giovedì 5 giugno 2014

COM'E' TRISTE VENEZIA




Venezia, 28 marzo 1988, casa di Elisabetta.
Diario di Elisabetta

Oggi subito dopo la lezione di ceco ho preso la gondola appena fuori Ca’Foscari e ho attraversato il Canal Grande. Camminavo dimentica e senza meta tra le boutiques, quando le nuvole basse che opprimevano la laguna sono scomparse. Ho attraversato quasi correndo il ponte dell’Accademia e sono giunta velocemente alla Punta della Dogana. Sono rimasta in piedi a osservare San Marco e la Giudecca, cercando di cogliere l’essenza della città. Dalla Dogana ogni giudizio diventa più obiettivo; non sei stordita dalle vetrine, dalle luci e dai turisti; dalla Dogana Venezia riacquista tutta la magia di cui la privano i veneziani così pettegoli, così insopportabilmente allegri, gelosi custodi della loro tristezza di maniera, cinica e ambigua, perché Venezia gioca con l’ambiguo, che adora. Ma dalla Dogana Venezia non può sfuggire, da qui la trapassi con lo sguardo e riesci a penetrare fin dentro il suo ventre. Le Corbusier ha detto che le città sono dei deserti in cui si muore di fame davanti a mille porte chiuse; tu sfuggi a questa definizione; nessun deserto, soltanto acqua, e palazzi, e case che vi affondano e sopra, in superficie, gondole nere che come tanti aghi di bussola impazziti si fermano solo all’apparire della nebbia, la cava nebbia che silenziosamente scivola via e le nasconde come unica alternativa al tempo, di cui ne è l’essenza, di cui ne è la polvere. La nebbia ti protegge dai secoli già indossati ma sciupa le sommità assolate delle sponde cariche di chiese con il suo limpido retaggio oscuro. L’acqua che filtra ovunque è come i vivi che incidono attraverso la solitudine del tempo, è l’archetipo della forza che tende l’arco che sempre avanza e mai decade, come l’anima, la molle forma del corpo, le linee grigie del mare, incise indelebilmente dalle gondole nere che specchiano le loro silhouette contro il cielo in cui è segnata la mappa dell’incontro, attraverso le epoche d’oro, di Oriente e Occidente. Nel Medioevo si immergevano gli insani nell’acqua; un certo Van Helmont credette a tal punto agli effetti benefici di questa operazione, che si mise a tuffare gli alienati ovunque vedesse dell’acqua, mare, lago o fiume che fosse. Acqua fanatica, acqua medica, acqua ambigua, latte sovietico (ma solo nel 1919), adiposa e nera, torbido subconscio  dell’Occidente malato. L’acqua di Venezia non gocciola via, non si separa mai da niente e rimane sempre uguale a se stessa; non diviene, morirà (lo so), si spegnerà un giorno come una candela che si è  rifiutata di trasmettere ad altre la propria vita.
Batterono le due. I raggi del sole si appiattivano sulla superficie del mare che riluceva come fosse ambra ellenica, l’ambra bianca e povera che io amo e che si addice alle forme orientali di questa città. Un poeta ebreo ha paragonato le sue tettoie di zinco e di marmo a un gigantesco servizio da tè rovesciato. Ho visto la mano inguantata di un valletto in livrea gallonata sporgersi sopra la Salute, rovesciarla, porla su di un piatto e versarvi dentro del tè bollente. Salire poi le scale di un palazzo pietroburghese e passare il vassoio a Lizaveta Ivanovna, damigella d’onore, che a sua volta l’avrebbe portato all’amante del barone di Saint-German nel silenzio più assoluto. La principessa avrebbe sorseggiato il tè per un poco fin quando, stanca, non avrebbe posato distrattamente la tazzina vicino a San Geminiano (che aspettava da un secolo), al Redentore, a San Giorgio e a San Francesco. Ben presto di Venezia non sarebbero rimaste che le viscere, le fondamenta, i campi con le edicole, le vetrine e le maschere. Si sarebbero salvati i tre piani delle Procuratie illuminati da un milione di teschi, come un tempo si faceva per Natale...Le grida di una scolaresca di milanesi che saliva dal lato delle Zattere mi hanno interrotto. I ragazzi cercavano di rubare i gelati alle compagne facendo un chiasso rassicurante. S’era alzato un leggero vento e cominciava a fare freddo. Ho preso il vaporetto alla Salute (che strano, c’era ancora) e mentre tornavo a casa per il Canal Grande la mia città di studi non faceva più paura.

