venerdì 25 gennaio 2013

ORESTE SCALZONE RICORDA GALLO


dal blog di Paolo Persichetti


Vorremmo essere qui contadini della terra dove giaci,
e che concimi anzitempo,
companero de l’alma, compagno
(Miguel Hernandez)
E così, il “contadino nella metropoli”,  se n’è andato anche lui.
Sempre, di  “un uomo che muore”, si potrebbe venire a dire tutto un
concatenamento,
 una matassa anche aggrovigliata di cose, più o meno
‘rapsodicamente’ e senza l’assurda pretesa di poter racchiudere
chicchessìa in un giudizio, una biografia, un ritratto.
 Qui, tanti
approcci possibili : “Prospero come Prospero”, la persona;
 Prospero
nei contesti, sincronicamente e diacronicamente; Prospero e 
le
mutazioni d’epoca, di “spirito del tempo”, Zeit Geist; Prospero 
nella
lunga onda lunga, onda alta della sovversione, nei movimenti che 
nelle
cronologie possiamo periodizzare come seguìti al Sessantotto, 
e
chiamare “Sessantotto lungo”, lungo un anno, un lustro, e poi due, e
più; 
Prospero uno di noi in senso largo quanto si può, dando per
buone in generale le auto-certificazioni; Prospero e i più
strettamente “suoi”; Prospero e
nojaltri in senso stretto; e in
tanti potremmo scrivere di “Prospero e io”.
Si potrebbe per esempio
cominciare da un Brecht in cui aveva trovato 
qualcuno che gli dava
voce: tra l’Elogio dell’agitatore nella 
cassa di zinco e l’Ode del
lavoro clandestino –
«Bello è / levare la
voce nella lotta di
classe»…
Si potrebbe cominciare dal riaffiorare di ricordi, remoti, recenti…
Ma la rapsodìa
 diverrebbe troppo lunga.
La vita che tira per la giacca, strattona, la vita ‘che tossisce
tutta la notte e non vuol lasciarti dormire’, le voci che
sopravvengono incessanti spintonandosi accavallandosi, fatti e cose,
sussurri e grida, chiamate, perentorie domande, interrogazioni,
replicate da echi, mutazioni mutanti e mutagene, variazioni su tema,
che insorgono come voci-di-dentro : così il –  e qui per evitare equivoci, malintesi e illazioni  di dualismi e
differimenti impliciti, introdurrei d’arbitrio una virgola – (…),
mortale>, così, anche così si autodivora, tempus fugit, si restringe,
fugge, sfugge, si consuma – il tempo, manca.
Nel dispotismo, insomma, crudele della misura del tempo, crono-metrìa,
, non c’è spazio più di
tanto per piangere su noi stessi, che ad ogni addìo ci sentiamo un po’
più soli, e dobbiamo apprendere a elaborare il lutto della nostra
mortalità di esseri di , specie di esseri parlanti, la
cui singolarità – che è innanzitutto il “sapersi” e il “sapersi
sapere”, a cominciare dall’inferenza della mortalità e dell’alterità,
sé/altro: conoscenza/dannazione, ché conoscere implica separazione,
distinzione, divisione, strappamento –, la cui peculiarità  è il
guardarsi vivere sapendosi morir[n]e, strappati alla pienezza di un
presente attanagliato dai tempi che lo riducono a una linea sottile
inconsistente, come a zero.
Corrono così giorni prima che chi vi scrive, sempre più
intempestivamente anche qui, riesca a “metter nero su bianco” almeno
un po’ di quanto aveva cominciato a ‘traghettare’ dalla girandola di
emozioni e riflessioni, al foglio scritto: per tentare di mettere in
comune, per quanto è possibile, la tristezza, il sentirsi ancora un
po’ più soli per la disparizione dalla scena – dal ‘Gran Teatro del
Mondo’, e dalle proprie psico-cartografie più o meno immaginarie di
territori esistenziali, di tutto un arcipelago, da ciò che le separa> – di un amico.
E cominciare il lavorìo, il
travaglio, travail, dell’elaborazione del lutto per quest’altro,
ultimo addìo, per la morte – che per noi è la perdita, per lui  la
“fine-del-mondo” – di un compagno, amico, che evoca il pane spezzato
e condiviso, ‘il pane e anche le rose’; la lotta, le spine e le
ferite, il , la ‘vita materiale’  e il
‘sogno di una cosa’ – espressione che non è di Pasolini, è di Marx…
(strana sempre, sorprendente la , le reazioni
concatenate, associazioni, sinergismi… mi affiora alle labbra,
finalmente, uno e poi un altro brandello dell’Urlo di Ginsberg
<…sono con te a Rockland, dove venticinquemila compagni matti
cantano tutti insieme le ultime strofe dell’Internazionale. Sono con
te a Rockland…>, e il verso di Miguel Hernandez delle rose […] ti chiamo, ché dobbiamo parlare di molte cose,
companero de l’alma, companero>).
{A questo punto, per intanto, trascrivo qui di seguito delle prime
riflessioni, che avevamo messo in circolo ‘a caldo’, poche ore dopo la
notizia della morte di Prospero.
   Il tempo manca, ora – ma proseguiremo nei prossimi giorni il
‘filo-del-discorso’ }
Innanzitutto, di Prospero Gallinari, un paio di cose.
Primo, quando nello si discuteva della
sospensione per gravissimi motivi di salute della pena che stava
scontando, ciò che faceva ostacolo, come un macigno, all’applicazione
di questa misura di scarcerazione che la stessa legge prevedeva per
qualsivoglia persona detenuta fosse in  condizioni fisiche gravi ed a
rischio, era una considerazione extra-giudiziaria, d’ordine
ideologico-politico, di natura , a carattere
“tipologico”, ad personam: la – diciamo pure –  convinzione, asserita
come certezza, dai Palazzi alle strade, da “scrittori e popolo”, che
Prospero fosse stato attore diretto, anche materiale, dell’esecuzione
dell’onorevole Aldo Moro.
[ In generale, sempre, questa tracimazione dal piano della giudiziaria> –  che nello stesso Diritto penale una volta mondanizzato
e non più sorretto dalla presa in conto di un’ipotesi-Dio, non può
che essere un , una congettura, più o meno decentemente
fondata, ma mai, “pe’ la contraddition che nol consente”, certezza
assoluta, talchè una sentenza è pur sempre un produzione di effetti di verità> – , questo spostamento ed irruzione
su quello detto nel léssico giuridico ,
è arbitraria, abusiva.
La più plebiscitaria, unanime non può mai, in
punto logico, aveva la valenza che in altri codici e paradigmi è
attribuita alla , una volta che questa sia stata dichiarata
caduca, o comunque per convenzione tenuta fuori del campo normativo.
