martedì 27 dicembre 2011

Ricordo di Vaclav Havel



Havel


        Václav Havel, scomparso il 18 dicembre scorso, è ricordato come il primo presidente della Cecoslovacchia non comunista, artefice della caduta del Muro, l’uomo di Charta 77 e della rivoluzione di velluto. Fu qualcosa di più, e di diverso. Nato a Praga il 5 ottobre 1936 in ambiente intellettuale, cominciò a scrivere e comporre giovanissimo. La sua prima opera è del 1959 (Tutta la vita davanti), seguita da Metamorfosi, nel 1961. In breve si affermò come drammaturgo e poeta ed entrò a far parte dell’Unione degli Scrittori. Scioccato dall’esito della Primavera di Praga, definì la restaurazione portata dai carri armati come “il regime dell’oblio”. E quando Jan Palach, Jan Zajic e Ezven Plocek si diedero fuoco per protestare contro la passività del proprio popolo, Havel affermò che la società aveva compreso. Ognuno capiva la necessità di fare qualcosa di estremo: Palach e gli altri lo avevano fatto per tutti. Ci si rese conto allora, che quel socialismo illiberale e post-totalitario era davvero il socialismo, e che tutte le altre possibili alternative, pur in quello stesso ambito ideale, fossero definitivamente decadute.
Nell’aprile del 1975, dopo aver fondato le edizioni «Expedice», Havel scrisse una famosa lettera aperta all’allora capo del partito comunista, Gustáv Husák, nella quale parlava della crisi morale e spirituale che stava vivendo la società; denunciava l’auto alienazione, la dissimulazione e la fuga nel privato.
Secondo Havel, gli uomini della reazione avevano capito la minaccia che pendeva sopra l’esistenza del regime il quale, per conservarsi, doveva privarsi di ogni spinta rinnovatrice. Da quel momento, e per venti anni, fino alla rivoluzione di velluto del 1989, tutti i meccanismi della manipolazione, diretta e indiretta, della vita si svilupparono creando un sistema che Havel chiamò “totalitarismo maturo e avanzato”. La rivoluzione e il terrore lasciarono il posto all’immobilità, all’omologazione, all’anonima burocrazia stereotipata. Dalla caduta di Dubček fino alla rivoluzione di velluto si sarebbe formato all’interno della società cecoslovacca un dualismo che comprendeva la verità ufficiale e quella ufficiosa e condivisa, che escludeva la prima. Il grado di tolleranza del sistema si misurò nella forza dell’opinione informale di imporsi come generale. Il nascente dissenso e la nascita di Charta ‘77, cercarono di costringere il regime al rispetto delle sue stesse leggi. Dopo gli accordi di Helsinki, infatti, il partito comunista fu costretto a misurare l’uso della repressione contro gli oppositori.
      L’epoca grigia di rassegnata apatia, però, continuò: mentre piccoli centri focali di resistenza venivano scoperti e repressi, la comunità faceva finta di non. Il regime ottenne come risultato più visibile del suo operato la fuga della gente comune dalla realtà quotidiana, dai problemi sociali e dalla politica. Alcuni argomenti diventarono proibiti e la storia fu sostituita da una pseudostoria celebrativa. Havel ricorda i primi anni Settanta come l’epoca della sospensione della storia. Era come se il divenire avesse perso la sua cadenza naturale, la direzione e il mistero, per trasformarsi in automanifestazione e autocelebrazione unilaterale di un unico soggetto, centro di verità e di potere. Dato che il tempo umano può essere esperito solo attraverso gli avvenimenti, iniziò a scomparire l’esperienza stessa del tempo, che cominciò a girare in tondo. Gli accadimenti si alternavano attraverso un prima e un dopo assolutamente simili, tanto che diventava difficile distinguere un anno dall’altro, mentre una serie di celebrazioni scandivano  l’anno, dal Primo maggio alla Liberazione, dall’8 Marzo all’Insurrezione nazionale slovacca, dalla Festa dell’esercito al Febbraio vittorioso.
Assumendo la riflessione di Edmund Husserl sulla realtà del mondo immanente come il solo luogo in grado di misurare la morale, Havel tornò sul concetto della Lebenswelt come del mondo nel quale tutti viviamo, luogo che nutre la condizione di vivere nella verità. La parte secondaria di tutti i fenomeni e le entità distinte nel mondo che noi possiamo osservare, annunciare o esperire esistenzialmente in vari modi, è qualche cosa che possiamo definire come un «ordine generale dell’Essere». Tale Essere è compartecipe di tutte e in tutte le culture le quali, pur essendosi diversificate migliaia di anni fa, assumono ancora nel presente i medesimi archetipi di base, che non sono mai stati abiurati. La storia intera del cosmo, e specialmente della vita, è registrata quindi nel lavorio interno di tutti gli esseri umani e dopo migliaia di anni persone di epoche diverse e di culture lontane sono unite come parti dello stesso Essere; tutte le culture presumono l’esistenza di qualche cosa che Havel chiama «Memoria di Essere», nella quale viene continuamente registrato ogni aspetto della vita; le garanzie della libertà umana e della responsabilità personale si ritrovano non già nei programmi politici o nei sistemi di pensiero, bensì nella relazione tra l’uomo e il trascendente, di cui egli è parte integrante.
Partendo da queste riflessioni, Havel individuò nella Primavera di Praga l’ultimo atto, la proiezione esteriore di un dramma condotto nell’ambito dello spirito e della coscienza della società. La primavera di Praga come l’esito ultimo della società socialista, non come un suo risveglio, che sarebbe avvenuto solo venti anni dopo, con la fine del comunismo e la sua, involontaria ma necessaria, salita al Castello. 

