sabato 20 luglio 2013

FANFARONI SENZA FILI

C'è poco da dire. In Italia il non esiste rete mobile libera e aperta come in quasi tutto il mondo, dalla Grecia a Cipro, dalla Turchia alla RUSSIA putiniana, dall'Austria all'Australia.
Siamo sempre nell'emergenza delle leggi antiterrorismo. Ma senza il terrorismo. Infatti, da noi, non c'è stato attentato terroristico dalle stragi mafiose del 1992. Sono passati 21 anni. Ma l'emergenza è rimasta.
Sono una banda di fanfaroni. Cialtroni la ritengo una espressione superata.



venerdì 19 luglio 2013

EUROCOMUNISMO


L’aeroporto di Nicosia, la capitale di Cipro, non funziona dal 1974, anno dell’invasione greca e poi turca – operazione Attila – che ha diviso il paese. Atterriamo quindi nel nuovo e grazioso aeroporto di Larnaca per poi proseguire in autobus. L’autostrada è gratuita e con guida a sinistra. Gira la testa all’inizio, poi ci si abitua. È che non te l’aspetti qui. Entriamo nella capitale. La crisi c’è ma si nasconde. L’allarme dell’inizio di quest’anno è rientrato e la vita scorre con la normalità innaturale di un paese diviso da una “green line” controllata da forze Onu. Molti i negozi chiusi, poche le scritte anti-trojka. I prezzi sono alti più di quelli di Atene, con cui mi viene da fare il paragone in modo naturale. Ma lo sono anche gli stipendi degli statali che, nonostante i tagli, si mantengono ben oltre i mille euro. Si, o li mantengono? L’isola è strategica. Quando gli inglesi finalmente le concessero la libertà, nel 1960, ottennero in cambio due basi navali e un sistema speciale di scambi commerciali. Forse Cipro non è un porto franco, come ha affermato il governo in febbraio, ma “non ci sono limiti al trasporto di tabacco e liquori nel Regno Unito” e “confronta i prezzi: EU e Cipro”, con tagli di più del 50% su prodotti dei monopoli. Questo si legge in aeroporto. Nicosia non toglie il respiro per la sua bellezza. Si è candidata a capitale europea della cultura per il 2017 e la piazza principale è sprofondata dentro un cantiere di cui non si vede il progetto da nessun lato: sabbia e mezzi pesanti. A poche centinaia di metri, un campo di calcio enorme in pozzolana. Conto i passi. Ci si può giocare tranquillamente quindici contro quindici. Farebbe la gioia di molti amici che si accapigliano la domenica mattina in una villa romana per un posto (chi prima arriva gioca), ma qui che ci faranno mai? Poi con questo caldo. Nicosia si chiama Lefkosia in greco e Lefkosa in turco. Perché esiste la metà turca, che raggiungi attraversando il check-point centrale, alla fine dei negozi griffati. Molti dei quali, però, non hanno più il servizio per il pagamento bancomat o con carta di credito. Sono le restrizioni del dopo-crisi. La Banca di Cipro vive e lotta. Bene. Di importazione, direttamente dalla Grecia, vedo solo bandiere: ovunque sventolano accanto a quella cipriota, europea e, in alcuni angoli, delle Nazioni Unite. Che qui non mandano in estasi la popolazione, che ne ha un giudizio negativo. Vedono bighellonare i componenti della missione di Peace keeping tra caffé e sesso a pagamento. Da un parte capiscono i giovani soldati stranieri che si ritrovano a mantenere la pace dove in effetti non c’è guerra. Dall’altra, però, il ricordo dell’invasione e di qualche incidente, come l’uccisione di Solomos Solomou da parte di una guardia di frontiera turca, avvenuta il 14 agosto 1996 mentre tentava di ammainare la bandiera della Repubblica turca di Cipro del Nord, non riescono (e come potrebbero) ad andare in pensione. Solomos stava partecipando a una marcia di protesta contro l’uccisione, avvenuta tre giorni prima, del cugino Tassos Isaac, finito sotto i manganelli turchi mentre tentava di passare illegalmente la green line. Poi, improvvisamente, ha tentato di salire sul pennone di frontiera, ed è stato abbattuto. Il video si trova ancora su youtube. Due morti dal 1974. Se ci si pensa, cinicamente, in fondo non sono tanti, vista la tensione. Ben maggiori – mi fanno notare gli stessi greco-ciprioti – sono state i regolamenti di conti nella parte greca da parte della malavita locale, che controlla una parte dei traffici illegali del Mediterraneo. Di russi, dato che siamo in tema, non se ne vedono. Secondo l’ultimo censimento del 2011, i residenti provenienti da Mosca erano 10.520 su una popolazione ufficiale totale di 838,897 (la stimata è di 1,117,000 includendo la parte turca). Potrei cogliere una parola russa in qualsiasi momento mentre incrocio una coppia o un gruppo di gente, ma niente. Staranno tutti a Pafos, al mare. Hanno perso un po’ dei loro depositi ma, in fondo, ci guadagnano lo stesso a tenere i soldi qui, lontano dai controlli dell’Agenzia delle entrate di Mosca. E con loro inglesi, francesi, tedeschi e, soprattutto a partire dagli ultimi anni, insospettabili uomini d’affari cinesi, che stanno comprando proprietà immobiliari nelle zone più esclusive. Non più i negozi a “un euro tutto” ai quali ci hanno abituati, ma ville con piscina e alberghi. Pronti, forse, a organizzare la base di partenza per tentare il grande passo verso la conquista dei mercati europei. Nel mio girovagare per l’isola trovo solo un negozio con una scritta in ebraico, segno che dalla vicina Israele c’è un minimo di turismo: si trova nel centro di Kirenia (Girna), parte occidentale di competenza turca. Un bel paradosso. Decifro le lettere ma non capisco. E passo oltre. Cipro ha una strana storia politica, oltre che sociale, militare e finanziaria. Per anni il paese è stato guidato da un raggruppamento che è parte dell’archeologia storica, il Partito progressista dei lavoratori (KKK), un partito comunista che basa la sua ideologia sulla formula dell’eurocomunismo. Sono morti tutti i leader comunisti degli anni Settanta, è caduto il Muro di Berlino, ma il KKK ha perso le elezioni solo nel 2011, lasciando il governo al Raggruppamento Democratico di Nikos Anastasiades, che si è trovato a gestire una crisi economica che ha, evidentemente, radici ben più profonde. Scuoto la testa e controllo si wikipedia. Tutto vero. Il pregio principale dei ciprioti, forse, è che non ti raccontano balle. (continua)



