Vasja non è più qui. Se n'è andato a 50 anni e mi sento molto più solo di prima. La vita lo ha sempre colpito duro e non ha retto. Ha fatto in tempo a vedere le mie figlie, poi si è ritirato per aspettare. Beveva Vasja, tutto il giorno, ogni giorno. Alcune delle persone che gli sono state care, oggi sono lontane. La notizia l'ho appresa dal Canada. Tra quelli che domani lo seppelliranno, in molti dovrebbero restare a casa. Spero che Igor-il Barone suoni qualcosa con la sua chitarra. Vasja amava molto l'epoca d'oro spagnola.
La figlia gli somiglia molto.
Ieri è arrivata dagli Urali Galina Sergeevna, la madre di Vladislav. Ha portato cetrioli e pomodori sott’olio, marmellate fatte in casa, frutta fresca e tutte le conserve di carne che le sue due borse potevano contenere. Galina Sergeevna è sempre stata una donna semplice, ma oggi si è materializzata di fronte a me nella sua immagine più vera. Galina Sergeevna è come una formica, vive per immagazzinare cibo e non si pone altre domande. Le sue cellule della memoria sono rimaste a guardare, inutilizzate, sepolte assieme al Cristo dentro una delle nostre cattedrali. Non capisce perché sia importante ricordare, conoscere i nomi delle vie che non ci sono più, i versi dei poeti che si pubblicano fuori, i piccoli segni misteriosi del tempo lontano che soltanto in pochi riusciamo ancora a scorgere sulle mura dei vecchi palazzi del centro. “Leningrado è la corona di spine di Pietroburgo” le ho detto mentre passeggiavamo sulla Fontanka, ma la frase è rimasta lì, calpestata dall’indifferenza. Vicino al Conservatorio si alzano le mura di una vecchia fabbrica. Mentre vi passavamo accanto mi sono fermata, ho appoggiato le mie mani su di esse e ho preso a spingere con tutta la forza che avevo, gridando dentro di me: “Ti prego, risorgi, torna a vivere!” e più spingevo più il calore cresceva dentro il mio corpo, quasi volesse bruciarmi il cuore. Non mi sono arresa e ho sopportato il dolore, finché la fabbrica non mi ha risposto: un giorno, ha detto, succederà il miracolo.
- Galina Sergeevna, venite con me, vi farò vedere quali sono i Templi che verranno riaperti per primi.
Galina Sergeevna non ha voluto e Vladislav stavolta non mi ha capito. La città ha ripreso a premere su di me attraverso le armature e le piramidi di ferro che ospitano le foto dei compagni, come se il regime volesse fare degli operai tanti faraoni immortali, o lasciarlo credere, dietro al ghigno sintetico di Lenin. Proprio di fronte alla vecchia Borsa oggi pomeriggio c’era uno di questi sarcofagi con le foto degli udarniki del lavoro socialista, facce scavate dal duro lavoro in officina, donne paffute, campagnole edificatrici del comunismo cittadino. Possa tu prendere fuoco, maledetta carcassa, possa al tuo posto sorgere una fontana o crescere un albero! Succederà un giorno, lo sento, succederà perché non possiamo morire così, cadaveri quali siamo, io e la mia città.