venerdì 4 aprile 2014

LE INVASIONI BARBARICHE

Trecentomila. Quattrocentomila. Seicentomila.
Stanno per fare il loro ingresso, per forzare le mura e le frontiere, senza documenti, con i bambini sulle spalle e le pistole nelle cinture. Brutti, cattivi, sporchi e neri. Un tempo si diceva: negro, ebreo, comunista.
Un annuncio fatto dal nostro governo (Alfano), e ripreso da tutte le testate on line ieri. Questa mattina, poi, se ne discute alla radio.
In realtà di tratta, al solito, di cifre buttate lì a caso. Avrebbe potuto dire "un milione" e non sarebbe cambiato molto. Come i numeri delle manifestazioni. Sparati a caso, senza tenere conto della fisica (al massimo, ma proprio al massimo, quattro persone a metro quadrato).
Alfano deve in qualche modo rispondere al superamento del reato di clandestinità. E poi tra un mese si vota. Secondo il Consiglio italiano per i rifugiati, negli ultimi mesi si è registrato un aumento degli arrivi per mare, ma molto contenuto e su numeri bassi. Si tratta, spesso, di persone provenienti da zone di guerra o da paesi con regimi dittatoriali e che, dunque, avrebbero il diritto di richiedere e ottenere asilo. Lo scorso anno in Italia le domande sono state 27.000, e non tutte sono state accolte.
E' il giornalismo diafano e acritico, che vive sulle dichiarazioni dei politici trasformandoli in lanci di agenzia. La serena passeggiata sopra le notizie di direttori che vivono di rapporti personali.
     
   

mercoledì 2 aprile 2014

MOTO RICORDO



Rapimento Moro, ma quali servizi sulla moto Honda di via Fani c’erano due giovani che abitavano nel quartiere


Sulla motocicletta Honda che la mattina del 16 marzo 1978 transitò in via Fani, pochi minuti prima che scattasse l’attacco delle Brigate rosse contro la scorta del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, non c’erano uomini del Sismi ma due giovani del quartiere. I loro nomi, come ha ricordato recentemente un articolo apparso su Contropiano, sono noti da tempo alla magistratura: identificati dalla Digos nella primavera del 1998 chiarirono la loro posizione davanti al pubblico ministero Antonio Marini.
Nonostante la circostanza fosse stata ampiamente chiarita 16 anni fa, non si è esitato a rilanciare sull’Ansa un nuovo depistaggio, partendo da una lettera anonima inviata al quotidiano la Stampa nel 2009 che indicava a cavallo della Honda due presunti agenti del Sismi, i servizi segreti militari, ovviamente deceduti nel frattempo. Pista archiviata nel 2009 dalle procure di Torino e Roma dopo che gli uffici della Digos ne avevano verificato l’inconsistenza.


