La pandemia, che Richard Horton, direttore della rivista “The Lancet”, ha recentemente chiamato forse più propriamente sindemia, sta progressivamente svelando il proprio volto. A differenza di quanto si pensava all’inizio, quando i paesi colpiti vennero divisi in democratici e autoritari, sovranisti e comunitari, è evidente che il virus si muove seguendo strutture portanti delle società. Colpisce e uccide quasi sempre persone con redditi bassi, socialmente emarginate, oppure affette da malattie croniche. È il risultato di politiche pubbliche pregresse, che nel corso della storia si sono consolidate a prescindere dai regimi su ambiente, salute, istruzione, lavoro. Le criticità fisiche appaiono strettamente legate all’ambiente e al tenore di vita; i malati cronici, gli obesi, i diabetici e i cardiopatici sono spesso persone a basso reddito, che si sono nutrite per decenni di cibo spazzatura, con accessi limitati o nulli a cure specifiche, persone sole, assistite – quando funzionano – dai servizi sociali. Una volta malate, esse stesse si sono ritrovate inabili al lavoro o a sforzi cognitivi per avere una istruzione o una riqualificazione, restando così ferme sulle proprie disgrazie.
In questi mesi gli scienziati sociali hanno scomodato i nomi classici della sociologia, impegnandosi a spiegare come le politiche emergenziali possano condurre a una “ossessione securetaria” e a una “società immunitaria” quale “paradigma della modernità”; i giuristi si sono interrogati sui processi decisionali e sul loro eventuale contrasto con il dettato costituzionale, insistendo per esempio sul fatto che la forma del DPCM fosse meno corretta del decreto legge, che permette al Parlamento di conservare la sua sovranità decisionale con la conversione in legge nei tempi costituzionalmente fissati. Altri hanno addirittura messo in evidenza come fosse fuorviante parlare di un diritto soggettivo alla sicurezza, perché non rientrerebbe nella sfera dei diritti inviolabili. Insomma, ognuno ha dato profondità alla propria dottrina per sostenere o criticare le scelte politiche decise per fermare il diffondersi del virus.
Nella fase che stiamo attualmente attraversando, quella di convivenza con l’agente patogeno, i provvedimenti di contenimento non sono molto diversi da quelli della prima fase. Dopo un allentamento estivo siamo infatti entrati in un confinamento più o meno moderato, che alla fine appare come l’unico mezzo efficace per contrastare il diffondersi del virus e che si può riassumere nello slogan: stare a casa il più possibile. Ma se questa è l’unica vera arma a disposizione del governo, a cosa servono le migliaia di parole spese fino ad oggi alla ricerca di significati più o meno plausibili sulle azioni di contenimento? A poco, se non a nulla.
Il virus ha scoperto i limiti dello sviluppo liberista e ha portato alla luce le gravi mancanze del nostro sistema sanitario. Perché in realtà quella che stiamo vivendo è una crisi sanitaria senza precedenti, provocata sì dai tagli dei decenni passati, ma anche da una cattiva gestione dei fondi erogati, da spese male orientate, da professionalità non sempre all’altezza e dalla mancanza di una pianificazione/previsione che si inserisce pienamente nello strazio che ha subito il territorio, nelle novelle bombe d’acqua che sommergono case e automobili provocando morti ingiustificate, nel crollo di infrastrutture mal costruite e prive di manutenzione, passando per un sistema di trasporti pubblici che in alcune regioni è quasi inesistente, fino ad arrivare alle buche nelle strade di Roma. Sciatteria.
La situazione che stiamo vivendo ha dimostrato in modo inequivocabile che in Italia ci sono moltissime persone che si sono trovate in passato nel posto giusto al momento giusto e che per questo hanno fatto carriera; ma adesso sono nel posto sbagliato al momento sbagliato, e contribuiscono al caos generale che porta a un aumento di casi e di morti. Dovremmo fermarci a rivedere il termine “sviluppo” e il suo significato, che non può essere solo ed esclusivamente sinonimo di crescita senza limiti – ma necessariamente ineguale – che non tiene conto del clima e dei suoi mutamenti; dovremmo rimediare al prolungarsi dell’aspettativa di vita, prevedendo istituzioni “umane” dove non regni il dolore e la solitudine, come in molte RSA, sostenendo le famiglie meno fortunate affinché possano prendersi cura dei loro anziani. Potremmo raccogliere il dolore di quanti vivono per strada o giungono da noi scappando dalla guerra, perché la loro parola è importante e perché hanno molto da dirci, ma per adesso se lo tengono per sé, in mancanza di auditorio. Dovremmo rivedere tutto, ma per farlo serve cominciare a dire le cose per come stanno. E partire da un punto: facciamo gestire la logistica della distribuzione dei vaccini all’esercito, che è l’unica istituzione che in questi casi funziona.
sabato 5 dicembre 2020
La securetate dei diritti umani e la malattia
Iscriviti a:
Post (Atom)