venerdì 3 febbraio 2017

ROMEO, GIULIA, CARLO E IL PRIMO MINISTRO. OVVERO: IL GIORNO SENZA REATO

Ho ancora addosso gli occhietti furbi di Francesco. 
Non di quel Francesco che lavora al giornale. Figurati se non siano intelligenti anche quelli. Mi riferisco a quel letterato, gran bel tipo, una figlia, mai vista, E se la rideva. Miserere trombetta, non lui, non Francesco. Un altro. Mi dico. Guardava, guardava il Francesco, e se la rideva proprio. Avrà pensato: questo è scimunito. Anche il Mario e la moglie, freschi da una lunga presentazione tra le palme di villaborghese reagirono con incredulità. Perché avevo confuso il galoppatoio, intendo via del galoppatoio, con capannelle. E mi ero perso l’evento. Assente assensio, volevo dire loro. Assente colto da un leggero vomito. Ma loro non conoscevano ancora la notizia del giorno, sicché in un certo qual modo mi sentivo meno scimunito di quanto andavano sostenendo. Loro. Loro no. Io sì. E la notizia era di quelle che ci inzuppi il biscotto, se sei del mestiere, per almeno sei mesi. Dunque: 
il primo ministro aveva dichiarato, stabilito direi, stabilito. Che in “occasione care cittadine e cari cittadini del quarto anniversario della storica sconfitta del comunismo italiano alle elezioni politiche del 2001, dichiaro con solennità il 12 maggio “Giorno senza Reato”
Minchia, mi dissi. Facci sentire meglio radiosferico dottor pinzette, facci sentire meglio. Perché questo dottore radiofonico le giustifica tutte le cose della casa liberale e quando uno nomina il primo ministro che diventa innominabile, e quindi innominato, tronca la conversazione (konversazia). È uno di quelli che sparano sicuro. E mi ha convinto. Il giorno senza reato mi è piaciuto. Lo hanno spiegato in televisione, mi sintonizzo dal mio palmare, cari mariuccio, franceschino e direttoreditorialometro. Io il palmare, che voi non sapete neanche cos’è, l’ho comprato. Io. E mi sintonizzo. Sdon. Anzi: SDON! (fa così il sintonizzatore). E il palmare raffica visi e parole sulla mia mano. Lo spiegano, il giorno senza reato, come quelle ventiquattrore durante le quali sono aboliti i codici. Quindi non si può essere processati, indagati o altro. Per reati, MA QUALI REATI!, commessi, MA QUALI COMMESSI, durante proprio quelle precise ventiquattroore 
(chepossaspaccarsintrelamiaanimadigessosenonèvero). 
Ma te lo figuri, giovani redactors, ve lo figurate, nodico, noDICO, NoDicO, VELOFIGURATECHE, quale goduria, quale incanto, ovvero, seduzione. (Seduzia)?  
Insomma, teoricamente, compagni, aaaaaapoi io sono per il primo ministro, intendiamoci, dicevo, compagni se posso esprimere il mio punto di vista, teoreticamente si possono rapinare tre quattro cinque banche e se riesci a strappare il denaro dalle tasche degli italiani in quelle, che so, ventiquattrore, buon per te. Ma come. Rapinare banche. Che mi viene in mente. Per me, mica per il movimento. Insomma, li tenevo, tak skazat’, per le palle a: mario, claudio e francesco. Il giorno senza reato dicevo e loro giù incredulità e io, che avevo il palmare, come dire, Lo sapevo che era vero. E me la godevo come un maiale. 
Vi rimetto a posto le cose. Ne abbiamo bisogno tutti. 
Le categorie romane, in prima istanza. Poi quelle leghiste. Poi quelle dei figli del puzzone. Poi quelle dei partigiani. Poi la resistenza girotondarola. Poi noi, ribelli. Vi rimetto in ordine le cose, dalla vigilia di quella sera al giorno senza reato. *** 
Ero ubriaco alla vigilia. Si parlava, con i compagni, di letteratura verità, del primo ministro, di organizzare una manifestazione di protesta contro questo governo, di quelle che devono però riuscire, di come evitare le legnate seriali da nemicointestino e, se possibile, non dico dargliele, ma fargli capire chegenova nonera mortainvano. Si parlò anche del Quirinale. 
“deve diventare un museo” sostenevo. 
“forse che il presidente francese vive a Versailles, quello austriaco a Schoenbrunn o quello russo al palazzo d’inverno? Allora perché il nostro deve starsene nell’ex residenza dei papi e dei re? Che diventi un museo e sia in tal modo restituito alla società civile”. 
Il discorso non faceva una piega, mi rendevo conto, anche perché gli altri tacevano. Poi, però, l’ebbrezza di quel vino ungherese, “bikovar” si chiamava, ebbe il sopravvento: 
“Mi dichiaro prigioniero politico” 
“Ma lo sentite, oh compagni, quale musicalità acquistano queste parole, se pronunciate con enfasi, scandendo ogni sillaba, quasi mordendosi il labbro superiore e trattenendo il respiro, d’un fiato: mi dichia roprigionieropolitico. Midich iaro progioniero politico”. 
“Notate lo stile terso? È una di quelle frasi, ce ne sono poche, a dire il vero, che non permette replica, di nessun tipo. Mi dichiaro prigioniero politico. Voi, potete pure schiattare. Non dico che sia una frase vittoriosa, ma evita una sconfitta repentina”. 
I compagni mi guardavano. 
“Un difetto? È un po’ moralista, ma siamo noi perfetti?” 
Cambiai discorso, perché non mi davano corda. 
“Come si chiama l’oggetto del mio amore?” 
“Ha mai un nome questa donna che osservo impallidire?” 
“L’amore materno compie il suo corso. Ossessivo, a volte. Da noi occidentali addirittura che supera tempo e barriere”. “Compagni: vi annuncio che: 
Cleopatra è Giulietta! Nessuno lo sa, nessuno lo saprà mai, e io mentirò tra due sassi turistici ai piedi del mantello della torre della notte che cade ma non cade e si dimentica dell’esistenza nostra e di quanto ci siamo voluti bene nel corso dei secoli! 
Cleopatra è Giulietta, ma nessuno lo saprà mai, e
io
io 
ci godo”. 