Su via Fani un’onda di dietrologia

di Marco Clementi e Paolo Persichetti
cb500fk2b2Abitavano in via Stresa, a poche decine di metri dall’incrocio dove venne portata a termine l’azione più importante delle Brigate rosse. Giuseppe Biancucci aveva 23 anni e Roberta Angelotti 20, quella mattina stavano tornando a casa ignari di quel che stava accadendo, non avevano armi con loro e non facevano parte delle Brigate rosse anche se gravitavano in un’area politica contigua. Erano sulla moto che transitò pochi attimi prima dell’arrivo del convoglio di Moro che subì l’attaccato di un nucleo composto da dieci brigatisti. La motocicletta che passò improvvisamente sulla scena non c’entrava nulla con quell’azione, anzi, creò solo imbarazzo. Biancucci e Angelotti, conosciuti a Roma Nord come “Peppe e Peppa” erano due “compagni” che militavano nel “Comitato proletario di Primavalle Mario Salvi”, dal nome del “militante comunista combattente” ucciso nel 1976 con un colpo di pistola alle spalle da Domenico Velluto, guardia carceraria, alla fine di una manifestazione sotto il ministero della Giustizia.
La loro militanza politica è una circostanza decisiva perché spiega due cose: il comportamento tenuto una volta giunti all’incrocio tra via Fani e via Stresa e il loro successivo silenzio. Dettaglio non da poco, Biancucci e Angelotti vennero arrestati nella primavera successiva nel corso di una inchiesta condotta dai Carabinieri nella zona Nord della capitale contro l’Mpro, un’area che le Brigate rosse stavano tentando di creare al di fuori dell’organizzazione con l’intento di coinvolgere parte del “movimento”.
Come ha raccontato Contropiano, Giuseppe Biancucci conosceva molto bene due persone che erano in via Fani quella mattina: Valerio Morucci, uno degli “steward” che dietro la siepe del bar Olivetti attendevano la vettura di Moro e la sua scorta e Alessio Casimirri, uno dei componenti del “cancelletto superiore”. Con il primo aveva frequentato il liceo mentre con il secondo aveva condiviso la militanza nel comitato di Primavalle. Rallentò perché si accorse di loro, vide Morucci camuffato, capì che stava accadendo qualcosa di grosso, addirittura lo salutò con un cenno di mano e poi via a tutto gas verso casa. Quell’esitazione, gli sguardi di complicità scambiati con i vecchi compagni furono poi interpretati da alcuni testimoni oculari, alquanto confusi e contraddittori, come il segno di una complicità operativa che non ci fu.
La domanda giusta, allora, non è cosa stessero facendo Biancucci e Angelotti sotto casa sulla loro moto con targa regolare, ma perché non hanno mai parlato. Porsi una domanda giusta è il segreto per avere una risposta di qualche interesse. L’esatto opposto di quel che fa la dietrologia. Per la cronaca, Biancucci rientrava dal lavoro, smontava dal turno di notte nel garage del padre situato a poca distanza.
E forse non ha mai parlato, perché in via Fani aveva visto degli amici, perché magari era convinto che stessero facendo una cosa condivisibile, o semplicemente perché un “compagno” non fa la spia. Tempi diversi da quelli odierni.
A parlare ci pensarono poi altri, alcuni pentiti come Raimondo Etro che rientrato da una lunga latitanza all’inizio degli anni 90 per discolparsi dal sospetto di essere stato uno dei passeggeri della moto riferì l’episodio sentito raccontare dalla Algranati: «ad un certo punto sono passati i due cretini di Primavalle ed hanno anche fatto ciao ciao con la manina». Individuati dalla Digos, Biancucci e Angelotti vennero ascoltati nella primavera del 1998 dal magistrato che cercò di incastrarli su un’altra vicenda, quella del tentato omicidio di Domenico Velluto, l’assassino di Mario Salvi, e della morte del suo vicino di tavolo, Mario Amato, colpito per errore in una trattoria mentre festeggiava la scarcerazione. I due ammisero di essere passati per via Fani quella mattina ma con tutto il resto non c’entravano nulla. Successivamente, come ha riportato "Contropiano" la settimana scorsa, uno dei testimoni chiave di via Fani, l’ingegner Marini (citato sempre a sproposito) riconobbe addirittura lo stesso Biancucci, scomparso precocemente nel 2010, come il guidatore della moto.
 Le considerazioni che questa storia suggerisce sono molte:
1) 16 anni fa la magistratura è pervenuta ad una ricostruzione della vicenda della moto di via Fani che si avvale di elementi probanti molto forti: la deposizione dei due motociclisti che hanno ammesso la circostanza, la plausibilità del loro racconto, la prossimità delle loro abitazioni con via Fani, il riconoscimento del testimone, il possesso della moto da parte del Biancucci compatibile temporalmente con i fatti, la testimonianza di uno dei brigatisti presenti in via Fani. Evidenze del tutto ignorate dal circo mediatico che ha rincorso uno scoop fondato su una lettera anonima farcita di contraddizioni. Possibile che nessuno sapesse dell’inchiesta del 1998? Che nessuno si sia ricordato?
