La copertina del libro di Zilli sulla rivoluzione russa del 1905 |
Politiche accademiche, piccole ripicche, sostanzialmente misere faccende che si ripetono ancora oggi (io non cito te perché tu non citi me ecc. o, non ti cito perché mi fai ombra).
Tra i pochi studi sulla Biennale, vorrei ricordare quello di uno dei suoi organizzatori, CARLO RIPA DI MEANA, autore insieme a GABRIELLA MECUCCI del volumetto:
L’ordine di Mosca. Fermate la Biennale del Dissenso, Roma, Liberal Edizioni, 2007, 242 pp.
ECCO UNA BREVE SCHEDA DEL LIBRO CHE SCRISSI cinque anni fa
Poco più di
Trent’anni fa Carlo Ripa di Meana organizzava quella che è passata alla storia
con il nome di Biennale del Dissenso. In un libro scritto tra memoria e ricerca
documentale intitolato L’ordine di Mosca. Fermate la biennale del dissenso lo stesso ex deputato europeo ripercorre quei giorni
e cerca di ricostruire anche la gestione politica dell’avvenimento da parte dei
partiti italiani. Il libro ha il pregio di aver riaperto, dopo un periodo di
oblio dovuto alla fine della Guerra Fredda e allo spostamento dell’interesse
generale su altre zone geopolitiche, una discussione su un fenomeno molto
importante che all’epoca vide in Italia impegnati anche gruppi alla sinistra
del PCi e quotidiani come “il manifesto”, nell’intento di difendere i diritti
civili e la legalità, spesso violati nei paesi allora a regime comunista.
Secondo una
certa lettura, condivisa da molti studiosi e appassionati, in Italia questi temi
sono stati troppo poco analizzati per ciò che erano. Se ne è di più parlato di
riflesso catalizzando l’attenzione su momenti peculiari che hanno interessato
da vicino la politica italiana. Purtroppo, però, un esempio del tutto
arbitrario che viene portato a sostegno di questo “sentire” è proprio quello
relativo alla Biennale del Dissenso. Non che il dibattito su questo episodio
sia inutile, è stato recentemente affermato, ma esso viene ritenuto addirittura
“alternativo” alla conoscenza dei fatti. Pur riconoscendo il ruolo della
Biennale in Italia e in una certa misura anche all’estero, si afferma che ci
sia molto provincialismo ingenuo e tutto italiano nel pensare che sia stata la
Biennale a provocare la nascita dei principali movimenti del dissenso. In
verità, Ripa di Meana nel suo libro afferma dell’altro. Si tratta della
riflessione sul significato più recondito della manifestazione (dunque meno
sostenibile, quasi detto in una segreta stanza a voce bassa), ed appare più un
auspicio che una convinzione: “Oggi – si legge in L’ordine di Mosca – a distanza di trent’anni da quei fatti, mi domando
se la Biennalle […] abbia avuto un suo significato duraturo, se sia stata,
prima di tutto, come ha scritto Adriano Guerra, la più grande manifestazione
indetta nell’Occidente per far conoscere e discutere il Dissenso, e se in
qualche modo essa abbia contribuito in minima parte, sostenendo il vasto
movimento del Dissenso, al collasso dei paesi comunisti europei”.
Certo,
collegare la Biennale alla caduta dei regimi comunisti è ardito, ma è indubbio
che all’Est l’episodio venne interpretato come un importante segnale, una
sponda sulla quale battere in determinanti momenti, come quando, ad esempio, si
rendevano necessarie campagne internazionali per la liberazione di un
prigioniero politico o per il miglioramento delle condizioni di detenzione.
La Biennale
del 1977, del resto, è entrata a pieno diritto nella storia del dissenso
sovietico, non solo in quanto momento importante di riflessione in Occidente,
ma anche perché negli stessi giorni di novembre venne organizzata a Leningrado
una Biennale russa del dissenso allo
scopo di dialettizzarsi con
l’avvenimento veneziano. Ovviamente l’iniziativa non durò a lungo, in quanto
intervennero le forze repressive, ma il dialogo aveva funzionato. Non solo. A
Venezia furono presenti diversi esponenti di primo piano di quel mondo, tra cui
Sacharov con un video, mentre il Partito comunista italiano, abbastanza
lacerato al suo interno, cercò in tutta fretta di organizzare un contro
avvenimento sfruttando la fama di Evgenij Evtušenko, un poeta spesso critico
verso il Cremlino, ma molto celebrato anche dal potere, che fece alcune serate
in giro per i teatri italiani. Discutere della Biennale di Ripa di Meana,
dunque, una volta tanto non vuole assolutamente limitare la prospettiva alla
penisola appenninica.
Al contrario
di Ripa di Meana, che coglie perfettamente le implicazioni culturali e
politiche del dissenso, proprio alcuni studiosi sono stati indotti in passato a
identificare il fenomeno del dissenso tout-court o con singoli nomi (Aleksandr Solzenicyn, il già ricordato Sacharov) o
con episodi importanti, ma non isolabili dal loro contesto storico, come per
esempio Charta 77 – il documento
redatto a Praga da Vaclav Havel, Jan Patocka e altri attivisti cecoslovacchi nel
gennaio del 1977 al fine di promuovere il rispetto dei diritti civili nel loro
paese. Charta 77, o il Gruppo
Helsinki sorto in Urss con lo stesso intento in seguito alla firma degli
accordi di Helsinki del 1975, rappresentarono in quel preciso momento la
sintesi dell’impegno di una parte minoritaria della società – ma più
conseguente, se vogliamo coraggiosa – all’interno di un mondo complesso e differenziato,
formato da un numero non identificabile di soggetti che per attitudine e modo
di vivere si sentivano alieni da quanto il regime proponeva.