“Lo lasciamo qui”, disse un compagno

“No. Dobbiamo riprendercelo”, rispose un’eco

“Lo lasciamo qui”, disse il primo

“Io dico che dobbiamo riprendercelo”, riprese l’eco

“E io dico che è troppo ubriaco. Dobbiamo lasciarlo qui”. Si stavano prendendo gioco. Li incalzai: 
“Avete voi il coraggio della conoscenza? Avete voi il coraggio di dire: Io so? 
Io so. 
e poi
Negli ultimi giorni ho voluto spesso intrecciare le mie parole con il leggero battito del cuore di una cedranella” 
“Una cedranella gialla” 
“E una cedranella nera” 
“Papel, palel, polpot è un traditore” 
“Torniamo alla partenza. La pupa con chi si intreccerà? 
Si intreccerà di notte con le criniere dei cavalli e fabbricherà sogni che non esistono, sogni da cui il sonno ci sveglia e realtà, da cui nessun sogno ci può liberare, anima di piombo, che luce alla notte non sa fare. 
Per questo vi dico che Cleopatra essere Giulietta inreality” (;
“E ti senti il cuore flaccido...” 
“...come il nucleo cellulare di un’ameba. Anzi, guardatemi bene. Io sono un eliozoo” 
“Direi più lo scheletro silicio di un radiolario” 
“Una discomedusa” 
“Un gasteropode terrestro” 
“Hai un carattere grottesco” 
“Io ho un carattere egiziano
J’ave’ une cendiglia dans la sciue que me fa parle avec un’aksent franse. [Jeztz gebe ich sie weg]. Visto, parlo normale. E vi dico che io non sono più Romeo, ma l’altra parte di lui. Io sono Amleto e, se volete arrivare fino a Romeo, dovrete prima passare sul mio corpo. Cos’è in fondo un nome, se non la mediocre soluzione del ricco business del comunicare?”[:-)] 
“Romeo fa sul serio”@ 
“Romeo fa sul serio”.++  
“Possiamo allora riporre intatti gli strumenti, non è l’ora di suonare questa”°° 