2) La lettera anonima e il racconto dell’ex poliziotto in pensione, la stesura romanzata della vicenda facevano acqua da tutte le parti. Ci voleva molto poco per sentire puzza di marcio. L’autore dell’articolo scegliendo un registro narrativo vittimistico-persecutorio ha omesso di raccontare come le procure di Torino (pm Ausilio) e Roma (procuratore aggiunto Capaldo, a cui venne trasmesso il fascicolo per competenza), avessero fatto accertamenti escludendo l’attendibilità di quanto asserito in quella lettera ed inviando la pratica verso una inevitabile archiviazione (Cf. la copia delle lettera).
Lettera Honda copiaSi potevano evincere da subito due grossolane contraddizioni:
a) Stando al suo contenuto, l’anonimo autore del testo (dalla sintassi traballante) sarebbe il passeggero posteriore della motocicletta, quello che secondo uno dei testimoni più citati di via Fani -l’ingegner Marini – aveva un sottocasco scuro sul volto e soprattutto era armato con una piccola mitraglietta con cui avrebbe sparato ad altezza d’uomo (anche se i bossoli non sono mai stati trovati e l’esame balistico non conferma affatto l’episodio). Perché mai dunque la ricerca delle armi si è indirizzata solo sul guidatore (di cui si forniscono tracce nella missiva) che non aveva armi in mano? Ed a lui sarebbe stata trovata una improbabile pistola per nulla riconducibile ad una mitraglietta (vedi l’immagine qui sotto)?
b) Racconta l’ex poliziotto di aver trovato l’arma sospetta nella cantina del supposto guidatore, vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria de La Repubblica del 16 marzo con il titolo “Moro rapito dalle Brigate Rosse”. Se non è un copione cinematografico poco ci manca. L’arma era una Drulov cecoslovacca, pistola sportiva monocolpo a gas compresso Co2, con canna molto lunga. Poco maneggevole, basta provarla per capire che va bene solo per il tiro a segno, da posizione immobile e con tempo prestabilito per la mira, inutilizzabile in un’azione come quella di via Fani, impensabile come arma in dotazione a corpi speciali.
Drulov copia
 3) Siamo ormai al terzo tentativo fallito di accreditare in pochi mesi nuove piste, rivelazioni e misteri, dopo la clamorosa defaillance dell’ex magistrato Imposimato, raggirato da un personaggio che si è finto teste chiave assumendo diverse personalità e nikname e per questo ora indagato dalla magistratura. Queste “rivelazioni” assumono rilevanza non per la loro veridicità intrinseca ma solo per l’enorme pressione mediatica che le sospinge e una volontà politica largamente condivisa, decisa a non seppellire il cadavere di Moro per perpetuarne l’uso strumentale nell’arena politica con una nuova commissione parlamentare d’inchiesta.
4) Quale è il significato ultimo di tanta dietrologia sul rapimento Moro? Estirpare da ogni ordine del pensabile l’idea stessa di rivoluzione. Sradicare quegli eventi dall’ordine del possibile. Negarne non solo la verità storica (su cui il dibattito resta, ovviamente, aperto), ma l’ipotesi stessa che possa essere avvenuta. Presentare, quindi, le rivoluzioni come eventi inutili, se non infidi, sempre e comunque manovrati dai poteri forti, in cui c’è sempre un grande vecchio che non si trova e una verità occulta che sfugge continuamente. Si è diffusa una sorta di malattia della conoscenza, una incapacità ontologica che impedisce di accettare non solo la possibilità ma la pensabilità stessa che dei gruppi sociali possano aver concepito e tentato di mettere in pratica una strada diretta al potere. La dietrologia e il cospirazionismo hanno come essenza filosofica il negazionismo della capacità del soggetto di agire, di pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, ideologica, politica, culturale, religiosa, di genere.
Infine, impedisce di vedere ciò che appare acclarato, talmente grande ed evidente, che finisce sempre per rimanere celato dalle “rivelazioni”: lo Stato, i partiti, assunsero durante i 55 giorni del rapimento Moro una posizione ben precisa. Non trattarono. Fu una legittima scelta politica che, però, conteneva in sé la potenzialità che Moro potesse venire ucciso. Si tratta di una responsabilità non da poco ma, lo ripetiamo, assolutamente legittima. In tale contesto, i servizi potevano logicamente servire a trovare Moro, o a controllare che non uscisse vivo dalla prigione del popolo? Più si insiste sulla seconda ipotesi, più sfugge il lato politico della vicenda. Più si preme il tasto della dietrologia, meno si ricordano le dichiarazioni quotidiane di quei giorni, per cui, come disse un alto esponente del Pci dopo la prima lettera a Cossiga, “per noi Moro è politicamente morto”.