giovedì 18 luglio 2013

ANTONIO GRAMSCI E FASSINO


Quando Antonio Gramsci morì il 27 aprile 1937 la sua famiglia di Mosca, la moglie Julija e i figli Delio e Giuliano, stavano per affrontare assieme a tutta la popolazione sovietica uno dei periodi più bui del regime staliniano, passato alla storia come “il Grande Terrore”. Si trattò di un biennio drammatico, nel corso del quale l’epurazione cominciata nel partito comunista si estese a tutta la società, colpendo direttamente intere categorie di cittadini e indirettamente le loro famiglie. Circa 700.000 persone vennero fucilate e tra esse anche 108 italiani giunti in Urss negli anni precedenti come rifugiati politici. Per commemorarne la memoria, qualche anno fa è stato inaugurato nel cimitero di Levashovo, nei pressi di San Pietroburgo, un monumento alla presenza di Piero Fassino, allora segretario dei Democratici di sinistra. Nell’occasione è stato ricordato il nome di Antonio Gramsci, purtroppo in modo improprio e fuori contesto, perché a dire di Fassino avrebbe intercesso per un comunista italiano negli anni Venti, salvandolo non si sa bene da cosa. Allora, infatti, il Grande Terrore era di là da venire e non lo si poteva prevedere. Incuranti di alcune precisazioni fatte immediatamente dai membri di Memorial (la più importante ONG russa che si occupa di stalinismo e repressioni politiche), sia il “Corriere della Sera”, sia la “Repubblica” hanno intitolato “Gramsci salvò gli italiani dal Grande Terrore”. Non è la prima volta che il nome di Gramsci viene usato in contesti storici particolari. La sua prigionia nelle carceri fasciste, dal novembre del 1926 a pochi giorni prima della morte, fu particolarmente tormentata e ancora oggi si discute se ci fu una volontà criminale nei suoi confronti da parte dei suoi compagni. Secondo alcuni, Togliatti non lo volle far liberare per non rischiare una sua condanna una volta eventualmente tornato a Mosca a causa di alcune critiche fatte nel 1926 dallo stesso Gramsci nei confronti della vincente fazione stalinista del Pc sovietico. Secondo altri, invece, Stalin e lo stesso Togliatti fecero fallire le trattative con Roma per un suo scambio, proprio a causa della visione politica eterodossa del comunista sardo. A spingere le ricerche in questa direzione qualche anno giunse un nuovo documento rinvenuto in archivio a Mosca; si tratta di una lettera della moglie Julija del dicembre 1940 indirizzata a Stalin nella quale si ipotizza un coinvolgimento di Togliatti in un complotto per lasciare Gramsci in carcere. Sembrò la quadratura del cerchio, ma le cose, come si comprese in seguito, erano più complesse. Per cercare di fare chiarezza prima di tutto è utile operare alcune precisazioni sui ruoli dell’epoca. Togliatti era in quegli anni uno dei segretari del Comintern e tale rimase fino allo scioglimento dell’organizzazione, avvenuto nel 1943. Quando egli parlava, assumeva una decisione o si confrontava con altri dirigenti, era l’internazionalista ad agire e non il dirigente del Pcd’I. Negli anni Trenta, inoltre, non esistevano dubbi sul fatto che tutti i comunisti fossero degli “stalinisti”. Oggi il concetto ha assunto un’accezione negativa, in particolare a partire dai libri di Annah Arendt sul totalitarismo sovietico, ma allora essere degli stalinisti era una cosa positiva. Significava non essere caduti nel frazionismo o nell’opportunismo trockista o di altra natura e sostenere la linea del Partito comunista sovietico e le risoluzioni dell’Internazionale. Stalin non era il male assoluto ma, al contrario, il più conseguente marxista del mondo, in grado di guidare tutti i comunisti verso un futuro di lotte e successi. Togliatti, per esempio, lo ammirava moltissimo, così come tanti altri uomini politici di allora, tra cui non ultimo Winston Churchill. Lo stesso Gramsci, a dirla tutta, non era alieno alle idee di Stalin e le sue critiche del 1926 non riguardavano la sostanza politica dello scontro in atto con Zinov’ev e Trockij, e neanche i metodi di lotta, bensì i provvedimenti presi contro gli oppositori, che a suo dire si allontanavano dalla tradizione leninista di ricomposizione finale dei dissensi. Una volta arrestato, Gramsci partecipò poco al dibattito politico, ma in alcuni casi sembrò assumere posizioni non sempre in linea con Mosca. Fu questa una sua peculiarità? Non esattamente. Molti dirigenti del Pcd’I sostennero posizioni eterodosse rispetto