Nel campo penale più che in ogn’altro, la più convincente delle
deduzioni, la più forte delle verosimiglianze, non può essere asserita
come Verità assoluta, come la : questo vorrebbe dire
istituire, appunto, un ...
Questa pretesa di veridizione assoluta, “obietiva”,
rende perciostesso falsità ogni illazione, nel momento stesso
in cui la spaccia per certezza avventurandosi sul terreno di ciò che,
in buona filosofia, è inattingibile, salvo ad una eventuale onniscienza –  nello stretto
senso teologico – che “non è di questo mondo”.]
Come si è visto poi, con una successiva e ultima approssimazione alla
verità fattuale che è stata omologata dalla stessa parola finale sul
piano della ricostruzione e decretazione giudiziaria della “verità” in
punto di fatto, nel caso specifico l’illazione aveva un contenuto
falso.
Ebbene, nell’altalena di un’ipoteca radicale sul suo destino –
questione “di vita o di morte” in senso stretto e immediato, a dire di
tutte le perizie mediche –, Prospero Gallinari non si lasciò mai
estorcere alcuna confessione d’innocenza. Senza alcuna iattanza,
vociferazione altisonante, enfasi grandiloquente sui bordi delle
economie narcisistiche del “Guerriero” e del “Martire”, dell’eroismo
stile l’Imperatore>, del sacrificio, e poi  dell’auto-identificazione come
vittima.  Semplicemente, un po’ come ilProspero taceva o rispondeva di non aver nulla da dire,
. Esprimeva un rifiuto di entrare nella dialettica
dell’Innocenza e della Colpa. E anche dopo, non ritenne, pur incalzato da
domande che trasudavano innanzitutto stupore come di fronte a un
qualcosa d’impensato e impensabile, non aggiunse una mezza parola che
potesse anche semplicemente validare l’ipotesi affermatasi e non fatta
oggetto di confutazione alcuna.
La cosa parla da sé, non richiede commenti.
Secondo. Prospero che, secondo testimonianze molteplici, convergenti
e al di fuori della minima ombra di sospetto di logica utilitaristica,
perché fuori di ogni possibile “mercato penale”, mercato “delle
Giustizie e delle Grazie”, delle punizioni e delle indulgenze, aveva
pianto, non solo salutando un’ultima volta Aldo Moro, su questa morte.
Viene in mente la tragedia, etica, logica, del rompicapo, del vero e
proprio , della di De André. In
quel caso, dentro il carattere cogente come forza di gravità di un’inimicizia
in quel caso prescritta, comandata e subita, ma comunque
materialmente vigente, stato-di-fatto, il soldato Piero esita e non
spara per primo. Non già per distrazione, per grandezza o grandezzata
d’animo, o altre Elette virtù (in paradigmi diversi da quello
dell’egocentrismo parossistico del patriottismo, dei patriottismi
“eguali e contrari” il cui manifestarsi perfettamente all’unisomo non
può che, perciostesso, divenire massacro): semplicemente, per un
personalissimo egoismo, che gli renderebbe insopportabile occhi di un uomo che muore>, sopportare lo sguardo di uno che muore
per tua mano – è tutto.
Ora, la Storia – soprattutto quella per narrazioni di Grandi eventi,
è piena di chi per “interesse privato” e propensione istintuale,
radicata nella disperata lotta per la sopravvivenza, nella dedizione
alla predazione, alla sopraffazione, all’uso strumentale, al comando,
al possesso, fino all’annichilazione d’altrui.
Chiunque abbia praticato la decisione, l’impresa, il governo, il
comando, ha preso su di sé la responsabilità terribile di causare,
direttamente o indirettamente, la morte d’altrui.
Condottieri, profeti, fondatori di città e d’imperi, sovrani… Nelle
forme moderne in cui tutto questo appare più “automatico”, invisibile,
“oggettivo”, “tecnico”, necessitante, “naturale”.
, come nota Machiavelli nel Principe. […].
Che statistica>, è frase terribile, può essere stolta se scagliata come
ritorsione animata da manicheismo, auto-negazionismo e surrettizia
“universalizzazione come Bene” della propria partigianità, ma è pur
sempre attualmente incontrovertibile.
Certo, questo vale anche per chi è ricorso alla violenza per moventi
opposti, d’insorgenza contro tutto questo; ma, dal nostro
irriducibile punto di vita all’opposto di quello istituito e imposto
come ‘corrente’, con una natura radicalmente diversa  (sia pure con
tutti i benefici secondari, d’ordine narcisistica, che può motivare
questa condotta del ribelle).
Certo, non si sono mai viste rivoluzioni (e non solo quelle segnate
da una fondamentale omologia e mimetiche, marcate dalla contraddizione
in termini di una rivoluzione statale, ciò che ad avviso di chi scrive
condanna senza appello ad una eterogenesi dei fini e in una
trasformazione nel proprio più atroce contrario […]; ma in generale
anche insurrezioni, guerriglie di resistenza) al netto del sangue.
Ciò detto, una distinzione di tipo etico si può fare, tra chi è
dotato di riflessività, consapevole delle sue responsabilità, e non
pretende – a mezzo della falsificazione delle propagande – di operare
una trasmutazione alchemica che faccia diventare ciò che
intrinsecamente è “male”, intrinsecamente “Bene”, “buono”
(addirittura pretendendo di convincerne chi lo subisce) – e chi no.
Tra chi si trincera, si nasconde dietro l’invisibilizzazione per
astrattizzazione “statistica” – tanto maggiore quanto più alto è il
numero degli schiacciati e sterminati, più indiretta, invisibilizzata,
la responsabilità, occultata da un concatenamento ferreo ma non
immediatamente evidente di cause ed effetti, di decisioni e
conseguenze –, e chi non sfugge il senso tragico della propria
responsabilità. Tra chi “manda”, e chi “va”.
Nell’emergere sempre più incontestabile di una corsa delle logiche
istituite ad un crescente assurdo, con tutti i corrispondenti scenari,
la ‘cifra’ etica di un Prospero Gallinari rende tanti irriducibili
Soloni d’ogni taglia e bordo, dei sinistri e grotteschi nanerottoli.
Per intanto una frase:
non ama comandare>…  […]
il 19 gennaio 2013, prima di partire per Reggio Emilia
Oreste Scalzone, & qualche complice