***

!Questo era il tono di quella conversazione. Glissammo sui celerini, sulle mazzate dietro alla nuca, sulle pistolettate dentro gli occhi che ti sparano i carabinieri. Glissammo anche su Ustica, perché era troppo facile. E perché ero ubriaco e neanche gli altri avevano tempo da perdere. Provai, in un momento di cocente ritorno mentale, un accenno a quel letterato osannato sulle classifiche di vendita dei quotidiani. Perché ho sempre visto un traditore nello scrittore amico della società (e per stare su quelle pp. forse si deve essere molto amichevoli). Perché per definizione lo scrittore è un esule, uno che vede il morto nel matrimonio, il diavolo nel battesimo, la bellezza nella chiesa di Roma, la democrazia nel partito del primo ministro, idee chiare in questa nostra disgraziata sinistra. La verità, o menzogna, del letterato, non è né l’una né l’altra. Anzi. Maggiore è il grado di menzogna, maggiore sarà la sua alienazione, dunque la sua vena artistica. Insomma, dirò della veritàmenzogna! Farò della verità-menzogna! !Questa è la missione del letterato, se mai ne sia esistita una! 
Poi mi misi a dormire. 

La mattina dopo, fatidica, dovevo prepararmi per l’intervento con i tre di cui sopra sopra. Ma ero sempre ubriaco. Dunque mi sdraiai sul letto, bevvi un sorso molto lungo di birra e ripresi a sognare Cleopatra. O Giulia. Giulia. fu durante quel sogno che confusi capannelle con villa borghese e quando me ne accorsi ero già dentro a un concerto che non mi apparteneva. allora, per chiamare i tre, accesi il mio palmare e seppi del giorno senza reato. Così andarono le cose, 

Mi cominciarono a prendere sul serio quei tre lì. 
Il piano era già pronto. E lo sciolsi, proprio di fronte a loro, sotto a una porta che dà su via Vittorio Veneto. 
Si doveva organizzare una manifestazione di protesta contro il decreto. Per l’11 maggio. La manifestazione doveva essere ovviamente non autorizzata, nel senso che non avremmo richiesto il permesso. Lo scopo, evidente anche ai tre che se la ridacchiavano accaldati, era “fare saltare il giorno senza reati”. 

SECONTAIM. 

“Non noi abbiamo la verità, ma la verità ha noi”. 

Era una frase che dissi guardando negli occhi una bella cica comunista e fece il suo effetto durante la riunione preparativa della grande manifestazione di protesta. I tre di cui sopra avevano dato il loro spontaneo accordo e si erano infiltrati in mezzo movimento, su al nord. Io, siccome sono del sud, ero sceso nella sovversiva Calabria, da dove, sentendomi un po’ come un comandante, speravo di fare proprio una gran bella figura, specialmente agli occhi di quelle splendide sorelle che sono le compagne calabre. Correvano già diverse voci riguardo al 12 maggio. Si diceva, per esempio, che i mafiosi lo avrebbero trascorso a regolare questioni lasciate da troppo tempo irrisolte e si stavano attrezzando per gambizzazioni, ferimenti all’addome e uccisioni. Siccome la maggioranza di queste pistolettate se la sarebbero tirata fra di loro, alcune assemblee spontanee di normali cittadini avevano deliberato (si trattava di una richiesta, nulla più) che almeno i signori delimitassero da prima il territorio, in modo da non girare in quelle ore con i bambini, alcuni involontari rappresentanti dei quali, nel lontano occidente italiano, non una volta ci avevano già rimesso la vita. 