a Mosca, tanto che alla fine degli anni Trenta, dopo innumerevoli mediazioni, i vertici del partito vennero azzerati dal Comintern. Ci mancò poco che il Pcd’I non facesse la stessa fine del Pc polacco, che fu sciolto su decisione anche di Togliatti, ma proprio grazie a questi non si giunse a tanto. Ora, la lettera della moglie di Gramsci, indirizzata a Stalin (ma che questi non lesse mai) si inserisce in un contesto ben diverso da quello di un complotto. Dopo la morte di Gramsci, infatti, sia Togliatti, sia Julija, rivendicarono l’eredità letteraria di Antonio e la disputa fu risolta da un intervento del Comintern e in particolare di Dimitrov, il segretario generale, che creò un paio di commissioni e alla fine decise di lasciare gli scritti originali a Togliatti. Quella lettera, però, ci dice anche un’altra cosa, e cioè che da parte di Julija si aveva piena fiducia in Stalin, molta di meno in Togliatti, anche se in quel contesto a mio parere ella fece un uso strumentale del sospetto, e dopo una serie di accertamenti non venne creduta. Grazie alla decisione del Comintern, Togliatti poté studiare gli scritti lasciati da Gramsci, quindi farli giungere in Italia dopo il 1944 attraverso l’ambasciata sovietica. Fece uscire alcuni estratti dei quaderni del carcere su “Rinascita” e nel 1947 diede alle stampe una prima versione delle Lettere dal Carcere, che vinsero il premio Viareggio. Desiderio della dirigenza del Pci era portare in Italia i figli di Gramsci, i cittadini sovietici Delio e Giuliano, per ritirare il premio in denaro, 500.000 lire. Mentre per Giuliano l’espatrio non presentava grandi problemi, Delio era un ufficiale di marina e aveva bisogno di speciali permessi. Al fine di ottenerli, come la madre nel 1940, Delio si rivolse a Stalin con una missiva che porta la data del 1° ottobre 1947 nella quale racconta del premio, del libro e della figura di martire del padre; aggiunge, infine, che il denaro vinto sarebbe stato speso per la pubblicazione di una biografia di Stalin in Italia in quanto “mio padre, se fosse stato vivo, avrebbe fatto lo stesso”. La lettera venne letta da Michail Suslov, che la girò agli uffici competenti per i permessi necessari ed effettivamente Giuliano e Delio poterono recarsi in Italia. Di quali ombre su Gramsci si può allora parlare, se il figlio e la moglie scrivono ai massimi dirigenti sovietici in due importanti occasioni? E se Togliatti era veramente sospettato di avere impedito la liberazione di Antonio (ma per chi conosce i meccanismi del potere statale sovietico, partitico e dell’Internazionale comunista è facile comprendere come non ne avesse mai avuto né la facoltà né le forza politica per poterlo fare), perché poi i figli lo sarebbero andati a trovare in Italia e lo avrebbero sempre visto con grande piacere a Mosca ad ogni sua visita, come ricorda Giuliano Gramsci in un recente libro curato da Anna Maria Sgarbi? (Le lettere nel cuore, Gabrielli editore, prefazione di W. Veltroni). E perché quando Togliatti morì a Jalta nel 1964, la famiglia Gramsci si attivò con l’ambasciata italiana, firmando tutti i permessi affinché la tomba di Gramsci nel cimitero acattolico di Roma potesse accogliere eventualmente anche le ceneri di Togliatti, cosa che poi non si realizzò, ma non per una volontà negativa di Julija, Delio o Giuliano? Per rispondere a queste domande si devono abbandonare pregiudizi e letture ideologiche della storia e attenersi alla sola documentazione disponibile, oltre che alla conoscenza dei meccanismi del potere in Urss. Si vedrà, allora, che Mosca tentò ripetutamente di liberare Antonio dal carcere, ma i fallimenti delle trattative furono dovuti sia a irrigidimenti da parte di Mussolini, sia a periodi di avvicinamento tra i due paesi, nel corso dei quali non si volevano turbare le trattative per accordi commerciali con questioni politiche. Togliatti si impegnò, per quelle che erano le sue competenze, per salvare la memoria del suo antico compagno. Riunì nei giorni successivi la morte di Antonio i maggiori dirigenti del Comintern a Mosca e lesse un lungo discorso funebre, face in modo che le ceneri di Gramsci restassero a Roma, riportò tutti i suoi scritti in Italia e li fece pubblicare, si occupò della famiglia rimasta a Mosca e cercò di sostenere moralmente i due orfani e la vedova malata. Tutto questo all’ombra del regime staliniano, considerato allora il più progressista del mondo.