lunedì 26 dicembre 2011

Dalla commemorazione di Anna Politkovskaja ai giorni di Mosca

Pochi mesi e sembrano anni. Il 7 ottobre 2011 a San Pietroburgo c'erano solo queste persone a commemorare l'anniversario dell'uccisione di Anna Politkovskaja.

Tutte le foto sono di Marconista





La svolta di Salerno secondo Silvio Pons, direttore del Gramsci

Silvio Pons al microfono
Non dirò quasi nulla di mio in questo post. Lascerò che parli Silvio Pons, il direttore del Gramsci, che su uno dei nodi della vita politica italiana della seconda guerra mondiale, la svolta di Salerno, ha scritto:

"La politica sovietica presentò infatti sin dalla Conferenza di Mosca dell'ottobre 1943 due diverse opzioni circa l'atteggiamento da tenere verso il governo Badoglio, l'una intransigente che prevedeva la richiesta di una sua liquidazione, sostenuta da Molotov alla vigilia dei lavori, l'altra conciliante che suggeriva una "riorganizzazione" del governo e che si affermò nel corso della conferenza come formula di compromesso con le posizione sostenute dagli occidentali. Quest'ultima posizione si integrava di fatto con le istanze di moderazione nel frattempo avanzate da Togliatti nella sua corrispondenza con Dimitrov. La missione di Vyshnskij in Italia del gennaio 1944, tuttavia, spostò l'ago della bilancia verso l'opzione intransigente: presumibilmente, ciò fu la conseguenza sia della constatazione dell'ormai consumata emarginazione sovietica dal regime di occupazione, sia dell'influenza esercitata dalle posizioni antimonarchiche dei comunisti italiani e della maggioranza delle altre forze antifasciste. E' in questa luce che diviene comprensibile la conversione di Dimitrov e di Togliati all'opzione intransigente nel gennaio-febbraio 1944, che venne realizzata sulla scorta dei rapporti compiuti da Vyshinskij. Ma l'opzione conciliante non venne davvero abbandonata a Mosca. Assai probabilmente, questa fu una conseguenza delle aperture compiute dallo stesso governo Badoglio all'indirizzo dei sovietici. Quando Stalin decise la mossa del riconoscimento unilaterale, il logico corollario fu il recupero dell'opzione moderata per i comunisti italiani. In altre parole, la svolta di Salerno venne originata a Mosca da un difficile processo decisionale, nel quale si manifestò un'evidente interdipendenza tra la politica estera sovietica e la formulazione della politica comunista. Stalin scelse alla fine tra opzioni contrastanti che furono avanzate, in momenti diversi e secondo priorità diverse, dai suoi diplomatici e da Togliatti. Queste opzioni non vennero però chiaramente presentate come alternative politiche e l'intero processo decisionale rilevò un elevato grado di incertezza e improvvisazione."

