giovedì 2 maggio 2013

BENJAMIN E IL CAPITALISMO. GIORGIO AGAMBEN



Eccezionale articolo di Agamben pubblicato sulla rivista on line "Lo straniero"


Benjamin e il capitalismoPDFStampaE-mail
DI GIORGIO AGAMBEN   
LUNEDÌ 29 APRILE 2013 11:40



1.  Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi  la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento, l’iscrizione che  tuttora si legge su molte banconote (per esempio sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano, che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.
Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di cambio, banconote, jurosgoldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie. La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai  sopraffatto la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.
2.  Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.
Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”). Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell’uomo”.
Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza, ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con esso, sono solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione. “Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo percorso è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo, cioè il primo uomo che comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista”. Ma anche la teoria freudiana appartiene al sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa… è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi”. E, in Marx, il capitalismo “con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa… si trasforma immediatamente in socialismo”.
3.  Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è una religione, come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo?  E che cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon?
David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola.  Creditumè  il participio passato del verbo latino credere: è ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua protezione o prendendo in prestito del denaro. Nella pistis paolina rivive, cioè, quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste ha ricostruito, la “fedeltà personale”: “Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere… Nella sua forma primitiva, questa relazione implica una reciprocità: mettere la propria fides in qualcuno procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”.
Se questo è vero, allora l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide. E come, secondo Benjamin, il capitalismo è una religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi, da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito (believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione il cui Dio è il denaro.
Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire credito (Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso.

4.  Che cosa ha significato, per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del proprio contenuto teologico paragonabile alla distruzione mosaica del vitello d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare – in ogni caso, un passo decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della propria fede. Questa – nella forma del denaro e del credito – si emancipa ora da ogni referente esterno, cancella il suo nesso idolatrico con l’oro e si afferma nella sua assolutezza. Il credito è un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pistis che non è che “sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre definizione della Lettera agli ebrei – è sostanza – ousia, termine tecnico per eccellenza dell’ontologia greca – delle cose sperate. Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo la sua pistis in Cristo, prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo “come se” che la parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la nuova pistis, è ora immediatamente e senza residui sostanza. Il carattere distruttivo della religione capitalista, di cui Benjamin parlava, appare qui in piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è più, è stata annientata e deve esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa della cosa, la sua ousia in senso tecnico. E, in questo modo, viene tolto di mezzo l’ultimo ostacolo alla creazione di un mercato della moneta, alla trasformazione integrale del denaro in merce.

5.  Una società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata a vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la  trasformazione del capitalismo ottocentesco, ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi proprietari personali e con i relativi clan familiari, valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio della fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di storie in cui grandi casate vanno in rovina a causa della loro dipendenza dal credito: in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale produttivo di interessi era naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta, al margine del capitalismo vero e proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo con il proprio capitale” (R.Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997, p.76-77; Die Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995).
Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale aziendale fa oggi  ricorso in misura crescente al capitale monetario, preso in prestito dal sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per così dire ipotecare anticipamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che non può né deve essere estinto. Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso, sola fide, a credito (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati  in questo continuo e generalizzato atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento della religione capitalista: il credito-debito.


Giorgio Agamben

mercoledì 1 maggio 2013

SU CORAGGIO




Ricevo e volentieri pubblico questa bella finestra letteraria di Anna Zanier

Dentro di me il primo maggio prima che essere una festa politica è una festa affettiva. Il ricordo che ho fin da bambina è di mio padre che indossa un completo “elegante”. A me adolescente quel vestito già mostrava tutti i suoi anni (ma penso che se ci entrasse ancora, lo porterebbe anche oggi). Con ripetute, leggere scrollate di spalle il corpo tradisce l'imbarazzo di stare in vestiti che non gli sono quotidiani,  puliti, da festa, che sanno buio d'armadio e naftalina. Sulla camicia bianca spicca la cravatta rossa. La cravatta e gli occhi sono i ricordi più forti. Occhi accesi per il giorno di festa e di riposo, occhi che per un giorno sfoggiano l'orgoglio di essere quello che si è e di avere coscienza di classe: muratori, proletari. Quante volte ho sentito la frase: “Oggi è la mia festa, sai! E' la festa di chi lavora.”, e io che lo guardavo con gli occhi di bimba che non capiva bene, ma percepiva  qualcosa di serio. Senza retorica, senza mai nominarle, mi ha fatto sentire la giustezza delle idee, della dignità del lavoro, il rigore del senso del dovere e dell'onestà morale e intellettuale. Probabilmente neanche gli è mai passato per la testa tutto questo. Ma mi sento fortunata, e anche se è stato un padre a volte distante, con la maturità da adulta lo guardo in modo nuovo. Forse proprio perché non c'era quasi mai ne parlo tanto.
Oggi, come ogni giorno è salito a trovare suo nipote – non riesce proprio a stargli lontano, e questo mi rende felice. Portava il vino in occasione della giornata di festa. Lo guardo: niente cravatta rossa. Gli dico: “E la cravatta?” - già ieri sorridendo ci avevamo scerzato su. “Eh, diobòn non l'ho trovata... dev'essere rimasta in soffitta...”