giovedì 24 gennaio 2013

Miloš Zeman - nuovo presidente della Repubblica Ceca


Miloš Zeman



L’11 ed il 12 Gennaio 2013 in Repubblica Ceca si è svolto il primo turno delle presidenziali. Si tratta della prima elezione diretta del capo dello Stato dopo la riforma voluta dal primo ministro Petr Nečas nel 2010 e votata dal parlamento in modo definitivo nel febbraio del 2012. Sebbene accusato da molti osservatori di aver spesso travalicato i limiti costituzionali e favorito con il suo operato la riforma, il presidente Vaclav Klaus (2003 – marzo 2013), pur firmandola si dichiarò contrario alla legge, ritenendola precoce per la relativamente giovane democrazia mitteleuropea.
  Dei nove aspiranti la carica di capo dello Stato (Klaus non ha potuto ricandidarsi), due indipendenti hanno suscitato particolare interesse nell’opinione pubblica internazionale: Vladimír Franz e Jan Fischer. Il primo, professore di Arte drammatica all’Accademia di Prega, a causa dell’aspetto assolutamente inedito per un politico, almeno qui in Occidente: il suo corpo è infatti interamente ricoperto di tatuaggi. Il secondo, perché in caso di vittoria sarebbe stato il primo presidente ebreo direttamente eletto dal popolo in Europa. Né Franz, né Fischer sono passati al secondo turno, pur avendo ottenuto un buon successo. Fischer è risultato terzo, con 841.437 voti, corrispondenti al 16,35% delle preferenze, mentre Franz è giunto quinto con 351.916 voti (6,84%). Tra loro, Jiří Dienstbier, del Partito socialdemocratico, con il 16,12%.
Al secondo turno, che si è svolto secondo tradizione dalle 14.00 del 25 gennaio alle 14.00 del giorno successivo, si sono scontrati, invece, due politici che in passato hanno ricoperto importanti cariche: Miloš Zeman, primo ministro dal 1998 al 2002, già socialdemocratico e ora leader del “Partito dei diritti civili – Zemaniani” (Strana Práv Občanů – Zemanovci) che l’11 gennaio ha raccolto 1.245.848 voti (24,21%) e un principe, Karel Schwarzenberg, attuale ministro degli Esteri, posizione peraltro già occupata dal 2007 al 2009, con alle spalle una rilevante attività di sostegno al dissenso anticomunista durante gli anni della guerra fredda e oggi leader del partito TOP-09 (Tradice Odpovědnost Prosperita 09 ossia Tradizione Responsabilità Prosperità 09), secondo con 1.204.195 voti (23,40%). L’elettorato ceco ha dunque puntato su due candidati “sicuri” e conosciuti: due settantenni che hanno già segnato la vita politica della Cechia post-comunista. Sia Zeman, sia Schwarzenberg, inoltre, dopo un impegno politico all’interno di partiti tradizionali, hanno fondato, o contribuito a far nascere, formazioni che si richiamano con gli slogan, la terminologia e il nome, a sentimenti non ideologici e populisti, come i diritti civili o la prosperità.
Com’era prevedibile, il secondo turno è stato vinto da Zeman con il 54,80% dei suffragi. Schwarzenberg si è però aggiudicato le due maggiori città del paese, Praga (66,01%) e Brno (53,90%), Plzeň (54,15%), České Budějovice (52,45%) e il voto dei cechi all’estero con l’84,21%. Zeman ha vinto conquistato tutti gli altri distretti del paese, costruendo così la sua vittoria fuori dai grandi centri urbani. È lecito chiedersi quale Cechia sarà sotto la presidenza di Zeman.
Il nuovo capo dello Stato, che salirà a marzo al Castello, si è sempre detto per un’attiva e fattiva partecipazione dell’elettorato alla vita politica. È stato quindi favorevole all’elezione diretta del presidente e vorrebbe proseguire su questa strada introducendo, per esempio, il referendum secondo il modello svizzero. Da un punto di vista sociale si è dichiarato ammiratore del sistema socialdemocratico svedese, ma le sue idee presentano tratti di liberalismo puro. È favorevole a una bassa tassazione all’interno di un sistema fiscale progressivo che non superi il 25%. Contrario all’adozione per le coppie omosessuali, si è dichiarato anche contro le quote rosa in politica. Pur essendo stato emarginato durante il periodo comunista, non è un anticomunista dichiarato, come Schwarzenberg, e l’unico partito che ritiene davvero antidemocratico è il Partito operaio della giustizia sociale (Dělnická strana sociální spravedlnosti), che giudica una formazione fascista. In politica estera ha sposato la causa di Israele, che vorrebbe vedere nella NATO. In passato ha paragonato Arafat a Hitler e nel 2011 ha dichiarato che “un musulmano moderato è come un nazista moderato”. Favorevole al mercato globale, non ritiene Russia e Cina partner ideali perché non rispetterebbero i diritti umani. Non mancano le contraddizioni. Zeman, pur avendo appoggiato l’intervento armato contro la Serbia nel 1999, ha definito il Kosovo, che da quel conflitto compì i primi passi verso la piena sovranità, una “dittatura terroristica finanziata dai narcotrafficanti”. Infine, è un europeista convinto: appoggia l’idea di un’Europa Federale, con politica estera e di difesa unitarie. Ci attende un paese attivo in politica estera, in prima linea nella “lotta al terrorismo internazionale”, ma sostanzialmente conservatore e difficilmente in grado di aprire una nuova fase storica nelle sue politiche economiche e sociali.