Così come l'analisi, mi viene da commentare, a meno che non si creda all'azione dello spirito santo.

sabato 24 dicembre 2011

Oriana Fallaci. Una biografia di prossima pubblicazione

Una casa editrice milanese sta lavorando a una biografia di Oriana Fallaci. Uscirà nel 2012.
Oriana Fallaci ha costituito uno dei maggiori casi letterari che l'Italia abbia avuto negli ultimi decenni e che dopo la sua morte è destinato probabilmente a rinnovarsi; io stesso, che mi ero fermato a "Un uomo", forse finirò per leggere qualcosa di più rabbioso e orgoglioso.
Si conosceva bene la giornalista. Essa aveva un ego ragguardevolmente ipertrofico che le imponeva di dividere con la sua scrittura. Talentuosa, scrupolosa, concepiva la sua professione come una missione e si era convinta, specialmente negli ultimi anni di vita, di essere nel giusto. Prigioniera di questa sua convinzione, la Fallaci ha prodotto molti danni e ha contribuito alla polarizzazione dell'opinione pubblica italiana in un momento nel quale sarebbe servito soprattutto ragionare. Si considerava, peraltro, una storica e non apprezzava gli storici di professione - gli studiosi, insomma - in quanto, diceva, essi arrivavano a occuparsi di un avvenimento due o trecento anni dopo e pretendevano di ritrovare la verità leggendo fonti scritte da così tanto tempo e probabilmente manipolate da altri interventi. Il giornalista, invece, che osserva direttamente i fatti che descrive, è l'unico portatore di verità e, dunque, non si deve dubitare di ciò che ci viene detto quando si ascolta la Tv o si legge la stampa.
Si tratta di una grave mistificazione della realtà. Il giornalista che racconta un fatto crea nel migliore dei casi una "Cronaca" (o parte di essa). Quello che intervista un uomo politico ecc., o compie un'inchiesta, crea un documento. Sia la Cronaca che l'intervista o l'inchiesta diventano delle fonti e possono essere usate dallo storico, che si differenzia dal giornalista e dal cronista proprio per la possibilità che egli ha, e offre agli altri, di controllare le fonti non solo in quel momento, ma sempre, anche a distanza di cento anni da uno storico di un'altra epoca. Quando non è possibile fare ciò, si esce dall'ambito scientifico e si entra altrove. Ciò è dirimente, in quanto è proprio la possibilità di controllare le fonti (che corrisponde in fisica a quella di ripetere un esperimento in laboratorio), a fare della storia una scienza, a differenza del giornalismo, che è una professione.
I danni provocati dall'esaltazione di certe argomentazioni della Fallaci, proveniente del resto essenzialmente da suoi colleghi, contribuisce alla mancanza di chiarezza che contraddistingue le pagine dei giornali italiani negli ultimi anni sulle quali, troppo spesso, si parla sempre di "altro". Da storico ritaglio e conservo i quotidiani, o li fotografo, ostinandomi a non dare retta a Kraus, per il quale il giornale del giorno prima era buono solo per incartare il pesce. Ma forse aveva ragione lui.