A Cosenza rividi la mia bella Giulia, una compagna della quale ero segretamente innamorato da più di un anno senza che mi venisse il coraggio per dichiararmi. L’unica possibilità. No, una bella possibilità era quella di farmi bello davanti a lei recitando la parte del capo. Salii di ruolo ed esposi il mio piano davanti alla Calabria rivoluzionaria: una parte, segreta, era questa: nado sozdat’ vse vozmozhnie predposyl’ky dlja vosstanija imenno odinocotogo kvetna, no kak tol’ka nastupit dvenadcotoe - rasschodimsja po domam. Quella pubblica, invece, prevedeva la nostra partenza per Roma tra il 5 e il 9 maggio, alla chetichella, l’ospitalità dei compagni della capitale (io avrei ospitato Giulia e qualche altra amica) e il ritrovo alla stazione termini, l’undici maggio mattina, alle sei, con quanti erano scesi dal nord. Quindi organizzare in fretta il corteo e partire verso Palazzo Chigi con lo scopo di oltrepassarne la soglia, simbolicamente. A quell’ora nessuno si aspetta un assalto del genere, quindi avremmo avuto ottime possibilità di arrivare molto vicino. Poi ce la saremmo giocata. 

***

I treni e le stazioni sono sorvegliati. Agenti scendono e salgono in continuazione dai treni. Vogliono sapere chi sei, chiedono i documenti, registrano, chiamano, vogliono sapere. Statodipoliziastatodipoliziastatodipolizia. Serve lamentarsi? No. 

***

Roma, 11 maggio 2004. Ore 19.34. Piazza di Spagna.  