mercoledì 17 luglio 2013

NON E' FRANCESCO


Per essere chiari fin dall'inizio: Mukhtar Ablyazov non è un dissidente. Anzi, da un punto di vista sociale, culturale e politico, ne è l'esatto opposto: un oligarca. Nato nel 1963 in Kazakhstan, ha studiato a Mosca negli anni Ottanta, per poi partecipare alla disgraziata corsa all'oro degli anni Novanta del secolo scorso, quando la Perestrojka di Gorbachev si avviava verso una fine mesta. Dal 1991 al 1993 è stato direttore di una piccola impresa, la "Madina", e dal 1993 al 1997 fondatore, proprietario e presidente della società finanziaria "Astana-Holding". Dal giugno di quell'anno Ablyazov è diventato presidente della "KEGOS", entrando in politica e raggiungendo in breve (1998-1999) la non secondaria carica di Ministro dell'Energia, dell'Industria e del Commercio nel governo di Nurlan Balgimbaev. Costretto alle dimissioni nell'ottobre del 1999, è stato messo sotto inchiesta per appropriazione indebita, occultamento di denaro pubblico, abuso di potere e associazione a delinquere. Uscitone in qualche modo indenne, dal gennaio al settembre 2001 è stato presidente del Consiglio di Amministrazione della «Kazakhstan Airlines».
Proprio in settembre viene arrestato, ma rilasciato poco dopo. E' in questo momento che la sua carriera politica ricomincia: uscito di galera, infatti, fonda un partito dal nome populista: "Scelta democratica del Kazakhstan". Arrestato di nuovo, dopo un breve processo viene condannato a sei mesi di carcere per associazione a delinquere, ma il presidente (eterno) del Kazakhstan Nursultan Nazarbayev, lo grazia immediatamente. Tornato alla grande in affari, dal novembre 2003 al maggio 2005 è stato membro del Consiglio di Amministrazione di Krasnoyarskkrayugol" e dal gennaio 2005 è presidente del Gruppo di Investimento "Eurasia", nonché presidente del Consiglio di Amministrazione della "BTA Bank". In relazione a questa sua funzione, nel febbraio 2009 è accusato dall'Agenzia kazaka di vigilanza sulle transizioni finanziari (AFS) di aver frodato la banca e i suoi clienti per 70 milioni di dollari. In fuga da quel momento, trova rifugio in Inghilterra mentre di lui si interessano anche le autorità russe, visto che la banca ha sede anche a Mosca. Intanto, il 27 gennaio 2011 l'Ufficio del Procuratore Generale del Kazakhstan invia a Londra una richiesta ufficiale di estradizione. Fermato in Inghilterra, è stato sottoposto a processo per chiarire la sua posizione ma viene condannato per oltraggio alla corte a 22 mesi di carcere. Anche in questo caso riesce a far perdere le proprie tracce.  E si arriva così ai giorni nostri. Dalle ricostruzioni giornalistiche mi pare di aver capito che le autorità del Kazakhstan lo hanno individuato a Roma, dove viveva in una villa di Casal Palocco con moglie e figlia, e sotto la copertura di una inesistente "agenzia israeliana" hanno incaricato una locale agenzia investigativa di pedinarlo. Certi che si trattasse di lui, hanno informato le autorità italiane della sua presenza nella capitale, agendo in modo inoppugnabile. Avrebbero potuto, infatti, rapirlo o ucciderlo, se davvero il loro interesse era "toglierlo di mezzo". Il casino in cui si è poi cacciato il governo italiano è un'altra storia. Ma non di dissidenza.