Raciti e la sentenza d'appello

Filippo Raciti
Questa settimana il verdetto di primo grado sull'omicidio dell'ispettore di polizia Filippo Raciti è stato modificato dall'appello, che ha dimezzato la pena inflitta in primo grado ad Antonino Speziale: ora dovrà scontare otto anni. La vedova, Marisa Grasso ha commentato la sentenza come "giusta".
La morte dell’ispettore Raciti fu una di quelle morti che pesano, al punto di riuscire, allora, a fermare una delle maggiori industrie italiane, la calcistica, che ha un giro d’affari pari a circa mezzo punto di Pil. Pochi oggi ricordano che una settimana prima, in un oscuro campetto di periferia della periferia d’Italia, la Calabria, era morto un dirigente di una squadra di terza categoria. Aveva pesato meno, non si era fermato il calcio, ma aveva suscitato scalpore e un certo sdegno. Non mi interessa qui “misurare” i due episodi, anche se un certo collegamento ce l’hanno; mi vorrei soffermare sul significato politico del primo e del perché il secondo è apparso subito più leggero. La risposta è ovvia: nel primo caso è morto un servitore dello Stato, nel secondo un cittadino qualunque.
Servitore dello Stato: quante volte si è usata questa locuzione sui media e nei discorsi dei politici? Da Calipari a Dalla Chiesa, da Calabresi a Falcone e Borsellino, si è sempre usata questa espressione per volerne sottolineare una qualità, metterne in evidenza la caratteristica pubblica più evidente, più facilmente comprensibile per l’opinione pubblica. Ma cosa dice davvero questa espressione, che negli anni Settanta veniva addir
ittura storpiata, ma dunque accettata, in servo dello Stato? Cosa cela dentro di sé? Un baco? Se sì, di che tipo?
Ebbene, l’espressione è un ossimoro, un controsenso, un falso. Lo Stato è la mediazione del complesso di molteplici interessi di varia natura. È lo Stato che serve affinché queste contraddittorie tensioni si tengano assieme. Chi lavora per lo Stato, nell’interesse dello Stato, non difende un’idea astratta, ma un preciso patto che serve alla conservazione, al mantenimento e alla proliferazione di un determinato interesse specifico di classe. Carlo Giuliani durante il G8 di Genova stava difendendo, quando venne assassinato, uno specifico interesse di classe opponendosi alla violazione dei diritti civili perpetrata in quel momento più in generale dagli otto governi riuniti nella illegale zona rossa e, in particolare, proprio dalle forze dell’ordine che proditoriamente avevano attaccato una dimostrazione pacifica interrompendo le garanzie costituzionali. In quel momento, in quel dato contesto, se si vuole parlare con le parole di cui si tratta in questo pezzo, essi non erano servitori dello Stato, mentre lo era Carlo. Ma, in realtà, non lo era neppure Carlo, in quanto lo Stato non prevede per sé dei servitori. I servitori sono previsti solo se si parla di potere. Le forze dell’ordine erano, a Genova, servitori del potere in assenza dello Stato. L’espressione servitore dello Stato, in realtà, significa proprio questo: si è servitori di un determinato potere in uno specifico contesto, quando il potere non è più mediazione di interessi diversi ma rappresentazione violenta di un solo interesse particolare. Ed ecco che la differenza tra servitore del potere e servo del potere decade nel senso che il potere vuole solo accoliti.
Morire per una partita di pallone, invece, c’entra poco con il senso del dovere e dello Stato. È una morte inutile, stupida, tragica. È un nuovo tassello di guerra civile, un terminale di questa società che non è tenuta assieme ormai più da niente e che si sgretola in ogni occasione nella quale potrebbe perdere il suo equilibrio. È la rappresentazione dell’altra faccia del potere, ossia dell’assenza dello Stato. Lo si è visto nelle reazioni del dopo Catania. La politica spesso sembra lasciare che si arrivi al parossismo per poi  governare l’emergenza. Nessun progetto per il paese. Totale assenza. Più facile e meglio così.
L’ispettore Raciti faceva parte delle guardie d’onore della famiglia sabauda, quelle che si vedono dentro al Pantheon in un giorno qualsiasi mentre fanno il picchetto sulle tombe dei nostri re. Dove c’è uno Stato questo non è strano. A Istanbul (Turchia) le tombe di alcuni sultani e della loro discendenza sono un monumento nazionale. È il passato, concluso, al quale si è riconoscenti se ha reso prestigioso lo Stato. Da noi, invece, il passato non passa mai. I Savoia non sono morti e far parte del picchetto d’onore a quelle tombe ha un significato politico, perché i Savoia rappresentano ancora un potere, che si contrappone a un altro potere. Che ci fa un poliziotto tra quei volontari? Di chi è servitore, quando incrocia lo sguardo dei turisti accanto alla tomba di Umberto I, ucciso dal compagno Gaetano Bresci nel 1900 a Monza? 










La morte di Bocca, Saviano e lo sciacallo "Repubblica"

Se qualcuno dei camorristi vuole ancora oggi uccidere lo scrittore napoletano Saviano, si tratta di un problema serio: Saviano va protetto dallo Stato, a lui deve andare la solidarietà di tutti e la lotta alla camorra va condotta anche perché nessuno possa, né oggi, né in futuro, minacciare di morte qualcuno solo perché abbia scritto. Saviano deve poter vivere da uomo libero in una società libera.
Se ciò fosse realizzato, potrei forse argomentare con più serenità quello che sto per scrivere e che non posso, nonostante il momento, anzi, proprio per il momento, non dire. Saviano scrittore e il fenomeno Saviano non mi piacciono.
I motivi sono tre: il primo riguarda proprio la lotta alla camorra. Ridurla a Saviano, identificarla con il giovane scrittore napoletano, significa rischiarne il discredito qualora il libro “Gomorra” fosse discreditato o il personaggio Saviano perdesse di veridicità e dunque di stima generale.
Il secondo motivo è più propriamente pertinente al suo mestiere. Non mi piace come scrive e non mi piace il libro “Gomorra”. Non è un romanzo, ma non è neanche un saggio. È un saggio in fiction dove i fatti vengono raccontati per sentito dire o per averli visti di persona. Si ha l’impressione che lo scrittore abbia frequentato gli stessi ambienti dei camorristi, non come un alieno, bensì dal di dentro, pur ovviamente non essendo mai stato un camorrista. Era lì, osservava. Lo conoscevano, lo lasciavano osservare. Poi, ha scritto il libro. Perché dovrei fidarmi? Perché dovrei identificare veridicità e verità? Solo perché si tratta della camorra, che è il male. Non può bastare e a me, che faccio lo storico, non basta. Dunque, “Gomorra” non aggiunge nulla di nuovo a quello che già conoscevo. Lo fa di più una sentenza di un tribunale di Napoli.E, infine, il terzo motivo. Da quando è uscito il libro, Saviano ripete sempre le stesse cose. Da un lato afferma che lo si vuole uccidere non per lo scrittore in sé, ma per il libro, perché la camorra avrebbe paura della pubblicità. Un lettore, afferma in ogni occasione, prende coscienza e se tutti avessero coscienza la camorra non potrebbe più continuare a fare le sue operazione nel silenzio. In tutti questi anni non è mutata la situazione?

