Villa Abamelek, una delle più
belle ville della capitale, si trova ai piedi del Gianicolo, in via Aurelia
Antica, vicino a Porta San Pancrazio ed è l’attuale residenza dell’ambasciatore
russo in Italia, dopo aver ospitato gli ambasciatori sovietici. Costruita tra
la fine del Seicento e l’inizio del secolo successivo, fu decorata con
affreschi di Giuseppe Passeri e ospitò una pinacoteca di artisti dell’Accademia
di San Luca. Nel corso dei decenni cambiò spesso proprietario, finché nel 1907
non fu acquistata dal principe russo Semen Abamelek Lazarev, che la rinnovò e
le diede il nome attuale. Arricchita di sculture e nuove tele, arazzi e
mosaici, la villa divenne uno dei salotti culturali più noti di Roma, grazie
anche all’allestimento di spettacoli teatrali e concerti per gli ospiti. Il
principe Abamelek fu l’ultimo proprietario della villa, poi questa passò ai
sovietici. Come poté accadere che un nobile lasciasse una sua proprietà ai
bolscevichi? Su Wikipedia si legge che il principe morì nel 1916 e che alla morte
della consorte “nel 1936 l’edificio diviene proprietà dell’Unione delle
Repubbliche socialiste sovietiche che nel 1946 ne ha fatto la sede diplomatica
dei rappresentanti sovietici, e russi dal 1991”. Divenne proprietà dell’Urss,
ma come? Wikipedia non lo dice, ma la storia è molto complessa e interessante e
il passaggio della villa dalla famiglia Abamelek al Cremlino si intrecciò
addirittura con i destini dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale.
Quando nel 1916 il principe Abamelek morì,
infatti, egli lasciò un testamento che destinava la villa all’Accademia
Imperiale Russa di Belle Arti, ma solo dopo la morte di sua moglie, che ne
poteva disporre in usufrutto vitalizio. Com'è noto, per la storia russa tra il
1916 e il 1917 passa un’epoca intera e dopo la presa del potere da parte dei
bolscevichi la donna, Marija Pavlovna Demidova, impugnò il testamento del
marito perché, sostenne, la persona giuridica destinataria della proprietà non
esisteva più. La Demidova vinse in prima e seconda istanza contro le pretese di
Mosca (1929 e 1936) e la questione sembrò risolta. Le avventure fasciste
durante la seconda guerra mondiale e la conseguente caduta di Mussolini
rimisero molte cose in discussione, tra cui anche questo contenzioso. Dopo la
liberazione di Roma i sovietici, che in quel momento esercitavano un influsso
non secondario presso il governo italiano, cercarono di far valere il loro
presunto antico diritto, chiedendo alla Corte di Cassazione l’annullamento
delle sentenze precedenti. Vedendosi respinta l’istanza per la scadenza dei
termini, l’ambasciatore sovietico a Roma, Michail Kostylev, fece sapere
all’allora ministro degli Esteri Alcide De Gasperi che Mosca teneva
particolarmente alla villa e che fino alla conclusione positiva della questione
il rappresentante diplomatico italiano in Russia, Quaroni, non avrebbe potuto
occupare l’antica sede dell’ambasciata italiana, in via Vesnina. Mentre il Pci
attraverso Togliatti, Eugenio Reale e Celeste Negarville cercavano di operare
pressioni affinché il governo risolvesse la cosa ope legis, De Gasperi sperava di dilazionare la questione al
fine di ottenere il permesso per rientrare in via Vesnina, per poi lasciar
cadere il problema di villa Abamelek. Il contenzioso, infatti, presentava
troppi lati oscuri perché da un punto di vista giuridico la Demidova aveva
dalla sua le sentenze pregresse e anche la non secondaria osservazione che,
comunque, prima di cedere l’immobile ai sovietici secondo le disposizioni del
marito, essa sarebbe dovuta almeno morire! È quanto riferì De Gasperi a
Kostylev nell’estate del 1945, ma il russo non sembrò dare importanza al
dettaglio. Né accolse la proposta del segretario generale del ministero degli
Esteri italiano, Prunas, che offrì a Kostylev uno scambio “alla pari” con villa
Madama, altrettanto prestigiosa come villa Abamelek. Giunti a un punto morto,
nel 1946 il governo guidato da De Gasperi decise di agire con decisione per
accontentare Mosca. Il ministero delle Finanze valutò la villa 40 milioni di
lire e ne offrì 5 alla vedova per la sua rinuncia definitiva ad ogni pretesa
sull'immobile, ma la Demidova rifiutò. Allora il governo emanò un decreto di
urgenza di requisizione della villa che, come dichiarò De Gasperi a Kostylev
pochi giorni prima della sua pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, avrebbe
permesso alla vedova di fare ricorso in Cassazione solo sul prezzo che il
governo aveva deciso di pagarle, ossia un vitalizio di un milione di lire
annue, ma non sull'esproprio. Il decreto del 20 maggio 1946 intitolato Trasferimento
allo Stato per fini di pubblica utilità, della villa Abmelek Lazareff ed
annessi, venne pubblicato il 20 agosto 1946
a firma del luogotenente del Regno Umberto, di De Gasperi, Togliatti e del
ministro del Tesoro Epicarmo Corbino; vi si legge che “vista legge su
espropriazioni del 25 giugno del 1865 per fini di pubblica utilità, su proposta
del presidente del consiglio, primo ministro e ministro segretario di stato per
gli affari esteri di concerto con i ministri di Grazia e Giustizia e del
Tesoro, la villa di proprietà della principessa Maria Pavlovna Demidov(a) di
San Donato, a Roma in via Aurelia Antica 8, con tutti gli annessi risultanti
dalla planimetria e dai dati risultati dalle note analitiche annesse al decreto
è trasferita allo Stato nello stato di fatto e di diritto con ogni accessione e
pertinenza in libera proprietà e disponibilità”. Un mese più tardi, quindi, il
governo trasferì ai sovietici la proprietà dell’immobile.
Perché il
governo italiano, e in particolare quello guidato da De Gasperi, profuse tutto
questo impegno e forzò il buon senso e la legge per accontentare le pretese
sovietiche su villa Abamelek? Il fatto è che allora l’Italia aveva bisogno dei
sovietici perché sperava in un loro appoggio durante le trattative per il
trattato di pace, che sarebbe stato firmato a Parigi nel febbraio del 1947,
affinché le clausole dello stesso fossero più miti di quanto si poteva ritenere
nel 1943 e che venisse in qualche modo riconosciuto l’impegno italiano durante
i due anni di cobelligeranza contro i tedeschi. I sovietici, che per primi
avevano teso la mano a Badoglio riconoscendolo ufficialmente nel marzo del
1944, sembravano i più propensi ad aiutare Roma nelle sue richieste
riguardanti, per esempio, Trieste, l’ingresso all’Onu o la questione delle
riparazioni. Paradossalmente, l’inizio della guerra fredda sembrava favorire
questo disegno in quanto poteva essere interesse dei sovietici mostrarsi più
duttili e magnanimi verso un paese sconfitto dei loro alleati angloamericani,
sperando in tal modo di svolgere un’opera di propaganda nella penisola e
sostenere i partiti di sinistri. Questo interesse durò fino al maggio 1947, data dopo la quale Roma si schierò sempre più chiaramente con gli
alleati occidentali, allontanandosi definitivamente da Mosca e dalle sue
richieste