martedì 18 giugno 2013

CALASSO, STRADA E IL DISSENSO SOVIETICO



La copertina del libro di Zilli
sulla rivoluzione russa del
1905
Strada Vittorio e Calasso Roberto si sono impegnati qualche giorno fa in una polemica sulle pagine del "Corriere" intorno alla cosiddetta "BIENNALE DEL DISSENSO". Nel 1977, infatti, venne organizzata in particolare dal Psi una sorta di mostra sul dissenso nei paesi dell'Est che vide la partecipazione - tra gli altri - di Josif Brodskij e Andrej Sinjavskij, due tra le menti più acute che la Russia abbia avuto nel secolo scorso in campo letterario. Calasso accusa Strada di aver boicottato la Biennale (il Pci ricevette da Mosca l'ordine di farla fallire), mentre l'ex professore di letteratura russa a Ca' Foscari ricorda le proprie benemerenze nel campo della difesa dei diritti civili all'Est. Si tratta di due grandi intellettuali. Strada l'ho conosciuto di persona, al contrario di Calasso, che non so neanche che faccia abbia, e devo ammettere di aver sempre ammirato i suoi lavori, specialmente quelli degli anni Sessanta. Ultimamente un amico mi ha fatto notare che, però, non ha mai citato il professore Valdo Zilli, autore di importanti studi sulla socialdemocrazia russa, già professore di storia russa all'orientale di Napoli e di cui esiste un fondo a Prato (http://web.rete.toscana.it/cultura/fondi_librari?command=showDettaglioFondo&codice=44).

Politiche accademiche, piccole ripicche, sostanzialmente misere faccende che si ripetono ancora oggi (io non cito te perché tu non citi me ecc. o, non ti cito perché mi fai ombra).

Tra i pochi studi sulla Biennale, vorrei ricordare quello di uno dei suoi organizzatori, CARLO RIPA DI MEANA, autore insieme a GABRIELLA MECUCCI del volumetto: 

L’ordine di Mosca. Fermate la Biennale del Dissenso, Roma, Liberal Edizioni, 2007, 242 pp.