Al di là dei
singoli episodi, invece, per comprendere adeguatamente le radici del dissenso e
il suo significato più nascosto si deve risalire agli anni immediatamente
successivi alla morte di Stalin, perché essi segnarono la fine del drammatico periodo
delle epurazioni l’inizio di una nuova fase politica nella quale il terrore
inteso come strumento di repressione venne definitivamente abbandonato dai partiti
comunisti al potere in Europa orientale (con qualche eccezione, come nella
Romania di Ceasescu, ma in un ambito comunque diverso dal precedente).
All’interno di questa logica, il dissenso trovò le sue origini come fenomeno
letterario, ossia passò attraverso la riflessione degli scrittori e poi degli
artisti sulla possibilità di coniugare il regime socialista con la libertà di
creazione. Ciò condusse alla ricerca di vie alternative a quelle del canone
scrittorio del realismo socialista (anche se, paradossalmente, l’opera di
maggior impatto di Aleksandr Solzenicyn, Una giornata di Ivan Denisovic, segue tutti gli statuti del realismo socialista) e,
allargando la riflessione, a nuove vie nel rapporto tra uomo-cittadino e
potere. Tutto questo venne colto allora proprio da Carlo Ripa di Meana, che
ebbe la capacità e anche una forte dose di volontà di organizzare una
manifestazione sul dissenso (un fenomeno divenuto negli anni Settanta del
Novecento prettamente politico) proprio nell’ambito di un evento culturale di
primaria importanza.
Se tutto ciò è
vero, e lo è, il fenomeno appare comunque più complesso e merita ulteriori
riflessioni, che devono esulare dal solo contesto politico e culturale di cui
si è detto. Intorno ai nomi più noti del dissenso letterario, artistico e
quindi politico, infatti, troviamo una grande e imponderabile massa di persone che
vivendo in un determinato modo avevano atteggiamenti di dissenso. Tali atteggiamenti si possono sintetizzare in una
esistenza che non è sbagliato definire boheme, quasi da infiltrati all’interno
delle maglie della società conformista, dove trovavano ricovero e riparo. Questi
soggetti spesso non lavoravano ufficialmente (in Urss venne promulgata una
legge sul cosiddetto “parassitismo” con la quale si colpì anche il futuro
premio Nobel per la letteratura Josif Brodskij quando era ancora un ragazzo) e conducevano
una propria esistenza “parallela” a quella ufficiale. Senza entrare nel
dettaglio di questa vita che creò anch’essa dei “canoni”, ossia un certo tipo
di conformismo “da dissidente”, (per cui, per esempio a Mosca tutte le cucine
dei dissidenti erano provviste di barattoli con spezie che non esistevano in
quelle di Leningrado), in termini economici si può affermare che i boheme non partecipavano attivamente al prodotto interno lordo.
Siccome il loro numero, come ho già detto, non è quantificabile, ma erano
moltissimi proprio là, dove il fenomeno si registrò, il problema al quale si
deve cercare una risposta è: come è stato possibile tutto ciò da un punto di vista
socio-economico? Non si è lontani dal vero se si afferma che avvenne grazie
alla produzione di una quantità di plusvalore tale, da permettere in quei paesi
una ridistribuzione della ricchezza omogenea in grado di “premiare” sia i
produttori che i dissidenti (o, se si preferisce, coloro che vivevano una vita secondo
dei canoni dissidenti). Dunque,
accanto alla produzione di idee e agli ampi dibattiti che oggi possiamo
documentare grazie al lavoro eroico dei più conseguenti di loro, esiste tutta
una schiera di persone che trovò nel regime socialista un luogo all’interno del
quale muoversi “vivendo da dissidente”, ossia riproducendo in maniera diffusa,
ma singolare, la problematica della realizzazione del proprio io nella società, quell’individualismo che il regime
socialista cercava di eliminare proprio attraverso una più equa ripartizione
del prodotto interno. Il tema è accattivante. Ridurlo a un elenco scialbo di avvenimenti
e a polemica della più infima fattezza, come a volte si è usi fare, appare di
un provincialismo che per fortuna in molti si tende ormai a ritenere superato.
Fortunatamente
il libro di Ripa di Meana si staglia oltre queste polemiche e, ricostruendo un
episodio singolo ma dalle molteplici implicazioni grazie anche all’apporto di
materiale inedito come quello proveniente dall’archivio del Pci conservato
presso l’Istituto Gramsci di Roma, o poco conosciuto se non da un ristretto
ambito di specialisti, come la documentazione raccolta da uno dei più noti
dissidenti, Vladimir Bukovskij, tra il 1991 e il 1993, è diventato esso stesso
un nuovo prezioso documento per la comprensione di uno degli aspetti più
straordinari della vita quotidiana nei regimi comunisti.
MC
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