   

BENEDETTA TOBAGI E UN FUNERALE



Nel giro di pochi giorni la Repubblica e, in particolare, Benedetta Tobagi, torna sui funerali di Prospero Gallinari. La Tobagi oggi li affronta concentrandosi su due problemi: la pietas e il terrorismo.
Sul primo problema sono d'accordo con lei. La pietas non c'entra. Quelli di Gallinari sono stati funerali politici. Se qualcuno che vi ha partecipato ha poi giustificato la sua presenza appellandosi a un sentimento personale, o fa finta di non capire la valenza di quel gesto, o proprio non la comprende (che forse è peggio).
E però, la stragrande maggioranza delle persone che hanno accompagnato Gallinari non erano a Coviolo per pietas, ma per riaffermare un'idea. Certo, erano vecchie, come sempre ricorda la figlia del giornalista ucciso nel 1980 da un gruppo armato di estrema sinistra, ma anche ergastolani. Vecchi ergastolani, sarebbe l'espressione corretta. Gli ex-Br sono tutti passati per la galera e alcuni ci stanno ancora oggi, a distanza di trent'anni dai fatti. Ciò vuol dire due cose, almeno: la prima - che giustizia è stata fatta. La seconda, che i brigatisti erano giovani. Esattamente, tra i 17 e i 32 anni. E chi aveva 32 anni era considerato già un vecchio. Lo scrive anche Valerio Morucci, che nelle Br ha transitato e che le conosce bene: la peggio "gioventù", dice.
Dunque, giovani. Una generazione. Quella generazione. Terroristi? Come ha ricordato Tonino Loris Paroli durante la commemorazione per Gallinari, le Br avevano la possibilità di far saltare treni, ferrovie, autostrade. Dividere in due l'Italia. Lo confermo. Avevano a disposizione esplosivo e armi di una certa pesantezza. Non l'hanno mai fatto, però. Terrorizzare, significa spaventare la popolazione civile attraverso azioniche colpiscono in modo indiscriminato. La generazione che impugnò le armi all'inizio degli anni Settanta, e in particolare l'organizzazione Brigate Rosse, non fecero morti casuali. Giovani, presero le armi perché qualcuno aveva dichiarato loro guerra. Presero le armi per difendersi. Il 12 dicembre 1969 decise le sorti dell'Italia per il decennio successivo. Se non si capisce questo, non si coglie la valenza della lotta armata. La strage di Piazza Fontana costrinse il sindacato dei metalmeccanici a chiudere una vertenza che si protraeva da mesi. E nelle fabbriche nacquero le Brigate Rosse. Ma guarda un po'. Per combattere quella generazione il nostro Stato mutò se stesso. Emanò leggi speciali, inventò reati associativi, torturò quei giovani. Non trattò per la vita di Moro, aprì carceri speciali, condannò senza prove, ma sulla base dell'assunzione collettiva di responsabilità politica. E non sono, i brigatisti, prigionieri politici? Se il reato che si contesta loro non è più "comune", come si possono definire i condannati "criminali comuni"?
Perché, dovrebbe chiedersi la Tobagi, paesi come la Francia, ma anche come il Brasile, rifiutano da decenni di concedere l'estradizione per giovani ormai divenuti vecchi, condannati allora in contumacia? La Francia ha ceduto una sola volta, e forse se ne sta ancora pentendo.



























UNA TRAGEDIA OPERAIA



Il 24 gennaio 1979 il sindacalista Guido Rossa veniva ucciso dalle Brigate Rosse a Genova.
Rossa lavorava all'Italsider di Genova e pochi mesi prima aveva notato che un operaio, Francesco Berardi, si trovava spesso vicino a luoghi in cui venivano lasciati volantini delle Br. Alla fine di ottobre del 1978 Rossa segnalò Berardi alla vigilanza e nel suo armadietto fu ritrovato materiale propagandistico della formazione armata.
Berardi venne arrestato e condannato a quattro anni e sei mesi per partecipazione a banda armata e associazione sovversiva. La colonna genovese delle Br decise per una punizione esemplare e il 24 gennaio 1979 attese Rossa sotto casa, uccidendolo.
Era la prima volta che le Br sparavano contro un operaio, per di più iscritto al Pci.
Si trattò di un errore politico di estrema gravità. Non solo perché Rossa rimase ucciso. Anche il suo ferimento avrebbe provocato all'interno della classe operaia una reazione di indignazione.
Nonostante all'interno dell'esecutivo si comprese immediatamente la gravità del gesto, l'uccisione di Rossa venne rivendicata con queste parole:



Mercoledì 24 gennaio, alle ore 6,40 un nucleo armato delle Brigate Rosse ha giustiziato GUIDO ROSSA, spia e delatore all’interno dello stabilimento ITALSIDER di Cornigliano dove per svolgere meglio il suo miserabile compito, si era infiltrato tra gli operai camuffandosi da delegato. A tale scopo era passato da posizioni notorie di destra ai ranghi berlingueriani. Sebbene da sempre, per principio, il proletariato abbia giustiziato le spie annidate al suo interno, era intenzione del nucleo di limitarsi a invalidare la spia come prima ed unica mediazione nei confronti di questi miserabili: ma l’ottusa reazione opposta dalla spia ha reso inutile ogni mediazione e pertanto è stato giustiziato. Il suo tradimento di classe è ancora più squallido e ottuso in considerazione del fatto che, il potere ai servi prima li usa, ne incoraggia l’opera e poi li scarica.
Compagni, da quando la guerriglia ha cominciato a radicarsi dentro la fabbrica, la direzione italsider con la preziosa collaborazione dei berlingueriani, si è posta il problema di ricostruire una rete di spionaggio, utilizzando insieme delatori vecchi e nuovi; da un lato ha riqualificato fascisti e democristiani, dall’altro ha moltiplicato le assunzioni di ex PS ed ex CC, dall’altro ancora ha cominciato a utilizzare quei berlingueriani che sono disponibili a concretizzare la loro linea controrivoluzionaria fino alle estreme conseguenze:
FINO AL PUNTO CIOE’ DI TRADIRE LA PROPRIA CLASSE, MANDANDO IN GALERA A CUOR LEGGERO UN PROPRIO COMPAGNO DI LAVORO.
L’obiettivo che il potere vuol raggiungere attraverso questa rete di spionaggio, non è solo quello propagandato della “caccia al brigatista o ai cosiddetti fiancheggiatori” ma quello ben più ampio ed ambizioso di individuare ed annientare all’interno delle fabbriche qualsiasi strato operaio che esprima antagonismo di classe.
E’ l’intero movimento di resistenza proletario che oggi è nel mirino di questa campagna di terrore controrivoluzionario, scatenata dal potere e sostenuta a tamburo battente dai loro lacchè berlingueriani: questa caccia alle streghe non colpisce solo chi legge e fa circolare la propaganda delle organizzazioni comuniste combattenti, ma anche chi lotta contro la ristrutturazione, chiunque si ribelli alla linea neocorporativa dei sindacati, chiunque anche solo a parole si dialettizza con la lotta armata, senza unirsi al coro generale di “deprecazione o condanna”. Una riconferma di tutto ciò viene dall’Ansaldo dove, come già successo alla Fiat e alla Siemens, i berlingueriani hanno consegnato alla direzione una lista coi nomi di operai “presunti brigatisti”, compilata anche in base agli interventi fatti nelle assemblee precontrattuali.
QUESTA E’ L’ESSENZA DELLA POLITICA BERLINGUERIANA ALL’INTERNO DELLE FABBRICHE, IL TENTATIVO CIOE’ DI DIVIDERE LA CLASSE OPERAIA CREANDO UNO STRATO CORPORATIVO, FILOPADRONALE E PRIVILEGIATO DA CONTRAPPORRE AGLI ALTRI STRATI DI CLASSE E PROLETARI.
A chi si presta a questa lurida manovra ai vari Rossa e a tutti gli aspiranti spia, ricordiamo che, proletari si è non per diritto di nascita ma per gli interessi che si difendono e all’interno di questa discriminante sapremo distinguere, come sempre, chi è un proletario e chi è un nemico di classe.
All’interno di questo progetto, Rossa faceva parte della rete spionistica dell’Italsider, come membro dei gruppi di sorveglianza interna, istituiti dai vertici sindacali per affiancare i guardioni nei compiti di repressione antioperaia. ECCO QUAL’ERA IL SUO VERO LAVORO!! La sua grande occasione, nella quale ha raccolto i frutti di tanto costante e silenzioso lavoro è venuta il giorno in cui è riuscito a consegnare al potere un operaio che conosceva e assieme al quale lavorava da anni, il compagno Franco Berardi, “reo” di aver avuto per le mani propaganda della nostra organizzazione.
La conferma del rapporto diretto tra spioni e direzione si capisce dal fatto che Rossa, dopo aver pedinato per ore il compagno Berardi, insieme al suo degno compare Diego Contrino E’ ANDATO DIRETTAMENTE IN DIREZIONE a denunciarlo, mettendo di fronte al fatto compiuto lo stesso Consiglio di fabbrica che infatti si era spaccato quando i bonzi sindacali gli avevano imposto di coprire politicamente l’azione di spionaggio.




Era vero che il Pci, in collaborazione con i carabinieri di Dalla Chiesa, stesse organizzando un controllo nelle grandi fabbriche per individuare i brigatisti. Si trattava, però, di un conflitto all'interno della medesima classe sociale, che non poteva o doveva essere risolto con le armi.

Ai funerali di Rossa parteciparono decine di migliaia di persone mentre le Br persero consenso e credibilità.

La figlia Sabina, che all'epoca dell'uccisione del padre aveva solo 7 anni, avrebbe cercato i componenti del nucleo brigatista all'inizio degli anni duemila, riuscendo ad incontrarne alcuni.

Scritto un libro sulla vicenda, è divenuta senatrice dell'Ulivo nel 2006. Attualmente è deputata nel gruppo del PD.

Berardi si uccise nel carcere di Cuneo il 24 ottobre 1979. Da quel momento la colonna genovese assunse il suo nome, ma fu praticamente debellata nel marzo 1980 con la strage di via Fracchia, a pochi metri dalla casa di Rossa.
http://www.google.com/search?q=via+fracchia&hl=en&lr=lang_en&client=safari&tbo=u&rls=en&tbs=lr:lang_1en&tbm=isch&source=univ&sa=X&ei=nA8BUeiwCMGJ4AT-zIGoBA&ved=0CEgQsAQ&biw=1258&bih=628.



lunedì 21 gennaio 2013

EZIO MAURO e l'OBLIO

"Non è un problema di partecipare ai funerali, ma all'elemento simbolico che i funerali rappresentano e non sentire la necessità umana di separarsi da quei simboli che quei funerali rappresentano. Non è possibile aver ripudiato il terrorismo, aver fatto una scelta di difendere lo Stato e la democrazia, uno Stato che non ci piaceva e difendeva le stragi, ma che andava cambiato. Nascondere tutto ciò dietro la parola umanità è improprio. E' vero che i morti meritano compassione tutti ed è chiaro che di fronte alle persone sconfitte si guarda alla parabola della loro vita, ma l'umanità deve cominciare prima di tutto dalle vittime. La cui vita è stata spezzata per un disegno ideologico folle, che sembrava già folle allora, ripudiato dalla classe operaia alla quale ci si rivolgeva. Come si fa a parlare di umanità senza dimostrare umanità per le vittime. E' grave che esistano queste scorie nella sinistra italiana. Che significato ha? Come se non fosse la cosa più vile di questo mondo sparare a una persona disarmata che crede di vivere in democrazia in tempo di pace perché si mima una guerra che non esiste e che è stata dichiarata da una parte sola?
Com'è possibile a tanti anni di distanza a dare dei giudici ancora così ambigui? Fortunatamente la grandissima maggioranza della sinistra i conti li ha fatti, salvando la democrazia italiana come hanno fatto la Democrazia Cristiana e il Pci durante il sequestro Moro."


Queste le parole di Ezio Mauro oggi in redazione a Repubblica. Le ho trascritte in fretta, qualche passaggio è omesso, ma la sostanza è questa.