lunedì 31 marzo 2014

IL RICONSCIMENTO POLITICO DELLE BR


L'ultimo libro di Walter Veltroni dedicato a Berlinguer, libro che cammina di pari passo con il libro, contiene un implicito riconoscimento politico delle Br. Decenni dopo, e perché contiene l'intervista a uno dei suoi fondatori, Franceschini Alberto. Che racconta, nella prima parte, i motivi che portarono molti giovani ad allontanarsi dal Pci e aderire alla lotta armata. In seguito, egli ripete la stessa dietrologia sul caso Moro dei suoi precedenti interventi, PUR AVENDO PREMESSO CHE: "in fondo anche il rapimento di Moro è coerente con la nostra strategia per certi aspetti. E' un'operazione intelligente dal punto di vista di chi la compie e di chi poi la dirige, un'operazione di rottura del compromesso storico" [ipotesi storiograficamente discutibile, ma 'politica].

Ecco la sintesi della prima parte:

Per noi Berlinguer era il capo dei venduti perché di fatto
era quello che cercava in qualche modo di portare il Partito
comunista all’interno di un progetto occidentale, non di
tipo rivoluzionario. Era venduto in questi termini: stava
svendendo un patrimonio storico non in nome di una
rivoluzione, ma di un riformismo più o meno profondo.
Era un nemico perch. lo consideravamo un riformista.
Io ricordo che secondo noi il punto di svolta fondamentale
all’epoca è stato il congresso di Bologna del 1969 in
cui per la prima volta il Partito comunista disse in maniera
chiara ed esplicita che la Costituzione italiana cos. com’era
era perfetta, cosa che prima non era mai stata detta, perché
c’era sempre stata l’ambiguità di una Costituzione nata
da un confronto tra due forze diverse che si combattevano
per arrivare a certi obiettivi. La nomina di Berlinguer
come vicepresidente, allora era presidente ancora Longo,
sanciva secondo noi proprio questo tipo di percorso che

avrebbe portato alla distruzione del Partito comunista.


Rapporti diretti con l’Est non ne avemmo mai. Anzi,
durante i primi quattro anni in cui io sono rimasto fuori,
li abbiamo sempre rifiutati nonostante Feltrinelli ce li
proponesse. Lui sosteneva che la rivoluzione in Europa
doveva trovarsi degli alleati, non poteva svolgersi in solitudine
o alla Che Guevara... Quindi quello che lui chiamava
il campo socialista, l’Unione Sovietica con i vari
satelliti, era di fatto oggettivamente l’alleato fondamentale
che bisognava perseguire. Noi non eravamo d’accordo e
definivamo l’Unione Sovietica come social-imperialismo,
prendendo la terminologia di Mao, cioè come una forma
di capitalismo che probabilmente è quello che adesso funziona

alla perfezione in Cina.

Nel volantino che gestiva il rapimento di Ettore Amerio
nel dicembre 1973, per la prima volta lanciammo la parola
d’ordine che poteva sembrare un’eresia, ma per noi era
fondamentale: secondo noi il movimento operaio doveva
rompersi. In genere a sinistra si è sempre detto che bisogna
unire, noi dicevamo che dovevamo dividere i comunisti,

i rivoluzionari dai berlingueriani.


Sul resto, meglio saltare d'un fiato, anche se leggendo (lo devo fare, pur non volendolo) si trova anche questo refuso, chissà perché non corretto da nessuno [Guido Rossa non fu rapito, ma in quanti lo ricordano?]:

Non abbiamo mai pensato di attaccare fisicamente Berlinguer.
E neanche un dirigente del Partito comunista.
Infatti il sequestro dell’operaio Guido Rossa a Genova nel
1979 è stato per me il trauma più grosso, ancora più del sequestro Moro. 

Infine, da rilevare una contraddizione forte tra i dubbi (chi ha rapito Moro non era in grado di dirigere quella situazione e infatti fece casino), e il giudizio sui brigatisti di allora, in particolare Moretti, (che Franceschini afferma di aver conosciuto bene e di non stimare perché leggeva poco. E dunque? Tutto torna, no?)




domenica 30 marzo 2014

DENTRO QUESTE MURA

Ormai, tra Carabinieri Reali e parroci, arcivescovi e seminaristi, mi sto rifacendo una specie di verginità. Sono le vicende della vita professionale, di studioso, che nelle ultime settimane mi hanno portato a trascorrere due giorni dentro l'Ufficio Storico dei Carabinieri di Roma, esperienza davvero interessante e piena di sorprese, e pochi giorni fa a Palermo a sedermi accanto all'Arcivescovo di Monreale per commentare due scritti dell'Alto medioevo slavo, la Vita Methodii e un estratto dalla Cronaca degli anni passati, ambedue magistralmente tradotti in italiano dalla maestra di vita, soprattutto, Alda Giambelluca Kossova, a cui devo moltissimo.
E dentro le mura della Cattedrale, tra cattedra vescovile e destini incrociati (se potessi raccontare le storie legate a quella cattedra, ma come un archivista, devo mantenere riservatezza!), si sono per l'occasione rintrecciate vite che per anni sono state lontane, in esilio volontario. Grandi e umili studiosi, segnati certo da un "peccato originale" che per noi laici è impronunciabile, ma che dedicano la vita alle litterae come pochi altri. Insomma, sono stati in buona compagnia. Grazie a loro.
Un paio di cose. Hanno illuminato, dopo la cena, la Cattedrale di Monreale solo per Marconista. Un onore degno di un capo di governo, o giù di lì. Insomma, un Obama in 32imo. E siamo restati dentro un paio d'ore. Qualcuno mi sa spiegare perché tra gli angeli vicini al Cristo, uno tiene le ali in modo differente?

ps. Capisco che il caso Moro può aver suscitato qualche interesse. Ci si è lavorato, e tanto. Siamo in attesa di un'ultima notizia dalla procura, poi un bel post riassuntivo.






Palermo

Dallo studio dell'Arcivescovo












Fuga in Egitto (strepitosa, moderna)





Pavimento dell'anno mille