Il ticchettio della folla si lascia respirare. La ragazza con i capelli rossi ha cominciato a prendersela con i celerini li provoca li prende a parolacce poi li spinge per lo scudo e questi reagiscono con le manganellate mi butto in mezzo perché si trova a pochi metri e loro si tirano sopra di noi e volano le telecamere come posso mi addento su uno scudo e spingo accanto alle mie mani volano manganellate e vorrei tanto tirarmi dentro una celerina ma non ho il tempo di pensare intanto arrivano i rinforzi e sono tanti noi pochi ma reagiamo ancora e picchiamo come ossessi ma loro pure e noi abbiamo la peggio poi loro si calmano finalmente. Con cautela indietreggiamo ma io sono avanguardia disarmata. Non ci seguono e mangiamo subito la foglia. Loro non possono avanzare. Per ora hanno la consegna di non superare le transenne. E noi gliele vogliamo buttare giù. Questi trecento caschi li ho contati non potrebbero contenerci sarebbe una bella battaglia perché i violenti dentro capiscono solo la violenza che viene da fuori. La tonica e la dominante di una società sono separate dal più grande intervallo esistente: quello del potere del questore. Sai celerino che posso leggere sul tuo volto quanto ti resta da vivere? È una tecnica della grande madrerussia. Uno ti guarda e zac, ti dice quanti anni ancora. Pare dipenda dagli emisferi. Quando diventano uguali stai all’erta perché vuol dire che ci siamo. Fisiognomica. Ma datemi un paio di molotov e regoliamo la faccenda. Non temo la lotta mi puoi pure dare tre manganellate dritte in fronte se ti riesce ma non provare ad arrestarmi. Comincio a diventare serio. non ne posso più di tenermi queste scarpe strette ne devo comperare delle nuove speriamo di non pagarle troppo e non ne posso più di questa pelata agitata che ho accanto e che cerca di provocare i celerini; il cielo è blu acciaio e tira un vento gelido che alza violente stoffe di polvere. Guarda quella che ha perduto la lente da un occhiale legato con uno spago dietro alla nuca. mi chiedo se giungerà un nuovo colpo a spezzare definitivamente la strada sotto le scarpe dei celerini che vanno alla ricerca dei discorsi rimasti sospesi sopra le cento rotondità del mondo pronti a rubarceli come noi da bambini si rubavano le zucche negli orti !animo giornalisti animo! Giulia? 
Movimento di gente. Si parte per una manifestazione spontanea. Lontano dall’abbraccio della celere. Andiamo a bloccare questa città. Intorno a me la prima fila dei diciottenni dell’anarchia e dei centri sociali. C’è un rumore assordante di chiavi e fischietti. Non so quanti siamo, in quanti ci seguono, ma non mi interessa, urliamo a tutte le macchine ferme che ci guardano sgomente. Suona Suona! E i guidatori suonano il clacson magari per paura e noi applaudiamo come tanti bimbi felici. La polizia è presa di sorpresa perché non si aspettava questo movimento. Ci comincia a seguire. Tutti gridano Resistenza. Resistenza. Gli anarchici saltano sopra i tetti delle macchine e mentre gli automobilisti li osservano impauriti la polizia comincia la carica. Ce li ho a un palmo. Sparo un calcio e indietreggio. Si urla. Rantola la folla. Altri pula sono raggruppati a venti metri da me. Qualcuno svuota sulle loro teste, dall’alto di una casa, due buste piene d’acqua. Si defilano. Qui è stretto, stretto. Ce li ho intorno, li sento. Spaccano una testa a manganellate dietro di me. Scappo sopra una macchina. Ce li ho di lato, troppi, scalcio come posso e tiro una stecca sopra un casco e la mano mi duole. Correre via. Strappiamo rami e ne facciamo bastoni e meniamo randellate nel vuoto in direzione dei celeri. Che faranno pure il proprio lavoro ma lo fanno male. È tutto il gruppo di anarchici e di blackblok. E me. Vado avanti a intervalli, come posso, cercando di sfiorarne uno ogni tanto. Hanno sparato un lacrimogeno. C’è fumo. Attacco da terga. Hanno anche l’idrante che ci becca pieno. Ora sono passati decisamente al contrattacco. Siamo presi nel mezzo e scappiamo in ogni direzione. Le fiamme indomabili sono quelle accese con i cuori degli uomini immersi nell’acqua. Sento il sangue caldo in bocca. Gli occhi mi si riempiono di lacrime di rabbia e cerco di menare sodo come posso ma questi sono davvero in tanti si sono riorganizzati. Sono come dei pendoli che colpiscono e tornano indietro. Mi devo costruire una fionda. E colpirli da lontano. Da domani. Allora sarò perfetto. Perché i celerini sono come la luna. Mostrano sempre la stessa faccia. La materia s’è fatta sorda e tenebrosa e nella rete nessuno raccoglie le lettere. I celerini hanno formato due file compatte, la prima a due metri dal cancello. Dentro al cortile le truppe motorizzate, l’autoblindo con l’idrante sul tetto, altri celerini intorno. Arriviamo a un metro dai primi. Il fragore è enorme, io non vedo quasi nulla per via delle fotoelettriche e del fumo, ma ormai c’è poco da vedere. Siamo messi male perché ci siamo lasciati chiudere tra questi che mi stanno sulla punta del naso e i celerini in coda. Ci massacreranno, anche se adesso sono in attesa. Io lo so, ma forse gli autonomi e gli anarchici, no. O non gli importa. Un paio di minuti di tensione che lievitano e sembrano venti. Qualche chiave agitata, i tamburi, lontani. noi, i nostri nasi e i manganelli della celere. Dietro, nuovamente un muro di folla. Il pensiero che sulle barricate muoiano sempre i poeti mi agita un poco. E non ho un piano per non restare schiacciato durante gli scontri. Riecco l’uomo col megafono. Parla. Dice che la televisione di Stato mente. Ci allarghiamo per far passare quelli con i tamburi, che si posizionano tra noi e la celere. Mi calmo un po’. Il rumore sale e davanti ai miei occhi passano altri tamburi, un sassofono, una tromba e qualche barile di vernice rivoltato. I celerini sono pronti a colpire le nostre parole d’oro. Li fisso. I loro volti muliebri ben nascosti dietro alle visiere hanno ormai acquistato le sembianze del brusio costante che ne ha evocato la venuta: amore, verginità e morte sono sul punto di confondersi dentro alla gabbia della più grande protesta popolare contro un governo di Stato nella storia della seconda repubblica italiana. 
Poi la lancetta lunga compie l’ultimo giro e scatta la mezzanotte. L’undici maggio lascia il posto al dodici e noi, come d’accordo, voltiamo le spalle ai celerini e ce ne torniamo alle nostre case, lasciandoli increduli. La giornata dell’undici maggio, scriveremo se sopravviveremo al dodici, è stata dedicata al ricordo di tutti i martiri italiani morti sulle strade e nelle piazze a partire dal 1859, uccisi dalle forze dell’ordine del nostro Stato mentre manifestavano per rivendicare un diritto, civile, economico o politico. Se la memoria non mi inganna, l’ultimo in una piazza vicino al mare. 