Io mi chiedo, e ce lo chiediamo in molti: ma come si fa ad avere ancora paura di una rivoluzione che come giustamente dice Mauro, è stata sconfitta? Cosa c'entrano le vittime? Non è mica morta una vittima delle Br. E' morto ed è stato accompagnato nel suo ultimo viaggio un dirigente delle Br. Uno dei più famosi. Di cui la stampa, che avrebbe preferito tacere, è costretta a parlare.  La memoria di Prospero fa paura, perché ci sono donne e uomini che lo ricordano. E che non pensano a una guerra dichiarata unilateralmente, guardando a quegli anni. Credono che la lotta armata fu una risposta alla reazione della classe dirigente italiana, alla ristrutturazione capitalistica, ai licenziamenti e alla controffensiva reazionaria, dopo lo scatto in avanti rappresentato dagli anni Sessanta. Fu la risposta alle bombe di Milano, alla strategia della tensione che insanguinò il Paese fino al 1974. Fu il tentativo, unico nella sua originalità, di portare in Italia uno scontro sociale armato, di armare il proletariato, di attaccare lo Stato, la Democrazia Cristiana. E di processarla. Quel processo che non poteva avvenire né in Parlamento, né nelle piazze, avvenne in un appartamento della periferia romana. E i partiti se ne disinteressarono. Che Mauro ci spieghi in che modo sarebbe andata a malora la Repubblica, ripeto, la Repubblica, lo Stato, se i partiti avessero trattato la liberazione di Moro? Se avessero scelto di liberare un solo prigioniero politico. Uno solo. Avrebbero salvato Moro. Lo hanno lasciato morire, senza assumersene la responsabilità politica. E di questa memoria che non si può e non si deve parlare in Italia. Del fatto che un gruppo consistentissimo di proletari si siano armati e abbiano sparato al capitale e ai suoi rappresentanti. E del fatto che questa storia sia durata non meno di quindici anni. E si sia conclusa, da un punto di vista giudiziario, con l'assunzione piena di responsabilità da parte degli imputati. Responsabilità politica, per la quale sono stati condannati a decine di ergastoli persone che non hanno mai sparato. E per la quale, dopo 32 anni, molti sono ancora in carcere.
Cosa vuole Mauro? Una solo parola: l'Oblio. Caro Mauro, non l'avrai mai.

















IMPASTATO-SAVIANO-PERSICHETTI

Persichetti scortato dalla Polizia dopo l'estradizione dalla Francia


Saviano non ha mai parlato con la madre di Peppino Impastato nei termini da lui descritti in un libro. La donna non gli avrebbe mai detto: "Come madre ti dico di smettere, come donna di andare avanti".
Così ha deciso il Gip di Roma, che ha archiviato la querela presentata da Saviano contro Paolo Persichetti per un articolo in cui il giornalista, sentita la famiglia Impastato, aveva contraddetto quanto assunto come proprio dallo scrittore più scortato d'Italia.

Su questo Blog si è già parlato delle "inesattezze" di Saviano, per esempio riguardanti la Politkovskaja.

Se ne aggiunge ora un'altra, certificata.

Paolo Persichetti, lo ricordo, era rifugiato in Francia e fu riportato in Italia perché sospettato di aver preso parte al delitto di Marco Biagi, sospetti rivelatisi poi infondati. Sta finendo di scontare una condanna per fatti risalenti agli anni Ottanta. Dunque, Saviano, il difensore dei deboli, ha querelato un uomo di sinistra che si trova in una condizione oggettivamente difficile, in quanto detenuto.
E ha perso.

Per la documentazione si veda http://insorgenze.wordpress.com/2012/12/06/non-ce-diffamazione-per-la-procura-la-querela-di-saviano-contro-lex-brigatista-in-semiliberta-va-archiviata/

LAVORO, CASA, DIGNITA', UGUAGLIANZA.





A casa di Prospero ho trascorso il Primo Maggio del 2005. Stavo insieme a Francesco Piccioni e su incarico della Casa Editrice "Odradek" si doveva parlare del libro "Un contadino nella metropoli", uscito l'anno dopo con Bompiani.
Devo dire che quel titolo non mi convinceva. Come un contadino? I contadini sono sempre stati dalla parte della reazione, alla fine. Sono i piccolo borghesi doc, quelli che dalla terra ricavano più redditi con un solo lavoro, che quando ottengono la terra - rivoluzione ti saluto.
Ma nella metropoli si proletarizza, rispondeva Prospero, e acquista coscienza di classe. Sul titolo nulla, un muro. Non mi convinceva neanche il resto, però. Non perché l'avrei buttato via. Ma mi sembravano necessari alcuni passaggi politici che erano stati omessi. Perché? Perché, gli dicevo, sei stato uno dei massimi dirigenti delle Br. Discutemmo per ore. Registrai pure qualcosa, che avrò messo chissà dove, ma alla fine non si spostò di una riga. Non ci fu verso (e Piccioni era dalla mia parte allora) di convincerlo a spostare nulla. A malincuore "Odradek" decise di non pubblicare il libro. Quando poi uscì, l'anno seguente, inseguito da stroncature su tutti i maggiori quotidiani, il titolare della casa editrice romana alzò le sopracciglia. Come a dire: non mi ero sbagliato.
Nel frattempo sentivo Prospero, ma solo per telefono. Era malato, Prospero, molto malato. Già allora, già da decenni.
Reggio Emilia fa impressione. Te la ricordi una delle città della provincia italiana più ricca, e invece la crisi miete anche qui. La stazione e le strade intorno sono una piccola "Termini" dei tempi peggiori. Solo le centinaia di biciclette ammassate su un lato sono un segno. Si prende il 4 e si va verso Coviolo, la frazione dove abitava Prospero. Attraversi il centro mentre continuano a salire adolescenti che escono dalle superiori e vanno a casa. Tutti a Coviolo, fermata più, fermata meno. L'autobus è pieno. La neve intorno copre tutto.
Scendiamo di fronte al cimitero. Un breve tratto a piedi e sei dal fioraio. Prendiamo quattro garofani rossi, che metteremo sopra la bara di Prospero, già avvolta in quella bandiera con falce e martello e stella a cinque punte. Pare ci sia la Digos, ma neanche la vedo. Sto attento ai volti dei compagni e delle compagne, abbraccio Giava, stringo la mano a Piccioni, poi arriva Salvo, Baruda, vedo Tinino, Giorgione di Bologna, e Sante, che ha preso in mano l'organizzazione. Dentro la camera mortuaria, mentre depongo i garofani, un giornalista mi chiede se può scattare una foto, così, dice, non ci sono solo vecchi. Premuroso. Qualche ragazzino, in realtà, c'è. Magari è intimorito e non entra. Ci si sposta dentro la sala per le commemorazioni, ma ci stiamo solo in minima parte. Sante propone di fare la commemorazione fuori, sotto la neve, ma almeno le mille persone intervenute possono partecipare.
Comincia Seghetti, che ricorda i nomi degli assenti. Poi la parola passa Tonino Paroli, che difende la storia delle Br e come Cossiga, sottolinea che non fu terrorismo. Sante legge sue poesie, quindi prende la parola Oreste per un'omelia sentita ed emozionante. Aveva già fischiettato l'internazionale nella camera ardente. Ora la riprende, poi la canta, in italiano e francese. Pugni chiusi. Lunghi applausi. Prospero è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai.
Chi ha qualcosa da dire lo faccia, insiste Giava. Prendono la parola due giovani, viene letta una pagina del libro di Prospero.
Ancora un applauso, quindi Sante e Tonino portano del vino. C'è anche Renato. Brindiamo intorno al feretro.
Le persone muoiono. Il funerale successivo, fortunatamente programmato molto dopo quello di Prospero, dovrebbe iniziare. Si sta avvicinando un piccolo corteo di gente, che si vedrebbe venire intorno quello che i giornali hanno definito "lo stato maggiore delle Br". Se solo lo riconoscessero.