MARASH

Foto di Marconista

Dentro Nicosia la "green line" che divide Cipro dalla diafana "Repubblica Settentrionale turca" è costituita da una striscia di edifici abbandonati, recintati e sorvegliati da una missione Onu. Qui la chiamano "la terra di nessuno", definizione più concreta e meno altezzosa di quella usata dagli "esperti". Chi ci vive, sa. Chi viene in "missione", si stufa presto e parla la lingua dei burocrati. Agli estremi della "no man's land" ci sono i punti di controllo greco-cipriota e turco-cipriota. Se sei uno straniero e vieni dalla parte greca, i turchi ti accolgono con un sorriso. Timbrano un visto di 90 giorni e un giovane in divisa che - è evidente - sta studiando le lingue straniere, improvvisa una conversazione. Breve. Gentile. La "società liquida" di Bauman si dissolve dopo pochi attimi. A chi pensava il sociologo polacco, quando individuò la definizione che lo ha reso famoso? A chi parlava? A quanti milioni di "occidentali" su miliardi di abitanti di questo pianeta? Passo vicino a un monumento cui rendono onore le due bandiere, la turca "turca" e quella bianca con la luna e stella rosse "turco-cipriota". Un negativo della prima. Niente ultramodernismo digitale. La fermata del bus per Famagosta, la bellissima città franca circondata da mura veneziane è accanto alla statua di Kemal Attaturk. Quando lo prendo mi accorgo che è un minibus giapponese dei primissimi anni novanta. Con guida a destra, quindi nessun problema, che gli inglesi l'hanno imposta a tutti anche qui. Pochi chilometri e l'idea di Grecia scompare. Poche costruzioni lungo la strada. Una grande distesa di prati. I passeggeri sono popolo e classi sociali. Li vedi, ci passi dentro con la mano e capisci perfettamente da dove vengono. I giovani sembrano già adulti. Non c'è neanche un bamboccione in giro. Gli anziani sono un pezzo solo. Ci sono le elezioni domenica. Ogni tanto incrociamo un pulmino con le bandiere verdi del partito democratico, poi le rosse di quello nazionale. Sono elezioni "de facto" per la comunità internazionale, che non riconosce questa parte cipriota come Stato. "De jure", ogni città turco-cipriota ha un sindaco greco-cipriota. Che non si è mai insediato. "De jure", mi dice un turco che ha lavorato per anni nelle basi navali inglesi dell'isola, i turchi sono cittadini europei. Possono andare nella Nicosia cipriota e chiedere un passaporto EU. Sarebbero accolti con ogni onore. E invece, aggiunge Refik, preferiscono andare a Istanbul in nave e chiedere un visto ai consolati delle ex Potenze protettrici.
Alle porte di Famagosta passiamo di fronte all'Università Mediterranea, che compie 30 anni. Mi sorprendo nel vedere una decina di studenti africani. Che se ne fanno della laurea di un paese che non esiste? Il capolinea è proprio di fronte a un bastione. Entro nella città. Scarto i le solite botteghe di ricordi e falsi di grandi firme della moda e trovo subito chiese vecchissime. San Giorgio, la Chiesa Armena, la grande Cattedrale gotica di San Nicola - ora moschea di Lala Mustafa Pascia che conquistò la roccaforte nel 1570, il 9 settembre. Mi tolgo le scarpe ed entro. E' decisamente una cattedrale del 1200, ma con il pavimento ricoperto di enormi tappeti verdi. Poche scritte in arabo prese dal "Corano" alle pareti e l'indicazione della Mecca. Fuori, dieci metri, un leone di San Marco. Comincio a perdermi, ma mi attende una prova più complessa. Quanto meno a livello intellettuale. Devo affrontare un quartiere completamente abbandonato dal 1974, Varosia in greco, Marash in turco. Si cammina per un po' sul lungo mare, incrocio una caserma e da lontano vedo improvvisamente un edificio altissimo sventrato dalla guerra. Varosia. Il set di un film sulla fine del mondo. I greco-ciprioti che lo abitavano e ci lavoravano (il centro turistico più importante di Cipro unita tanto che gira voce ci sia stata anche BB), hanno lasciato tutto per scappare dall'artiglieria: auto nei garage, letti disfatti, libri, giochi dei bambini, vestiti. La devastazione e il silenzio. Gli edifici sono in un degrado generale. Forse alcuni sarebbero ancora recuperabili, ma quelli che vedo di fronte al mare appaiono più pronti per essere abbattuti, un giorno. Un'altana basta per il controllo diurno qui in spiaggia. Il mare è bellissimo. L'acqua limpida, azzurra. Sotto a un ex albergo l'erba ha riconquistato la sabbia. La spiaggia sta scomparendo. Mi spoglio per un bagno ma continuo a fotografare, nonostante il divieto in cinque lingue. Anzi, proprio mi concentro su quel cartello. Tanto so che dall'altana non possono abbandonare il posto. Ogni tanto arriva una coppia di turisti, si avvicina alla recinzione e guarda al di là. Ma sta poco. Poi torna sui suoi passi. I turchi fanno il bagno, come se niente fosse. E, infatti, non è niente. Solo un paese piccolo come l'Umbria diviso in due epoche distanti almeno venti anni. E nel mezzo una terra di nessuno che si è fermata al 1974. (continua).