martedì 3 giugno 2014

AUTOCOMMISSIONE

Pochi giorni fa il Senato ha votato l'istituzione di una ennesima Commissione di inchiesta bicamerale sul Caso Moro. Riportiamo l'intervista del presidente in pectore, Gero Grassi, uno dei promotori, che non sa nulla sulla questione (cita Gallinari senza sapere che da almeno 15 anni la magistratura ha emesso una sentenza che individua (reo confesso) in Maccari l'uccisore materiale di Moro. Così, tanto per dire.


«La Commissione Moro cercherà in ogni modo la verità, perché il Paese ne ha bisogno anche per evitare il ripetersi di tragedie come questa». E’ quanto afferma, rispondendo alle domande di lettera35, il vice presidente dei deputati del Partito democratico, Gero Grassi, promotore del disegno di legge che ieri ha incassato il via libera del Senato e che porterà all’istituzione di una nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro del presidente della Dc.
Grassi, già autore di un voluminoso dossier sullo stesso caso, è fermamente convinto che a distanza di 36 anni dal sequestro e dall’assassinio di Aldo Moro il Parlamento riuscirà a fare luce su una delle pagine più drammatiche della storia repubblicana «perché i tempi sono cambiati e le condizioni storiche dovrebbero consentirlo». «Girando l’Italia per presentare il dossier sul tema “Chi e perché ha ucciso Aldo Moro” – aggiunge il vice presidente dei deputati del Pd – ho percepito una grande volontà di verità su una bruttissima pagina della nostra Repubblica».
Onorevole Grassi, le precedenti Commissioni non sono riuscite a fare luce su molti aspetti ancora oggi poco chiari, cosa le fa pensare che questa volta il Parlamento ce la farà?
«La forza di volontà e la determinazione di rendere giustizia ad un uomo morto per la libertà e la democrazia. Aggiungo anche la passione morotea di sapere e conoscere, avendo conosciuto Aldo Moro nel lontanissimo novembre 1963, quando avevo cinque anni e mezzo. Quando Moro fu rapito, il 16 marzo 1978, feci il mio primo comizio e sostenni sempre la necessità della trattativa, tesi allora respinta come demoniaca e lesiva della integrità dello Stato, oggi quasi unanimemente accettata».
Commentando l’istituzione della Commissione ha accennato a false verità e all’assenza di uno scenario credibile sulla morte e la prigionia di Aldo Moro, può riassumere quali sono gli aspetti su cui la Commissione si concentrerà?
«Penso che vada fatta anzitutto luce su via Fani, dove in base a quanto sostiene la magistratura, con sentenze definitive, c’erano persone non riconducibili alle Brigate rosse. Poi penso vada chiarita la morte di Moro che non è avvenuta per mano di Prospero Gallinari, come lui stesso ha raccontato prima di morire e come il senatore Sergio Flamigni sostiene sin dagli anni novanta. In aggiunta, le false verità sono quelle di via Gradoli, il lago della Duchessa e la prigione di Moro che non è unica, come dicono i brigatisti, perché i rilievi medico-scientifici sul corpo di Moro lo hanno accertato ed escluso».
Che idea si è fatto sulle dichiarazioni dell’ispettore Rossi in merito alla presunta presenza in via Fani di agenti segreti?
«Sinora ho studiato gli atti della magistratura e delle Commissioni d’inchiesta. Leggo i giornali, ma non mi condizionano. La vicenda dell’Ispettore Rossi va chiarita senza pregiudizio alcuno e con rispetto dei vivi e dei morti. Penso che una persona che affermi quello che sostiene Rossi o è un matto da legare, e va curato, oppure dice cose che è in grado di certificare con prove. Che in via Fani ci fossero altri soggetti lo dicono anche Alberto Franceschini e Valerio Morucci (due membri della Brigate Rosse, ndr)».
Proverete ad ascoltare i due brigatisti del commando di via Fani, Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono, ancora oggi latitanti, e a sollecitare la loro estradizione?
«La vicenda di Casimirri è veramente strana. Ci sarà qualcuno responsabile della sua non estradizione? Perché i Servizi vanno a trovarlo e non sappiamo nulla? Chi ha favorito Casimirri in questi anni?».
La Commissione riuscirà a rendere pubblici i documenti sul caso Moro ancora oggi classificati?
«L’obiettivo del Governo Renzi è eliminare ogni classificazione e copertura. Dopo trentasei anni ogni copertura è sinonimo di correità od omissione di verità. Voglio specificare che la Commissione d’inchiesta non tende a fare rese dei conti, né fisiche né giudiziarie, ma a scoprire la verità storica e consegnarla al Paese».
Il Parlamento dovrà fare tutto questo in 18 mesi e con scarse risorse a disposizione, non le sembra un missione impossibile?
«A me piacciono le missioni impossibili. Togliere all’uomo la possibilità di misurarsi con le sfide difficili è renderlo innocuo e paralizzato. Voglio vivere, sapere, capire, raccontare e studiare come evitare il ripetersi del dramma di Aldo Moro. Voglio raccontare ai cittadini, come sto facendo dovunque in Italia, la vita e la morte dell’uomo mite e buono Aldo Moro e concludere che lo Stato deve evitare il ripetersi di tragedie come questa».

