Mi sembrano tra le parole più di buon senso lette in questi mesi
ALESSANDRO BIANCHI
Tra le innumerevoli domande su “come vorresti il 2017”, credo che quella che riguarda le persone colpite dai terremoti di agosto e ottobre dello scorso anno sia una tra le più difficili a cui rispondere, perché quello che un terremoto porta con sé è il repentino sconvolgimento di tutto ciò che attiene all’esistenza stessa delle persone.
Non è solo una vicenda di crolli e distruzioni di case, edifici, spazi pubblici, luoghi di lavoro, ambienti di vita. È che in un istante si vedono scomparire familiari, amici, conoscenti, concittadini; si tranciano i fili di storie singole e collettive; si perde ogni riferimento ad una comunità. Sicché ha ragione Papa Francesco a chiedere di “ricostruire non solo le case ma anche i cuori”.
Ma è l’operazione più difficile da fare ed è certamente al di fuori della portata di chi è in grado di dire qualcosa solo per quel che riguarda il soccorso alle persone, la ricostruzione del patrimonio fisico e la difesa preventiva del territorio.
È dunque su questi tre aspetti che provo a dire come vorrei che fosse il 2017.
Vorrei, anzitutto, che la macchina dei soccorsi – che sta già dando buona prova di sé – continui ad essere migliorata nella dotazione di mezzi, nel numero e nell’addestramento delle persone e nella disponibilità di risorse economiche adeguate. Se pensiamo a quanto accaduto in occasione di eventi precedenti, quando agli effetti disastrosi del sisma si sono sommati ritardi, imperizia, carenza di uomini e mezzi, i miglioramenti sono stati notevoli. Ma siccome parliamo, sopra ogni altra cosa, della vita delle persone, quello che si fa non è mai abbastanza.
Quindi “vorrei” che la Protezione Civile e tutte gli altri organismi preposti diventassero sempre più pronti ed efficienti.
Vorrei, poi, che la questione della ricostruzione venisse affrontata in modo serio sia sul piano tecnico-scientifico che su quello politico-amministrativo, cominciando dall’evitare banalità del tipo “ricostruiremo tutto come era e dove era”.
Non solo non sarà possibile ricostruire tutto com’era e dov’era, ma in moltissimi casi non sarà corretto farlo: perché si è costruito male all’inizio; perché si è modificato-aggiunto-trasformato in modo tecnicamente sbagliato e in spregio alle regole; perché si è costruito dove non si doveva; perché nel tempo sono entrate in vigore nuove norme che devono essere applicate (sulla sicurezza, sull’isolamento termico, sull’efficienza energetica).
Per tutte queste ragioni è un cattivo messaggio quello di far credere che, ad esempio, Amatrice tornerà uguale a prima del terremoto.
Ma bisognerà anche stare attenti alle farneticazioni degli apprendisti stregoni, quelli che vogliono costruire (vedi L’Aquila) delle new-towns, termine di cui ignorano il significato oltre a non conoscerne le storiche realizzazioni, e anche a quelli che pensano che la soluzione migliore sia il trasferimento altrove, che è come dire accettare il taglio delle radici.
Poi, qualunque cosa si faccia, bisognerà impedire che la ricostruzione diventi un campo libero per la corruzione e l’affarismo. Non c’è reato più disgustoso di quello commesso sulle disgrazie altrui e, quindi, va represso nel modo più deciso laddove si annidano corrotti, corruttori e affaristi: nelle amministrazioni centrali e locali, nelle grandi imprese e nei piccoli sub-appaltatori, tra le archistar e tra i tecnici di paese.
Dunque quello che “vorrei” è che ci si dedicasse alla rigenerazione, che vuol dire sì ricostruzione del patrimonio fisico, ma vuol dire anche ricomposizione del tessuto sociale, e vuol dire ancora virtuosità dei comportamenti.
Vorrei, infine, che il terremoto venisse finalmente affrontato per quello che è: un fenomeno inevitabile e non prevedibile, che continuerà a ripetersi ovunque nel nostro Paese perché è un fenomeno endemico.
Anche considerando solamente gli ultimi cinquanta anni, abbiamo avuto nove terremoti distruttivi – nel Belice (1968), nel Friuli (1976), in Irpinia (1980), in Umbria (1997), nel Molise (2002), a L’Aquila (2009), in Emilia (2012), ad Amatrice e a Norcia (2016) – che hanno causato quasi 5000 vittime, un numero imprecisato di feriti e hanno comportato una spesa per le ricostruzioni stimabile in circa 130 miliardi di euro.