martedì 30 aprile 2013

GOVERNO PROVVISORIO

Galan stasera su Radio 1 ha detto (ore 20.10 circa): "Siamo in guerra" e questo è un esecutivo di emergenza. Una delle caratteristiche della guerra, è che si spara.



lunedì 29 aprile 2013

GOVERNO PROVVISORIO

Il discorso di LETTA


LA POSIZIONE DI CIVATI



(anche "personale" andava bene)


La mia personalissima posizione

Non parteciperò al voto di fiducia del governo Letta. Ho deciso così, dopo giorni difficili, dopo avere atteso risposte che non sono arrivate, dopo avere valutato tutte le alternative e le possibilità che avevamo di fronte.
Questa mattina, al gruppo, abbiamo finalmente discusso, ma “a cose fatte”.
Incredibilmente fino a oggi non avevamo avuto la possibilità di affrontare la questione del cosiddetto governissimo (che avevamo per altro sempre escluso tutti quanti, almeno a parole), fino a oggi non c’era stata un’occasione e una sede in cui offrire la nostra opinione all’attenzione dei nostri dirigenti, fino a oggi non c’era stata la possibilità di decidere insieme quali fossero le ‘scelte’ del Pd.
Farlo oggi, prima del voto in aula, è stato certo importante, ma molto tardivo e di fatto inefficace: perché, arrivati al giorno della fiducia, le alternative erano finite davvero e non avevamo alcuna possibilità di cambiare, modificare, correggere il corso delle cose, nonostante lo scetticismo e le cautele di molti (che molti hanno ribadito nella riunione del gruppo di oggi).
Ho perciò preferito il dissenso all’ipocrisia e ho gentilmente respinto i richiami all’ordine, perché l’ordine si rispetta solo se in precedenza c’è stata la possibilità di esprimersi, di discutere e di votare sulla base di un’attenta valutazione del parere di ciascuno. Votare tipo «prendere o lasciare» non fa (o non dovrebbe fare) parte della cultura del Pd.
Nel mio intervento al gruppo, ho ricordato le preoccupazioni – per altro confermate in aula dagli interventi nostri e del Pdl – circa le ambizioni che mi paiono eccessive di questo governissimo, i suoi tempi smisurati (senza scadenze, anche intermedie, a meno di voler pensare che i 18 mesi citati da Letta siano una scadenza intermedia credibile) e soprattutto la vaghezza delle sue priorità, che infatti sono state diversamente interpretate dai gruppi politici che si sono offerti di sostenerlo: chi parla di cancellazione dell’Imu (addirittura della sua mitica restituzione) e chi dice che l’Imu non va tolta, o tolta solo in parte, per occuparsi piuttosto dell’abbassamento delle tasse sul lavoro (per quanto mi riguarda, cancellare l’Imu ai benestanti, in questo momento, è più o meno folle).
Ho ricordato che anche la convenzione delle riforme (anche detta sinistramente «bicamerale») va definita e precisata, e che avremmo dovuto definirla e precisarlaprima di dirci d’accordo (e non c’entra nemmeno il fatto che a presiederla possa essere Berlusconi “di persona, personalmente”).
Circa il programma, ho insistito sul fatto che non è dato sapere quali siano le vere priorità di questo governo (Letta ha declinato decine di obiettivi e un programma dal passo lunghissimo), se esista una bozza di legge elettorale da cui partire, se insomma ci possa essere certezza delle prime cose che questa strana alleanza potrà varare nelle prossime settimane.
Da ultimo, ho ricordato che non siamo arrivati qui per caso, ma che il vero equivoco all’interno del Pd è stato determinato dall’ambiguità che lo ha attraversato circa le alleanze e le soluzioni tra le quali optare: qualcuno voleva questa soluzione, per capirci, e l’ha voluta fin dall’inizio. Ed è stata una decisione presa nell’ombra di un voto segreto e non «al grande giorno» di un dibattito in cui sì, ci si poteva dividere e discutere, ma almeno avremmo capito qualcosa di quanto stava accadendo. Così non è stato né bello, né serio affrontare le cose, in questo complicatissimo ingorgo istituzionale.
Negli ultimi giorni, il nostro è stato, per di più, un dibattito alla rovescia, nei tempi e nei modi, nel quale siamo partiti dalle conclusioni a cui saremmo dovuti piuttosto arrivare, passo dopo passo (e che per altro erano assolutamente negate dalle nostre stesse premesse).
Il mio, quindi, è un giudizio negativo e pessimistico, ma ho preferito non dichiararmi contrario in aula proprio per evitare una rottura che non è certo il mio obiettivo, che rimane invece quello di ribadire la necessità che anche nel Pd vi sia un punto di vista critico e capace di immaginare che le alternative ci sono o ci sarebbero potute essere, che siamo andati incontro a fallimenti gravissimi, che ancora non conosciamo nessuno dei famosi 101 che hanno deciso la partita, che non ci possiamo dire soddisfatti di un governo che non abbiamo voluto fare nei primi giorni del dopo voto, un governo che non ha uno scopo e una missione precisa, ma che si presenta come governo politico di legislatura, retto da Pd e Pdl (con la soddisfazione soprattutto di quest’ultimo, almeno nel rivendicare la soluzione dell’impasse).
Ho però preferito dichiararmi contrario, perché non è il momento di «votare sì per dire no», perché mai come oggi la mancanza di dibattito è stata fatale, perché la chiarezza è il primo mandato che abbiamo ricevuto dai nostri elettori. Che tutto si sarebbero aspettati, tranne lo spettacolo degli ultimi giorni e l’esplosione delle contraddizioni di un partito che non sapeva dove andare. O forse lo sapeva benissimo, ma non aveva mai trovato le parole per dichiararlo (ammetterlo?) e il coraggio di pronunciarle, se non per “interposto Napolitano”. E non è serio e non è bello nemmeno questo.
P.S.: è una presa di posizione solitaria, come è ovvio che sia e che fosse. Molti parlamentari a cui mi sento particolarmente vicino e affine hanno votato sì, pur condividendo molte delle critiche e delle cautele che ho cercato di rappresentare, proprio perché non siamo l’ennesima corrente che si vuole aggiungere alle millemila già esistenti e perché non vogliamo distruggere il Pd (come altri hanno dimostrato di volere e saper fare) ma piuttosto dargli una missione più credibile e un profilo più netto e preciso. Da domani, si (ri)comincia.