ECCO UNA BREVE SCHEDA DEL LIBRO CHE SCRISSI cinque anni fa

Poco più di Trent’anni fa Carlo Ripa di Meana organizzava quella che è passata alla storia con il nome di Biennale del Dissenso. In un libro scritto tra memoria e ricerca documentale intitolato L’ordine di Mosca. Fermate la biennale del dissenso lo stesso ex deputato europeo ripercorre quei giorni e cerca di ricostruire anche la gestione politica dell’avvenimento da parte dei partiti italiani. Il libro ha il pregio di aver riaperto, dopo un periodo di oblio dovuto alla fine della Guerra Fredda e allo spostamento dell’interesse generale su altre zone geopolitiche, una discussione su un fenomeno molto importante che all’epoca vide in Italia impegnati anche gruppi alla sinistra del PCi e quotidiani come “il manifesto”, nell’intento di difendere i diritti civili e la legalità, spesso violati nei paesi allora a regime comunista.
Secondo una certa lettura, condivisa da molti studiosi e appassionati, in Italia questi temi sono stati troppo poco analizzati per ciò che erano. Se ne è di più parlato di riflesso catalizzando l’attenzione su momenti peculiari che hanno interessato da vicino la politica italiana. Purtroppo, però, un esempio del tutto arbitrario che viene portato a sostegno di questo “sentire” è proprio quello relativo alla Biennale del Dissenso. Non che il dibattito su questo episodio sia inutile, è stato recentemente affermato, ma esso viene ritenuto addirittura “alternativo” alla conoscenza dei fatti. Pur riconoscendo il ruolo della Biennale in Italia e in una certa misura anche all’estero, si afferma che ci sia molto provincialismo ingenuo e tutto italiano nel pensare che sia stata la Biennale a provocare la nascita dei principali movimenti del dissenso. In verità, Ripa di Meana nel suo libro afferma dell’altro. Si tratta della riflessione sul significato più recondito della manifestazione (dunque meno sostenibile, quasi detto in una segreta stanza a voce bassa), ed appare più un auspicio che una convinzione: “Oggi – si legge in L’ordine di Mosca – a distanza di trent’anni da quei fatti, mi domando se la Biennalle […] abbia avuto un suo significato duraturo, se sia stata, prima di tutto, come ha scritto Adriano Guerra, la più grande manifestazione indetta nell’Occidente per far conoscere e discutere il Dissenso, e se in qualche modo essa abbia contribuito in minima parte, sostenendo il vasto movimento del Dissenso, al collasso dei paesi comunisti europei”.
Certo, collegare la Biennale alla caduta dei regimi comunisti è ardito, ma è indubbio che all’Est l’episodio venne interpretato come un importante segnale, una sponda sulla quale battere in determinanti momenti, come quando, ad esempio, si rendevano necessarie campagne internazionali per la liberazione di un prigioniero politico o per il miglioramento delle condizioni di detenzione.
La Biennale del 1977, del resto, è entrata a pieno diritto nella storia del dissenso sovietico, non solo in quanto momento importante di riflessione in Occidente, ma anche perché negli stessi giorni di novembre venne organizzata a Leningrado una Biennale russa del dissenso allo scopo di dialettizzarsi con l’avvenimento veneziano. Ovviamente l’iniziativa non durò a lungo, in quanto intervennero le forze repressive, ma il dialogo aveva funzionato. Non solo. A Venezia furono presenti diversi esponenti di primo piano di quel mondo, tra cui Sacharov con un video, mentre il Partito comunista italiano, abbastanza lacerato al suo interno, cercò in tutta fretta di organizzare un contro avvenimento sfruttando la fama di Evgenij Evtušenko, un poeta spesso critico verso il Cremlino, ma molto celebrato anche dal potere, che fece alcune serate in giro per i teatri italiani. Discutere della Biennale di Ripa di Meana, dunque, una volta tanto non vuole assolutamente limitare la prospettiva alla penisola appenninica.
Al contrario di Ripa di Meana, che coglie perfettamente le implicazioni culturali e politiche del dissenso, proprio alcuni studiosi sono stati indotti in passato a identificare il fenomeno del dissenso tout-court o con singoli nomi (Aleksandr Solzenicyn, il già ricordato Sacharov) o con episodi importanti, ma non isolabili dal loro contesto storico, come per esempio Charta 77 – il documento redatto a Praga da Vaclav Havel, Jan Patocka e altri attivisti cecoslovacchi nel gennaio del 1977 al fine di promuovere il rispetto dei diritti civili nel loro paese. Charta 77, o il Gruppo Helsinki sorto in Urss con lo stesso intento in seguito alla firma degli accordi di Helsinki del 1975, rappresentarono in quel preciso momento la sintesi dell’impegno di una parte minoritaria della società – ma più conseguente, se vogliamo coraggiosa – all’interno di un mondo complesso e differenziato, formato da un numero non identificabile di soggetti che per attitudine e modo di vivere si sentivano alieni da quanto il regime proponeva.