Ma perché un morto a uno stato maggiore che non è mai esistito nella realtà allora, figuriamoci oggi che sono tutti ultrasessantenni ma segnati da decenni di carcere, perché tutto ciò fa ancora tanta paura in questo paese? Perché un gruppo consistente di persone che sono venute sotto  la neve da tutta Italia non può accompagnare un proprio morto con un pugno chiuso sollevato verso il cielo? Perché deve essere etichettato, segnato, violato come allora (si parlava di rivendicazioni deliranti) come "nostalgici"? E mica stiamo a Predappio. Mica si vuole restaurare un regime. Mica vogliamo Curcio presidente del Consiglio. Volevamo soltanto salutare un compagno che ha dato tanto, ha dato la vita a vederla bene, per la causa della rivoluzione proletaria. Per i più deboli, gli emarginati, quelli senza casa e senza lavoro. E basta così. Non c'è bisogno di retorica.
Ma sono quelle, proprio quelle le idee che fanno paura. Non siamo noi. Se volessero in cinque minuti ci sbattono dentro e ci lasciano marcire per un po' in carcere.  Le idee. Quanto è strano. Davvero quelle non le ingabbi. E se lo fai, le alimenti. Loro, che lo sanno bene, se la prendono allora con le persone, fanno scoppiare una ridicola querelle addirittura dentro Rifondazione, che appoggia una lista di giustizialisti. E di quelle idee non vogliono parlare. Uguaglianza, dignità, rispetto, lavoro, casa.
Sono più di 150 anni che il conflitto di classe si basa su queste. Eppure Prospero, in questa Italia ormai post-belusconiana, fa ancora paura. Un uomo. Un contadino. Una coscienza di classe. Un morto. Di Reggio Emilia.



















