, da quando cioè al Parco Gezi e in altre città della Turchia si sono registrati forti scontri tra polizia e manifestanti, è stato chiaro a tutti che non si poteva avere più fiducia nel governo di Ankara, nelle sue promesse e dichiarazioni.
Il governo, infatti, fin dall’inizio della protesta ha fatto della disinformazione e del silenzio imposto a gran parte della stampa un’arma politica, manipolando le poche notizie che filtravano sui motivi della resistenza. Si tratta di un punto importante sul quale è bene soffermarsi. La manipolazione dell’informazione, infatti, ha ottenuto almeno inizialmente un grande impatto sull’opinione pubblica ed è divenuta una costante nelle strategie comunicative di Erdogan e della sua parte politica, il Partito della Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi- d’ora in poi AKP). Al punto che l’esecutivo è stato ribattezzato sui social-network e sui principali organi di informazione indipendenti “il governo delle bugie di Erdogan”. Per capire il grado di manipolazione messo in atto dall’AKP attraverso i suoi slogan: “Noi siamo il Partito del Popolo” e “Noi rappresentiamo la maggioranza”, vediamo quali sono state, fino ad oggi, le principali falsità diffuse attraverso i mezzi di comunicazione.
La prima evidente menzogna di Erdogan è stata la dichiarazione che un gruppo di manifestanti, attaccati e feriti durante uno dei primi scontri, rifugiatisi nella moschea di Dolmabahce,  avrebbero portato con sé bevande alcoliche, consumate poi all’interno del luogo sacro. “Questi marginali – recitava uno slogan del governo – sono contro le nostre tradizioni e la nostra religione”. Per compattare la parte conservatrice dell’elettorato e porre in pessima luce i dimostranti, Erdogan ha insistito molto su questo punto, sottolineando più volte che “hanno bevuto alcolici nella nostra moschea”. Una seconda bugia del partito di governo, che ha avuto in grande impatto sulla parte dell’opinione pubblica più nazionalista, è stata quella secondo la quale i manifestanti di Gezi avrebbero bruciato la bandiera turca. Il sindaco di Ankara, Melih Gökcek, ha poi affermato che all’interno delle tende del Parco Gezi “accadeva ogni sconcezza” e che i manifestanti erano persone senza morale. A questa serie di dichiarazioni si è aggiunta la notizia di presunti pestaggi da parte dei manifestanti contro donne con il velo passate casualmente nei pressi del parco. Infine, la menzogna più consistente, riguardante l’attesa del pronunciamento dell’Alta corte di giustizia e l’indizione di un referendum sul destino del Paco Gezi.
La reazione a queste provocazioni è stata forte, anche se i gli occupanti del Parco sono stati costretti sulla difensiva per cercare di dimostrare l’infondatezza delle accuse. Un importante gruppo di donne con il velo ha diffuso un comunicato nel quale affermano di essere parte della resistenza, mentre l’imam della moschea di Dolmabahce ha smentito la notizia sulla profanazione del luogo e ha affermato che lì si è solo proceduto alla cura e alla difesa dei feriti.
Si tratta di pochi esempi, che sono però indicativi di quanto alto sia il livello dello scontro politico e sociale in atto a piazza Taksim. Del resto, la manipolazione dell’informazione si è intensificata in seguito agli attacchi della polizia a partire dall’11 giugno, quando si è parlato di “trattative in corso” tra manifestanti e governo. In realtà, il gruppo di persone che il 12 giugno si è incontrato con il governo non è stato riconosciuto come rappresentativo da Gezi e solo la delegazione del 13 giugno, che aveva aperto nuovi negoziati con il governo, aveva avuto mandato dalla piazza. I negoziati, però, si sono conclusi senza che da parte del governo venissero fatte concessioni accettabili: le richieste del movimento sono state respinte e per questo la delegazione ha deciso di continuare con l’occupazione e la resistenza. Nel suo intervento di sabato 15 giugno, quindi, Erdogan ha bollato come marginali i manifestanti e dichiarato illegittima l’occupazione, lasciando intendere che si prospettava un nuovo intervento della polizia, sebbene non a breve. Fino ad oggi, la sua ultima mezogna.