Di fronte a questo quadro drammatico, quello che ci dobbiamo chiedere è se possiamo continuare a porci nei confronti dei terremoti solo in termini di soccorsi e ricostruzioni. Detto in altri termini ci dobbiamo rassegnare a vedere crolli, distruzioni e vittime ed intervenire solamente dopo per proteggere chi è stato colpito e per tentare di ricostruire con costi enormi quello che i terremoti hanno distrutto?
La risposta è no; non dobbiamo affatto rassegnarci perché sappiamo esattamente cosa fare: dobbiamo mettere in sicurezza il territorio contro gli effetti dei terremoti, quindi prima che questi si verifichino. Dobbiamo fare in modo che le case, le scuole, i presidi sanitari, i municipi, le chiese, le aziende, il patrimonio artistico siano in grado di resistere ai terremoti.
È possibile? Le conoscenze scientifiche e tecniche, che negli anni più recenti si sono notevolmente affinate, ci dicono di sì; ci dicono che sappiamo cosa fare e che abbiamo gli strumenti tecnici per farlo. Lo sanno i sismologi, i geologi, gli ingegneri, gli architetti, gli urbanisti, gli storici, gli economisti, gli imprenditori.
Allora cosa manca? Le risorse economiche, come spesso si sente ripetere? No perché è facile dimostrare che quanto si è speso e si continuerà a spendere per “ripristinare” le distruzioni è di gran lunga superiore a quanto si spenderebbe per “impedire” le distruzioni.
In realtà quello che manca è la volontà politica di intraprendere la strada della prevenzione, probabilmente perché nelle sedi decisionali – a partire dal Parlamento e dal Governo – manca la capacità di comprendere il nocciolo della “questione terremoto” e di ragionare su come affrontarla nei tempi lunghi.
Quello che occorre è un “Piano di rigenerazione preventiva”, vale a dire un piano che abbracci l’intero territorio nazionale, che stabilisca le azioni da intraprendere, che fissi un orizzonte temporale e le priorità, che costruisca le procedure adeguate, che reperisca le risorse necessarie.
Per elaborare e realizzare un simile Piano occorrerà mettere al lavoro un esercito di studiosi, tecnici, amministratori e imprenditori, serviranno 100 miliardi o forse più e ci vorranno 20-25 anni per vederne l’attuazione. Ma è quello che si deve fare e che “vorrei” fosse fatto a partire dal 2017.
Non è solo una vicenda di crolli e distruzioni di case, edifici, spazi pubblici, luoghi di lavoro, ambienti di vita. È che in un istante si vedono scomparire familiari, amici, conoscenti, concittadini; si tranciano i fili di storie singole e collettive; si perde ogni riferimento ad una comunità. Sicché ha ragione Papa Francesco a chiedere di “ricostruire non solo le case ma anche i cuori”.
Ma è l’operazione più difficile da fare ed è certamente al di fuori della portata di chi è in grado di dire qualcosa solo per quel che riguarda il soccorso alle persone, la ricostruzione del patrimonio fisico e la difesa preventiva del territorio.
È dunque su questi tre aspetti che provo a dire come vorrei che fosse il 2017.
Vorrei, anzitutto, che la macchina dei soccorsi – che sta già dando buona prova di sé – continui ad essere migliorata nella dotazione di mezzi, nel numero e nell’addestramento delle persone e nella disponibilità di risorse economiche adeguate. Se pensiamo a quanto accaduto in occasione di eventi precedenti, quando agli effetti disastrosi del sisma si sono sommati ritardi, imperizia, carenza di uomini e mezzi, i miglioramenti sono stati notevoli. Ma siccome parliamo, sopra ogni altra cosa, della vita delle persone, quello che si fa non è mai abbastanza.
Quindi “vorrei” che la Protezione Civile e tutte gli altri organismi preposti diventassero sempre più pronti ed efficienti.
Vorrei, poi, che la questione della ricostruzione venisse affrontata in modo serio sia sul piano tecnico-scientifico che su quello politico-amministrativo, cominciando dall’evitare banalità del tipo “ricostruiremo tutto come era e dove era”.
Non solo non sarà possibile ricostruire tutto com’era e dov’era, ma in moltissimi casi non sarà corretto farlo: perché si è costruito male all’inizio; perché si è modificato-aggiunto-trasformato in modo tecnicamente sbagliato e in spregio alle regole; perché si è costruito dove non si doveva; perché nel tempo sono entrate in vigore nuove norme che devono essere applicate (sulla sicurezza, sull’isolamento termico, sull’efficienza energetica).