Al di là dei singoli episodi, invece, per comprendere adeguatamente le radici del dissenso e il suo significato più nascosto si deve risalire agli anni immediatamente successivi alla morte di Stalin, perché essi segnarono la fine del drammatico periodo delle epurazioni l’inizio di una nuova fase politica nella quale il terrore inteso come strumento di repressione venne definitivamente abbandonato dai partiti comunisti al potere in Europa orientale (con qualche eccezione, come nella Romania di Ceasescu, ma in un ambito comunque diverso dal precedente). All’interno di questa logica, il dissenso trovò le sue origini come fenomeno letterario, ossia passò attraverso la riflessione degli scrittori e poi degli artisti sulla possibilità di coniugare il regime socialista con la libertà di creazione. Ciò condusse alla ricerca di vie alternative a quelle del canone scrittorio del realismo socialista (anche se, paradossalmente, l’opera di maggior impatto di Aleksandr Solzenicyn, Una giornata di Ivan Denisovic, segue tutti gli statuti del realismo socialista) e, allargando la riflessione, a nuove vie nel rapporto tra uomo-cittadino e potere. Tutto questo venne colto allora proprio da Carlo Ripa di Meana, che ebbe la capacità e anche una forte dose di volontà di organizzare una manifestazione sul dissenso (un fenomeno divenuto negli anni Settanta del Novecento prettamente politico) proprio nell’ambito di un evento culturale di primaria importanza.
Se tutto ciò è vero, e lo è, il fenomeno appare comunque più complesso e merita ulteriori riflessioni, che devono esulare dal solo contesto politico e culturale di cui si è detto. Intorno ai nomi più noti del dissenso letterario, artistico e quindi politico, infatti, troviamo una grande e imponderabile massa di persone che vivendo in un determinato modo avevano atteggiamenti di dissenso. Tali atteggiamenti si possono sintetizzare in una esistenza che non è sbagliato definire boheme, quasi da infiltrati all’interno delle maglie della società conformista, dove trovavano ricovero e riparo. Questi soggetti spesso non lavoravano ufficialmente (in Urss venne promulgata una legge sul cosiddetto “parassitismo” con la quale si colpì anche il futuro premio Nobel per la letteratura Josif Brodskij quando era ancora un ragazzo) e conducevano una propria esistenza “parallela” a quella ufficiale. Senza entrare nel dettaglio di questa vita che creò anch’essa dei “canoni”, ossia un certo tipo di conformismo “da dissidente”, (per cui, per esempio a Mosca tutte le cucine dei dissidenti erano provviste di barattoli con spezie che non esistevano in quelle di Leningrado), in termini economici si può affermare che i boheme non partecipavano attivamente al prodotto interno lordo. Siccome il loro numero, come ho già detto, non è quantificabile, ma erano moltissimi proprio là, dove il fenomeno si registrò, il problema al quale si deve cercare una risposta è: come è stato possibile tutto ciò da un punto di vista socio-economico? Non si è lontani dal vero se si afferma che avvenne grazie alla produzione di una quantità di plusvalore tale, da permettere in quei paesi una ridistribuzione della ricchezza omogenea in grado di “premiare” sia i produttori che i dissidenti (o, se si preferisce, coloro che vivevano una vita secondo dei canoni dissidenti). Dunque, accanto alla produzione di idee e agli ampi dibattiti che oggi possiamo documentare grazie al lavoro eroico dei più conseguenti di loro, esiste tutta una schiera di persone che trovò nel regime socialista un luogo all’interno del quale muoversi “vivendo da dissidente”, ossia riproducendo in maniera diffusa, ma singolare, la problematica della realizzazione del proprio io nella società, quell’individualismo che il regime socialista cercava di eliminare proprio attraverso una più equa ripartizione del prodotto interno. Il tema è accattivante. Ridurlo a un elenco scialbo di avvenimenti e a polemica della più infima fattezza, come a volte si è usi fare, appare di un provincialismo che per fortuna in molti si tende ormai a ritenere superato.
Fortunatamente il libro di Ripa di Meana si staglia oltre queste polemiche e, ricostruendo un episodio singolo ma dalle molteplici implicazioni grazie anche all’apporto di materiale inedito come quello proveniente dall’archivio del Pci conservato presso l’Istituto Gramsci di Roma, o poco conosciuto se non da un ristretto ambito di specialisti, come la documentazione raccolta da uno dei più noti dissidenti, Vladimir Bukovskij, tra il 1991 e il 1993, è diventato esso stesso un nuovo prezioso documento per la comprensione di uno degli aspetti più straordinari della vita quotidiana nei regimi comunisti.

MC


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