martedì 31 gennaio 2017

COL TERREMOTO SI DEVE CONVIVERE


Mi sembrano tra le parole più di buon senso lette in questi mesi


ALESSANDRO BIANCHI


Tra le innumerevoli domande su “come vorresti il 2017”, credo che quella che riguarda le persone colpite dai terremoti di agosto e ottobre dello scorso anno sia una tra le più difficili a cui rispondere, perché quello che un terremoto porta con sé è il repentino sconvolgimento di tutto ciò che attiene all’esistenza stessa delle persone.
Non è solo una vicenda di crolli e distruzioni di case, edifici, spazi pubblici, luoghi di lavoro, ambienti di vita. È che in un istante si vedono scomparire familiari, amici, conoscenti, concittadini; si tranciano i fili di storie singole e collettive; si perde ogni riferimento ad una comunità. Sicché ha ragione Papa Francesco a chiedere di “ricostruire non solo le case ma anche i cuori”.
Ma è l’operazione più difficile da fare ed è certamente al di fuori della portata di chi è in grado di dire qualcosa solo per quel che riguarda il soccorso alle persone, la ricostruzione del patrimonio fisico e la difesa preventiva del territorio.

È dunque su questi tre aspetti che provo a dire come vorrei che fosse il 2017.
Vorrei, anzitutto, che la macchina dei soccorsi – che sta già dando buona prova di sé – continui ad essere migliorata nella dotazione di mezzi, nel numero e nell’addestramento delle persone e nella disponibilità di risorse economiche adeguate. Se pensiamo a quanto accaduto in occasione di eventi precedenti, quando agli effetti disastrosi del sisma si sono sommati ritardi, imperizia, carenza di uomini e mezzi, i miglioramenti sono stati notevoli. Ma siccome parliamo, sopra ogni altra cosa, della vita delle persone, quello che si fa non è mai abbastanza.
Quindi “vorrei” che la Protezione Civile e tutte gli altri organismi preposti diventassero sempre più pronti ed efficienti.
Vorrei, poi, che la questione della ricostruzione venisse affrontata in modo serio sia sul piano tecnico-scientifico che su quello politico-amministrativo, cominciando dall’evitare banalità del tipo “ricostruiremo tutto come era e dove era”.

Non solo non sarà possibile ricostruire tutto com’era e dov’era, ma in moltissimi casi non sarà corretto farlo: perché si è costruito male all’inizio; perché si è modificato-aggiunto-trasformato in modo tecnicamente sbagliato e in spregio alle regole; perché si è costruito dove non si doveva; perché nel tempo sono entrate in vigore nuove norme che devono essere applicate (sulla sicurezza, sull’isolamento termico, sull’efficienza energetica).