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ONDA CALABRA


domenica 28 aprile 2013

NATALIJA GORBANEVSKAJA


Oggi Natalija Gorbanevskaja era nei locali di Memorial di San Pietroburgo per la proiezione del film "5 minuti di libertà". Nella foto con Irina Ronkina, moglie di Valerij Ronkin, dissidente della prima generazione. Sopra il filmato della canzone che Joan Baez le dedicò molti molti anni fa.


IDENTIKIT





Commento. Questa e' vera vergogna. Mi sono finite le parole. Queste sono due bandiere che sventolano in un ministero . Da qui di vede l'importanza del nostro tricolore.



Commento 2. A volte bisogna vedere e sentire per credere. Quando dicono che la chiesa deve pagare l'IMU nn sbagliano affatto. Anzi per quello che si vede e si sente nei paraggi del vaticano in queste ore, lo dovrebbero pagare il doppio e dovrebbero altresi cominciare a dare piu sostegno a colore che hanno bisogno " nn parlo di extracomunitari o comunitari" ma di povera gente iataliana che è veramente bisognosa.





Commento 3. Ecco il più bel monumento dedicato a coloro che si sono sacrificati per la patria.




Commento 4: Questo per fortuna non esiste più. Purtroppo per coloro che lo votavano lo shoc è stato grande.


Commento 5. La sgrena....si dovrebbe vergognare per quello che pensa e poi scrive. Mi auguro che lo stato italiano la cancelli come cittadina italiana. Alla prossima prigionia mi auguro che finisca nelle mani di un gruppo di terroristi sordi e muti....

Mi piace per la riduzione dello stipendio dei parlamentari.


COMMISSARIO CALABRESI