lunedì 2 giugno 2014

CHE IL MEDITERRANEO SIA

A volte trovo molto più utili le canzoni che le parole di studiosi. Parole che purtroppo capisco anche senza provenire da quegli studi dove si usa un lessico vecchio di almeno un ventennio, mediamente incomprensibile, surrogato del pensiero postmoderno alto, dove frasi del genere non si incontrano mai. Si dovrebbero preoccupare.





Dall’editoriale "Rovesciare la carta. Giochi di scale", "Zapruder", rivista di Storia:



In un libro recente sul Mediterraneo, David Abulafia ha decentrato lo sguardo dalla prospettiva braudeliana disegnando una diversa antropologia che si focalizza sui soggetti che hanno abitato e percorso il mare, spinti dal desiderio di conoscere, commerciare, razziare, conquistare e sottomettere, ma anche far circolare idee, saperi, religioni.

In questo numero di «Zapruder» abbiamo provato a spingere più avanti questa prospettiva individuando nei movimenti che attraversano il Mediterraneo delle linee di frattura che spingono a scomporre le lenti interpretative, restringendo lo sguardo su specifiche città, reti locali, biografie e allo stesso tempo allargandolo ad una dimensione globale (Africa Subsahariana, ma anche Nord Europa). 

[Il titolo] "Movimenti nel Mediterraneo" non gioca solo con la duplice assonanza tra i movimenti politici e sociali e la mobilità di persone, pratiche e idee, ma mira anche a tematizzare i movimenti di focale, i diversi giochi di scale tra micro e macro. A fronte dell’immagine aconflittuale del Mediterraneo come sinfonia “musicale”, terzo spazio dell’ibridazione delle culture, o irenico topos letterario, si delinea così una genealogia dei conflitti e delle loro connessioni. Non solo sul fronte delle lotte, ma anche delle pratiche di repressione e di dominio.