Per tutte queste ragioni è un cattivo messaggio quello di far credere che, ad esempio, Amatrice tornerà uguale a prima del terremoto.
Ma bisognerà anche stare attenti alle farneticazioni degli apprendisti stregoni, quelli che vogliono costruire (vedi L’Aquila) delle new-towns, termine di cui ignorano il significato oltre a non conoscerne le storiche realizzazioni, e anche a quelli che pensano che la soluzione migliore sia il trasferimento altrove, che è come dire accettare il taglio delle radici.
Poi, qualunque cosa si faccia, bisognerà impedire che la ricostruzione diventi un campo libero per la corruzione e l’affarismo. Non c’è reato più disgustoso di quello commesso sulle disgrazie altrui e, quindi, va represso nel modo più deciso laddove si annidano corrotti, corruttori e affaristi: nelle amministrazioni centrali e locali, nelle grandi imprese e nei piccoli sub-appaltatori, tra le archistar e tra i tecnici di paese.
Dunque quello che “vorrei” è che ci si dedicasse alla rigenerazione, che vuol dire sì ricostruzione del patrimonio fisico, ma vuol dire anche ricomposizione del tessuto sociale, e vuol dire ancora virtuosità dei comportamenti.

Vorrei, infine, che il terremoto venisse finalmente affrontato per quello che è: un fenomeno inevitabile e non prevedibile, che continuerà a ripetersi ovunque nel nostro Paese perché è un fenomeno endemico.

Anche considerando solamente gli ultimi cinquanta anni, abbiamo avuto nove terremoti distruttivi – nel Belice (1968), nel Friuli (1976), in Irpinia (1980), in Umbria (1997), nel Molise (2002), a L’Aquila (2009), in Emilia (2012), ad Amatrice e a Norcia (2016) – che hanno causato quasi 5000 vittime, un numero imprecisato di feriti e hanno comportato una spesa per le ricostruzioni stimabile in circa 130 miliardi di euro.
Di fronte a questo quadro drammatico, quello che ci dobbiamo chiedere è se possiamo continuare a porci nei confronti dei terremoti solo in termini di soccorsi e ricostruzioni. Detto in altri termini ci dobbiamo rassegnare a vedere crolli, distruzioni e vittime ed intervenire solamente dopo per proteggere chi è stato colpito e per tentare di ricostruire con costi enormi quello che i terremoti hanno distrutto?
La risposta è no; non dobbiamo affatto rassegnarci perché sappiamo esattamente cosa fare: dobbiamo mettere in sicurezza il territorio contro gli effetti dei terremoti, quindi prima che questi si verifichino. Dobbiamo fare in modo che le case, le scuole, i presidi sanitari, i municipi, le chiese, le aziende, il patrimonio artistico siano in grado di resistere ai terremoti.

È possibile? Le conoscenze scientifiche e tecniche, che negli anni più recenti si sono notevolmente affinate, ci dicono di sì; ci dicono che sappiamo cosa fare e che abbiamo gli strumenti tecnici per farlo. Lo sanno i sismologi, i geologi, gli ingegneri, gli architetti, gli urbanisti, gli storici, gli economisti, gli imprenditori.
Allora cosa manca? Le risorse economiche, come spesso si sente ripetere? No perché è facile dimostrare che quanto si è speso e si continuerà a spendere per “ripristinare” le distruzioni è di gran lunga superiore a quanto si spenderebbe per “impedire” le distruzioni.

In realtà quello che manca è la volontà politica di intraprendere la strada della prevenzione, probabilmente perché nelle sedi decisionali – a partire dal Parlamento e dal Governo – manca la capacità di comprendere il nocciolo della “questione terremoto” e di ragionare su come affrontarla nei tempi lunghi.
Quello che occorre è un “Piano di rigenerazione preventiva”, vale a dire un piano che abbracci l’intero territorio nazionale, che stabilisca le azioni da intraprendere, che fissi un orizzonte temporale e le priorità, che costruisca le procedure adeguate, che reperisca le risorse necessarie.
Per elaborare e realizzare un simile Piano occorrerà mettere al lavoro un esercito di studiosi, tecnici, amministratori e imprenditori, serviranno 100 miliardi o forse più e ci vorranno 20-25 anni per vederne l’attuazione. Ma è quello che si deve fare e che “vorrei” fosse fatto a partire dal 2017.
*Professore ordinario di urbanistica, Rettore dell’Università Telematica Pegaso, già Ministro dei Trasporti nel secondo governo Prodi