martedì 16 luglio 2013

VILLA ABAMELEK E LA GUERRA FREDDA


Villa Abamelek, una delle più belle ville della capitale, si trova ai piedi del Gianicolo, in via Aurelia Antica, vicino a Porta San Pancrazio ed è l’attuale residenza dell’ambasciatore russo in Italia, dopo aver ospitato gli ambasciatori sovietici. Costruita tra la fine del Seicento e l’inizio del secolo successivo, fu decorata con affreschi di Giuseppe Passeri e ospitò una pinacoteca di artisti dell’Accademia di San Luca. Nel corso dei decenni cambiò spesso proprietario, finché nel 1907 non fu acquistata dal principe russo Semen Abamelek Lazarev, che la rinnovò e le diede il nome attuale. Arricchita di sculture e nuove tele, arazzi e mosaici, la villa divenne uno dei salotti culturali più noti di Roma, grazie anche all’allestimento di spettacoli teatrali e concerti per gli ospiti. Il principe Abamelek fu l’ultimo proprietario della villa, poi questa passò ai sovietici. Come poté accadere che un nobile lasciasse una sua proprietà ai bolscevichi? Su Wikipedia si legge che il principe morì nel 1916 e che alla morte della consorte “nel 1936 l’edificio diviene proprietà dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche che nel 1946 ne ha fatto la sede diplomatica dei rappresentanti sovietici, e russi dal 1991”. Divenne proprietà dell’Urss, ma come? Wikipedia non lo dice, ma la storia è molto complessa e interessante e il passaggio della villa dalla famiglia Abamelek al Cremlino si intrecciò addirittura con i destini dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale.
Quando nel 1916 il principe Abamelek morì, infatti, egli lasciò un testamento che destinava la villa all’Accademia Imperiale Russa di Belle Arti, ma solo dopo la morte di sua moglie, che ne poteva disporre in usufrutto vitalizio. Com'è noto, per la storia russa tra il 1916 e il 1917 passa un’epoca intera e dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi la donna, Marija Pavlovna Demidova, impugnò il testamento del marito perché, sostenne, la persona giuridica destinataria della proprietà non esisteva più. La Demidova vinse in prima e seconda istanza contro le pretese di Mosca (1929 e 1936) e la questione sembrò risolta. Le avventure fasciste durante la seconda guerra mondiale e la conseguente caduta di Mussolini rimisero molte cose in discussione, tra cui anche questo contenzioso. Dopo la liberazione di Roma i sovietici, che in quel momento esercitavano un influsso non secondario presso il governo italiano, cercarono di far valere il loro presunto antico diritto, chiedendo alla Corte di Cassazione l’annullamento delle sentenze precedenti. Vedendosi respinta l’istanza per la scadenza dei termini, l’ambasciatore sovietico a Roma, Michail Kostylev, fece sapere all’allora ministro degli Esteri Alcide De Gasperi che Mosca teneva particolarmente alla villa e che fino alla conclusione positiva della questione il rappresentante diplomatico italiano in Russia, Quaroni, non avrebbe potuto occupare l’antica sede dell’ambasciata italiana, in via Vesnina. Mentre il Pci attraverso Togliatti, Eugenio Reale e Celeste Negarville cercavano di operare pressioni affinché il governo risolvesse la cosa ope legis, De Gasperi sperava di dilazionare la questione al fine di ottenere il permesso per rientrare in via Vesnina, per poi lasciar cadere il problema di villa Abamelek. Il contenzioso, infatti, presentava troppi lati oscuri perché da un punto di vista giuridico la Demidova aveva dalla sua le sentenze pregresse e anche la non secondaria osservazione che, comunque, prima di cedere l’immobile ai sovietici secondo le disposizioni del marito, essa sarebbe dovuta almeno morire! È quanto riferì De Gasperi a Kostylev nell’estate del 1945, ma il russo non sembrò dare importanza al dettaglio. Né accolse la proposta del segretario generale del ministero degli Esteri italiano, Prunas, che offrì a Kostylev uno scambio “alla pari” con villa Madama, altrettanto prestigiosa come villa Abamelek. Giunti a un punto morto, nel 1946 il governo guidato da De Gasperi decise di agire con decisione per accontentare Mosca. Il ministero delle Finanze valutò la villa 40 milioni di lire e ne offrì 5 alla vedova per la sua rinuncia definitiva ad ogni pretesa sull'immobile, ma la Demidova rifiutò. Allora il governo emanò un decreto di urgenza di requisizione della villa che, come dichiarò De Gasperi a Kostylev pochi giorni prima della sua pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, avrebbe permesso alla vedova di fare ricorso in Cassazione solo sul prezzo che il governo aveva deciso di pagarle, ossia un vitalizio di un milione di lire annue, ma non sull'esproprio. Il decreto del 20 maggio 1946 intitolato Trasferimento allo Stato per fini di pubblica utilità, della villa Abmelek Lazareff ed annessi, venne pubblicato il 20 agosto 1946 a firma del luogotenente del Regno Umberto, di De Gasperi, Togliatti e del ministro del Tesoro Epicarmo Corbino; vi si legge che “vista legge su espropriazioni del 25 giugno del 1865 per fini di pubblica utilità, su proposta del presidente del consiglio, primo ministro e ministro segretario di stato per gli affari esteri di concerto con i ministri di Grazia e Giustizia e del Tesoro, la villa di proprietà della principessa Maria Pavlovna Demidov(a) di San Donato, a Roma in via Aurelia Antica 8, con tutti gli annessi risultanti dalla planimetria e dai dati risultati dalle note analitiche annesse al decreto è trasferita allo Stato nello stato di fatto e di diritto con ogni accessione e pertinenza in libera proprietà e disponibilità”. Un mese più tardi, quindi, il governo trasferì ai sovietici la proprietà dell’immobile.  
Perché il governo italiano, e in particolare quello guidato da De Gasperi, profuse tutto questo impegno e forzò il buon senso e la legge per accontentare le pretese sovietiche su villa Abamelek? Il fatto è che allora l’Italia aveva bisogno dei sovietici perché sperava in un loro appoggio durante le trattative per il trattato di pace, che sarebbe stato firmato a Parigi nel febbraio del 1947, affinché le clausole dello stesso fossero più miti di quanto si poteva ritenere nel 1943 e che venisse in qualche modo riconosciuto l’impegno italiano durante i due anni di cobelligeranza contro i tedeschi. I sovietici, che per primi avevano teso la mano a Badoglio riconoscendolo ufficialmente nel marzo del 1944, sembravano i più propensi ad aiutare Roma nelle sue richieste riguardanti, per esempio, Trieste, l’ingresso all’Onu o la questione delle riparazioni. Paradossalmente, l’inizio della guerra fredda sembrava favorire questo disegno in quanto poteva essere interesse dei sovietici mostrarsi più duttili e magnanimi verso un paese sconfitto dei loro alleati angloamericani, sperando in tal modo di svolgere un’opera di propaganda nella penisola e sostenere i partiti di sinistri. Questo interesse durò fino al maggio 1947, data dopo la quale Roma si schierò sempre più chiaramente con gli alleati occidentali, allontanandosi definitivamente da Mosca e dalle sue richieste