Per tutte queste ragioni è un cattivo messaggio quello di far credere che, ad esempio, Amatrice tornerà uguale a prima del terremoto.
Ma bisognerà anche stare attenti alle farneticazioni degli apprendisti stregoni, quelli che vogliono costruire (vedi L’Aquila) delle new-towns, termine di cui ignorano il significato oltre a non conoscerne le storiche realizzazioni, e anche a quelli che pensano che la soluzione migliore sia il trasferimento altrove, che è come dire accettare il taglio delle radici.
Poi, qualunque cosa si faccia, bisognerà impedire che la ricostruzione diventi un campo libero per la corruzione e l’affarismo. Non c’è reato più disgustoso di quello commesso sulle disgrazie altrui e, quindi, va represso nel modo più deciso laddove si annidano corrotti, corruttori e affaristi: nelle amministrazioni centrali e locali, nelle grandi imprese e nei piccoli sub-appaltatori, tra le archistar e tra i tecnici di paese.
Dunque quello che “vorrei” è che ci si dedicasse alla rigenerazione, che vuol dire sì ricostruzione del patrimonio fisico, ma vuol dire anche ricomposizione del tessuto sociale, e vuol dire ancora virtuosità dei comportamenti.
Vorrei, infine, che il terremoto venisse finalmente affrontato per quello che è: un fenomeno inevitabile e non prevedibile, che continuerà a ripetersi ovunque nel nostro Paese perché è un fenomeno endemico.
Anche considerando solamente gli ultimi cinquanta anni, abbiamo avuto nove terremoti distruttivi – nel Belice (1968), nel Friuli (1976), in Irpinia (1980), in Umbria (1997), nel Molise (2002), a L’Aquila (2009), in Emilia (2012), ad Amatrice e a Norcia (2016) – che hanno causato quasi 5000 vittime, un numero imprecisato di feriti e hanno comportato una spesa per le ricostruzioni stimabile in circa 130 miliardi di euro.
Di fronte a questo quadro drammatico, quello che ci dobbiamo chiedere è se possiamo continuare a porci nei confronti dei terremoti solo in termini di soccorsi e ricostruzioni. Detto in altri termini ci dobbiamo rassegnare a vedere crolli, distruzioni e vittime ed intervenire solamente dopo per proteggere chi è stato colpito e per tentare di ricostruire con costi enormi quello che i terremoti hanno distrutto?
La risposta è no; non dobbiamo affatto rassegnarci perché sappiamo esattamente cosa fare: dobbiamo mettere in sicurezza il territorio contro gli effetti dei terremoti, quindi prima che questi si verifichino. Dobbiamo fare in modo che le case, le scuole, i presidi sanitari, i municipi, le chiese, le aziende, il patrimonio artistico siano in grado di resistere ai terremoti.
È possibile? Le conoscenze scientifiche e tecniche, che negli anni più recenti si sono notevolmente affinate, ci dicono di sì; ci dicono che sappiamo cosa fare e che abbiamo gli strumenti tecnici per farlo. Lo sanno i sismologi, i geologi, gli ingegneri, gli architetti, gli urbanisti, gli storici, gli economisti, gli imprenditori.
Allora cosa manca? Le risorse economiche, come spesso si sente ripetere? No perché è facile dimostrare che quanto si è speso e si continuerà a spendere per “ripristinare” le distruzioni è di gran lunga superiore a quanto si spenderebbe per “impedire” le distruzioni.
In realtà quello che manca è la volontà politica di intraprendere la strada della prevenzione, probabilmente perché nelle sedi decisionali – a partire dal Parlamento e dal Governo – manca la capacità di comprendere il nocciolo della “questione terremoto” e di ragionare su come affrontarla nei tempi lunghi.
Quello che occorre è un “Piano di rigenerazione preventiva”, vale a dire un piano che abbracci l’intero territorio nazionale, che stabilisca le azioni da intraprendere, che fissi un orizzonte temporale e le priorità, che costruisca le procedure adeguate, che reperisca le risorse necessarie.
Per elaborare e realizzare un simile Piano occorrerà mettere al lavoro un esercito di studiosi, tecnici, amministratori e imprenditori, serviranno 100 miliardi o forse più e ci vorranno 20-25 anni per vederne l’attuazione. Ma è quello che si deve fare e che “vorrei” fosse fatto a partire dal 2017.
*Professore ordinario di urbanistica, Rettore dell’Università Telematica Pegaso, già Ministro dei Trasporti nel secondo governo Prodi
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