LA GENERAZIONE PIU' CARA




MARIO GAMBA, Il manifesto
20.01.2013

Hanno detto di lui che era un rivoluzionario d'altri tempi. Per via della continuità con la tradizione comunista insurrezionalista, coltivata a Reggio Emilia, la sua città (però lui abitava nel contado). Hanno detto che era stalinista e che non avrebbe esitato a far fuori un sovversivo tipo '77, presumibilmente «creativo» e fricchettone oppure sostenitore dell'operaio sociale e del non-lavoro, se gliel'avessero chiesto. Sicuri? Qualcuno davvero gli ha fatto domande su questi argomenti, prima, durante e dopo la sua avventura con le Br? Soprattutto durante. Perché è innegabile la sua crescita politica all'ombra delle grandi narrazioni resistenziali e comuniste, ma è anche innegabile il suo ingresso nella lotta rivoluzionaria armata nel crogiuolo delle nuove lotte e delle nuove culture sessantottesche e oltre. Prospero Gallinari deve aver contattato tanti generi di persone dopo il '68. E quel che è certo è che senza la grande ondata di quegli anni, senza le sfaccettature, con tante impronte libertarie ben visibili, di quegli anni, non gli sarebbe venuto in mente di colpire, armi in pugno, il «cuore dello stato». Adesso è qui, in una bara avvolta in un drappo rosso con falce e martello. Tra qualche giorno sarà in un'urna di ceneri che non saranno disperse al vento come quelle del padre dell'operaio edile di Riff Raff di Ken Loach, ma tumulate nella tomba di famiglia. Nel cimitero di Coviolo, frazione di Reggio, il rito dell'ultimo saluto è sì, forse, di quelli d'altri tempi. Come quando si accompagnavano i morti di Reggio Emilia nel 1960, quelli che Fausto Amodei chiamava a «uscire dalla fossa», e i morti giovani, di anni dopo, gli anni dell'Orda d'oro, come l'hanno intitolata Nanni Balestrini e Primo Moroni, studenti del Ms come Roberto Franceschi, anarchici come Franco Serantini. Saluto a pugno chiuso. Ebbene sì. Si può persino essere imbarazzati, si può pensare che va evitata ogni retorica. Ma volevate non esserci a questo funerale di un combattente per la rivoluzione? Volevate risparmiare quelle lacrime che inevitabilmente a un certo punto vi scendono lungo le gote? Succede, per esempio, quando uno dei suoi compagni legge un ricordo collettivo: «... ti rasserenava al termine di ogni discussione... la sensazione di aver ricevuto qualcosa e la convinzione che il Gallo avesse preso qualcosa...». È un convegno brigatista questa cerimonia così fervida e così laica? Ce ne sono tanti dei compagni d'arme (e stavolta non è un modo di dire) di Gallinari, anche quelli che si trovarono in dissenso con lui. Curcio, Balzerani, Senzani, Fiore, Seghetti. Storie e destini diversi dai suoi, qualcuno più tormentato rispetto a lui che, semplicemente, nel 1988 aveva firmato un documento in cui si riconosceva finita e sconfitta la lotta armata. E dopo aveva vissuto sereno, per quel che può esserlo un uomo mitragliato alla testa e scampato a vari infarti. Ma c'è tanta gente qui al cimitero di Coviolo. Almeno un migliaio di persone. Non tutti ex brigatisti. Ci sono vecchi e giovani, amici del posto, ragazzi dei centri sociali, militanti della sinistra senza paraocchi venuti da vicino e da lontano. Solo un piccolo striscione rosso: «La rivoluzione è un fiore che non muore». Clima teso, tremendo, come in Germania in autunno, ultimo episodio di quel film a dieci firme, Fassbinder, SchlSchlöndorff, Kluge, Reitz tra gli altri, i funerali di Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Irmgard Möller, i tre «suicidi» di Stammeim? Ma no. Gli agenti della Digos si tengono a distanza, gironzolano, occhieggiano. Gli amici e i compagni di Prospero si raccolgono tranquilli e commossi a commemorarlo. Ognuno a modo suo, chi in forma epigrammatica chi con piccoli comizi. Tonino Paroli: «Non chiamateci terroristi, non lo siamo mai stati». Oreste Scalzone: «Prospero sentiva l'appartenenza ma non come un Rodomonte». Sante Notarnicola: «Vorrei ricordare la generazione degli anni '50 e '60, la più pura, la più infelice, la più cara». Facce segnate dal tempo e da delusioni cocenti? Se si vuole, sì. Ma dove non si trovano in giro per le città? Per un amore perduto, per un flirt finito male. E la rivoluzione è un amore grande, un flirt potentissimo. Sempre a cercare, noi, che finisca meglio
Hanno detto di lui che era un rivoluzionario d'altri tempi. Per via della continuità con la tradizione comunista insurrezionalista, coltivata a Reggio Emilia, la sua città (però lui abitava nel contado). Hanno detto che era stalinista e che non avrebbe esitato a far fuori un sovversivo tipo '77, presumibilmente «creativo» e fricchettone oppure sostenitore dell'operaio sociale e del non-lavoro, se gliel'avessero chiesto. Sicuri? Qualcuno davvero gli ha fatto domande su questi argomenti, prima, durante e dopo la sua avventura con le Br? Soprattutto durante. Perché è innegabile la sua crescita politica all'ombra delle grandi narrazioni resistenziali e comuniste, ma è anche innegabile il suo ingresso nella lotta rivoluzionaria armata nel crogiuolo delle nuove lotte e delle nuove culture sessantottesche e oltre. Prospero Gallinari deve aver contattato tanti generi di persone dopo il '68. E quel che è certo è che senza la grande ondata di quegli anni, senza le sfaccettature, con tante impronte libertarie ben visibili, di quegli anni, non gli sarebbe venuto in mente di colpire, armi in pugno, il «cuore dello stato». Adesso è qui, in una bara avvolta in un drappo rosso con falce e martello. Tra qualche giorno sarà in un'urna di ceneri che non saranno disperse al vento come quelle del padre dell'operaio edile di Riff Raff di Ken Loach, ma tumulate nella tomba di famiglia. Nel cimitero di Coviolo, frazione di Reggio, il rito dell'ultimo saluto è sì, forse, di quelli d'altri tempi. Come quando si accompagnavano i morti di Reggio Emilia nel 1960, quelli che Fausto Amodei chiamava a «uscire dalla fossa», e i morti giovani, di anni dopo, gli anni dell'Orda d'oro, come l'hanno intitolata Nanni Balestrini e Primo Moroni, studenti del Ms come Roberto Franceschi, anarchici come Franco Serantini. Saluto a pugno chiuso. Ebbene sì. Si può persino essere imbarazzati, si può pensare che va evitata ogni retorica. Ma volevate non esserci a questo funerale di un combattente per la rivoluzione? Volevate risparmiare quelle lacrime che inevitabilmente a un certo punto vi scendono lungo le gote? Succede, per esempio, quando uno dei suoi compagni legge un ricordo collettivo: «... ti rasserenava al termine di ogni discussione... la sensazione di aver ricevuto qualcosa e la convinzione che il Gallo avesse preso qualcosa...». È un convegno brigatista questa cerimonia così fervida e così laica? Ce ne sono tanti dei compagni d'arme (e stavolta non è un modo di dire) di Gallinari, anche quelli che si trovarono in dissenso con lui. Curcio, Balzerani, Senzani, Fiore, Seghetti. Storie e destini diversi dai suoi, qualcuno più tormentato rispetto a lui che, semplicemente, nel 1988 aveva firmato un documento in cui si riconosceva finita e sconfitta la lotta armata. E dopo aveva vissuto sereno, per quel che può esserlo un uomo mitragliato alla testa e scampato a vari infarti. Ma c'è tanta gente qui al cimitero di Coviolo. Almeno un migliaio di persone. Non tutti ex brigatisti. Ci sono vecchi e giovani, amici del posto, ragazzi dei centri sociali, militanti della sinistra senza paraocchi venuti da vicino e da lontano. Solo un piccolo striscione rosso: «La rivoluzione è un fiore che non muore». Clima teso, tremendo, come in Germania in autunno, ultimo episodio di quel film a dieci firme, Fassbinder, SchlSchlöndorff, Kluge, Reitz tra gli altri, i funerali di Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Irmgard Möller, i tre «suicidi» di Stammeim? Ma no. Gli agenti della Digos si tengono a distanza, gironzolano, occhieggiano. Gli amici e i compagni di Prospero si raccolgono tranquilli e commossi a commemorarlo. Ognuno a modo suo, chi in forma epigrammatica chi con piccoli comizi. Tonino Paroli: «Non chiamateci terroristi, non lo siamo mai stati». Oreste Scalzone: «Prospero sentiva l'appartenenza ma non come un Rodomonte». Sante Notarnicola: «Vorrei ricordare la generazione degli anni '50 e '60, la più pura, la più infelice, la più cara». Facce segnate dal tempo e da delusioni cocenti? Se si vuole, sì. Ma dove non si trovano in giro per le città? Per un amore perduto, per un flirt finito male. E la rivoluzione è un amore grande, un flirt potentissimo. Sempre a cercare, noi, che finisca meglio