IL "GIORNALE" SCRIVE

Marconista ringrazia

Di Mario Cervi
Il libro di Marco Clementi Camicie nere sull'Acropoli (DeriveApprodi editore, pagg. 365, euro 23) rievoca l'occupazione italiana della Grecia dopo la guerra che Mussolini aveva scatenato e che s'era messa male a tal punto da richiedere il risolutivo intervento tedesco. Il racconto di Clementi, sorretto da una documentazione impeccabile, prende le mosse dai mesi in cui il Duce, angustiato e inebriato insieme dalle vittorie hitleriane, cercava un nemico che potesse consentirgli di rivaleggiare, in glorie militari, con l'invasato di Berlino. La sensatezza avrebbe richiesto che lo sforzo italiano fosse esercitato in un nostro territorio e contro un avversario importante, ossia in Africa settentrionale. Ma quell'operazione non appariva «utile e facile» come invece apparve, nell'avventata diagnosi di Ciano, l'attacco alla Grecia. Scagliato, paradossalmente, contro un Paese retto dalla dittatura del generale Ioannis Metaxas che dal fascismo aveva mutuato ideologia e rituali. Ma non c'era nessun altro obbiettivo che avesse una comoda contiguità territoriale come quella tra l'Albania - proconsolato di Ciano - e appunto la Grecia.
Anche un'avventura futile e tragica come quella greca, che ci costò quasi 14mila morti e 25mila dispersi - da ritenere morti - assume, se rivista nelle carte, un'ombra di logica. Compito e merito degli storici è di chinarsi su quelle carte. Ma le mosse di Mussolini, che aspirava ad essere ricordato come condottiero - dovendo scegliere un predecessore preferì Cesare ad Augusto - hanno secondo me piena spiegazione in un calcolo e in una smargiassata, l'uno e l'altra clamorosamente sbagliati. Il calcolo fu quello di entrare nel conflitto mondiale, mentre la Wehrmacht irrompeva verso Parigi, nella convinzione che le sorti del conflitto stesso fossero già decise. La smargiassata fu quella d'assalire uno Stato ritenuto debole per acquisire facili allori. Lo smargiasso fu umiliato.
Spettò principalmente agli italiani - i tedeschi avevano il comando effettivo ma per le basse incombenze si tenevano in disparte - il compito di gestire il Paese occupato. Non avevano la capacità di gestirlo, e il risultato fu il terribile inverno 1941-1942 durante il quale in tutta la Grecia, ma in particolare nelle grandi città come Atene e Salonicco, la gente moriva di fame per strada. Furono particolarmente colpiti, com'era logico, gli anziani e i bambini, ad Atene la mortalità infantile passò dal 7 al 35-40 per cento. Ma il ministro degli Scambi e Valute, Oreste Bonomi, lamentava che i tedeschi procedessero a una metodica spoliazione della Grecia, mentre «noi relativamente quasi nulla».
Clementi si occupa largamente della resistenza greca - divisa tra filo-occidentali e filo-sovietici, con tremende lotte fratricide - e indugia, giustamente, su una rappresaglia italiana che assunse connotazioni non lontane da quelle di Marzabotto o di Sant'Anna di Stazzema. Il nome di Domenikon, un villaggio della Tessaglia, ci dice poco. Ma fu teatro di un evento spaventoso. Una formazione partigiana attaccò, il 16 febbraio 1943, un'autocolonna militare italiana. I caduti furono 9, i feriti 26. Il generale Cesare Benelli ordinò al tenente colonnello Antonio De Paola dei lancieri «Milano» di procedere alla ritorsione. Il villaggio fu raso al suolo dall'aviazione, 20 ostaggi vennero abbattuti immediatamente, 118 abitanti di Domenikon, oltre a 17 di Damasios e Mesochorio, furono abbattuti poco dopo. Qualche ferito riuscì a salvarsi fingendosi morto. Al tenente colonnello De Paola fu conferito un encomio solenne per avere «con calma, implacabile energia e intelligente azione di comando assolto perfettamente e completamente i compiti che gli erano stati affidati».
Mi rendo conto della crudeltà che una guerra inevitabilmente comporta. Ma tra Domenikon e le Fosse Ardeatine non vedo molta differenza, anche se Kappler è ricordato come un mostro. Poi da occupanti e rastrellatori che erano, gli italiani divennero rastrellati a opera dei tedeschi, la divisione Acqui fu sacrificata, chi volle unirsi agli andartes (partigiani greci) salvò talvolta la vita ma patì sofferenze disumane. Non fummo «buoni», e gli altri non furono buoni con noi.

lunedì 15 luglio 2013

VAROSHA

Tra le più assurde realtà di Cipro troviamo Varosia, o Marash in turco, un quartiere-zona verde-abbandonato di Famagosta, fino al 1974 principale centro turistico cipriota.
Dal 1974 Varosia è abbandonata e sotto il controllo dell'esercito turco-cipriota. Queste foto sono state scattate pochi giorni fa.



















  

15 LUGLIO 1974. CIPRO

Check-point
IL 15 luglio 1974 le forze della giunta militare greca invase Cipro e depose l'arcivescovo Macario III, primate della chiesa autocefala dell'isola e presidente della repubblica. Macario era un elemento di stabilità tra le due nazionalità dell'isola, la turco-cipriota e la greco-cipriota, che dal 1960, anno dell'indipendenza, vivevano in una situazione di relativa pace, allontanando sempre di più la prospettiva di una unione con Atene. La Turchia, forte dell'accordo con cui gli inglesi avevano lasciato Cipro nel 1960 in base al quale era possibile intervenire in difesa di una minoranza, se minacciata da una potenza esterna, fece sbarcare sulle coste settentrionali alcune truppe che in un giorno occuparono una striscia di terra, consolidandola. In breve i turco-ciprioti e i greco-ciprioti dovettero abbandonare rispettivamente il sud e il nord del paese, che in poche settimane venne segnato da una cosiddetta linea-verde, che divide ancora oggi la capitale, Nicosia.
Nel Nord dell'isola venne fondata una Repubblica Settentrionale Turca di Cipro, mentre il Sud mantenne il nome di Cipro. La repubblica è stata riconosciuta solo dalla Turchia e dal 1974 vive una doppia vita: de jure fa parte di Cipro, ma de facto ne è separata.
Oggi Cipro è un paese schizofrenico, con realtà contrastanti, o che si ignorano, a poche decine di chilometri una dall'altra. Attraversando ovunque la linea verde, all'interno della quale sono rimasti vuoti migliaia di palazzi in tutta l'isola, si passa dal post-moderno europeo a un modernismo post-ottomano conservatore. (foto di Marconista)

Famagosta. Repubblica turca del Nord di Cipro

La bandiera



Cipro. Spiaggia di Agia Napa




NATAL'JA ESTEMIROVA


Il 15 luglio 2009 in Inguscia venne rinvenuto il corpo di Natal’ja Estemirova, giornalista e una delle principali attiviste dell’associazione non governativa “Memorial” nel Caucaso. Cinquanta anni, dal 1999 – anno dell’inizio della seconda guerra cecena – la Estemirova si era impegnata nella denuncia delle violazioni dei diritti civili e umani perpetrate in Cecenia e Inguscia dalle parti in conflitto, esercito federale, squadroni della morte e combattenti ceceni. Dall’inizio del decennio, inoltre, collaborava attivamente con Memorial, la più importante associazione non governativa russa che dal 1988, anno della sua fondazione per opera di Andrej Sacharov, si occupa di diritti civili. Nel corso della sua attività la Estemirova aveva collaborato a lungo con un’altra giornalista, Anna Politkovskaja, uccisa nell’ottobre del 2007 a Mosca, ospitandola e facendole da interprete durante i suoi soggiorni clandestini a Groznyj, la capitale cecena. Come la Politkovskaja, Natal’ja Estemirova aveva ricevuto in passato diversi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il premio dedicato all’amica uccisa intitolato Raw in War (2008), quello del Parlamento svedese “Il diritto all’esistenza” (2004) e una medaglia intitolata a Robert Schumann da parte del Parlamento europeo nel 2005.
La mattina del 15 luglio 2009 Natal’ja fu prelevata sotto casa, a Groznyj, da un commando armato mentre si stava recando nella sede di Memorial per incontrarsi con i parenti di alcune persone assassinate di recente in Cecenia, quindi avrebbe dovuto recarsi con due rappresentanti del ministero degli Interni ceceno nella regione di Stavropol’. Dopo poche ore il suo corpo è stato lasciato a una cinquantina di chilometri dalla capitale, in territorio inguscio, dopo un’esecuzione a colpi di pistola. 
Nel corso della sua attività Natal’ja aveva raccolto moltissimo materiale con il quale si documentavano le violenze perpetrate in Cecenia durante gli anni della seconda guerra, con grave risentimento in particolare dell’attuale presidente ceceno Razman Kadyrov, che alla fine di marzo del 2008 l’aveva rimossa dal posto di presidente del Consiglio per i diritti umani e civili di Groznyj, usando come pretesto la posizione della Estemirova sul velo islamico, laica rispetto a quella confessionale del presidente. E proprio su questa figura di politico conviene soffermarsi per cercare di comprendere quali siano le dinamiche presenti in questo momento nella martoriata repubblica. Dopo esattamente dieci anni dal suo inizio, il 18 aprile del 2009 Mosca ha sancito la fine in Cecenia dello speciale regime antiterrorismo, il KTO, riportando la repubblica a una vita più “normale”. Il passaggio dalla guerra alla pace è gestito da alcuni anni dal clan dei Kadyrov, prima attraverso il padre dell’attuale presidente, Achmad, assassinato il 9 maggio del 2004, e quindi con il figlio, divenuto presidente al compimento del trentesimo anno di età. A dire di molti osservatori, la soluzione è stata voluta da Putin, ma le cose potrebbero essere diverse. Kadyrov padre durante la prima fase della guerra cecena combatteva contro l’esercito federale e solo in un secondo momento, dopo essersi liberato dei combattenti ceceni meno propensi al compromesso, ha trovato un accordo con il Cremlino. Non se ne conoscono i termini, ma si può ipotizzare che il clan dei Kadyrov si sia presentato come l’unico elemento in grado di garantire la pacificazione della regione attraverso ulteriori accordi con fazioni in lotta e l’eliminazione delle frange più estreme, ricevendo in cambio il disimpegno totale del ministero degli Interni federale in Cecenia e la possibilità di gestire la ricostruzione, e dunque il giro di affari miliardario ad essa legato. La contropartita per un’uscita dignitosa dalla Cecenia da parte di Putin, insomma, potrebbe essere stata il passaggio concordato della regione nelle mani della famiglia Kadyrov, che ora controlla l’intera repubblica autonomamente da Mosca. In tale contesto, allora, non come un “regalo”, ma quale segnale di autonomia e potenza può essere interpretata la scelta del giorno in cui è stata uccisa la giornalista Anna Politkovskaja (il 7 ottobre 2007, compleanno di Putin), mentre l’omicidio di Natal’ja Estemirova non aiuta assolutamente il giovane presidente Dmitrij Medvedev nel suo tentativo di accreditarsi in Occidente come una nuova figura di progressista e democratico. Medvedev, reduce dal G8 e dal vertice con Obama, espresse viva indignazione per l’assassinio della giornalista cecena e ordinò al procuratore capo federale Aleksandr Bastrykin di coordinare le indagini, sottolineando come fossero evidenti i collegamenti tra la morte della Estemirova e la sua attività in difesa dei diritti civili. Razman Kadyrov dichiarò, altresì, che i responsabili dell’omicidio sono più pericolosi dei terroristi islamici e che accanto alle normali indagini seguirà i tradizionali “metodi” ceceni per arrivare alla verità. Ad oggi, i suoi assassini non sono stati individuati.