E' morto Giorgio Bocca. Cosa c'entra Saviano con Bocca? Nulla. Di lui Bocca aveva detto, nel novembre 2010, "è uno che recita, un bravo attore" e ancora "la mafia è troppo divertente in Gomorra per essere vera".
Un giudizio, come si vede, senza appello.



Eppure, in occasione della morte del grande giornalista, Saviano lo rievoca su "Repubblica", che non perde occasione. Comincia con un colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Bocca che parlano di mafia. Il loro, afferma, era amore per il sud, "da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi."

Dalla Chiesa, il creatore delle Carceri Speciali durante gli anni Settanta e dell'operazione Camoscio, quando centinaia di brigatisti e altri combattenti di sinistra furono deportati dai normali uffici di pena ai "kampi" sulle isole del meridione. Bell'amore per quella terra! La violazione dei più elementari diritti del cittadino, del cittadino più debole di tutti, quello in carcere, e l'inizio della sistematica violenza per sconfiggere la lotta armata. 
Vuole capire, afferma Saviano, ma non comprende la violazione più elementare della dignità umana. Secondini che spezzano ossa, colpiscono a freddo, impongono la loro legge e non quella del diritto. Familiari costretti a giorni di viaggio per visitare i prigionieri, umiliati da sistematiche perquisizioni vaginali e anali, respinti, a volte, per motivi burocratici. Questo è stato Dalla Chiesa. Che poco o nulla aveva da spartire con il partigiano Bocca.
Che poi, Bocca avrebbe insegnato qualcosa a Saviano, ossia a "raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore", lo vorrei proprio vedere. Vorrei conoscere gli orari dei loro incontri, i luoghi, le parole dette e la stima, se c'era, che Bocca dimostrava allo scrittore campano. Ci si paragona, si mette al suo stesso livello, perché qualcuno lo avrebbe accusato, come Bocca, di essere un "rinnegato", un "antimeridionale". Non ricordo, francamente, se non qualche camorrista da quattro soldi. Quelli ricchi, tra l'altro, stanno a Milano. Ieri uno di loro momenti mi investe con una Bently. Sulle strisce, ovviamente. E mi manda anche a cagare. 
Ma torniamo a Bocca. Ha fatto dell'essere "antitaliano", scrive Saviano una virtù. 
Mi ritorna in mente un motivetto: "Io non sento italiano, ma per fortuna o purtroppo, lo sono". Lo metterò in coda al pezzo. Non era di Saviano, né di Bocca, né di Dalla Chiesa, ma di Gaber. Giorgio.
Caro Saviano, non so chi frequenti. Ma qui, non ci sono in giro molti che si arrendono ai luoghi comuni, come tu scrivi. Almeno, io ne conosco pochi. E li evito con molta circospezione. Ma la mia vita è piena di persone che ragionano con la loro testa, e non grazie a te. Forse un po' grazie a Bocca. Ma è qualche goccia in un mare di stimoli e di letture, molte ben più importanti e appassionate. 
Alla fine del suo pezzo, Saviano scopre che a Sud di Roma è difficile ascoltare racconti di partigiani. Direi impossibile. 



Giorgio Gaber
Io non mi sento italiano


Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.

Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.


Mosca 24 dicembre. Putin. Un passato che non passa

Il percorso della manifestazione del 24 dicembre nel centro
di Mosca. Fonte: Polit.ru
La protesta odierna non unisce a Mosca persone legate da una comune matrice ideologica, ma la pretesa che siano rispettati i diritti civili e la dignità umana. Tanto che, si sono detti gli attivisti scesi in piazza, qualsiasi forma di propaganda a favore di un candidato o di un partito avrebbe discreditato la manifestazione. Nessuna differenza, in questo senso, tra il blocco di Javlinskij (Jabloko) e il Partito comunista russo di Zjuganov. E' la seconda vera manifestazione di massa a Mosca. Sono scesi in piazza quelli che in occidente chiamiamo "gli indignati". Ma vale la pena chiarire chi sono: persone che la politica ha ingannato e che con il suo inganno ha costretto a scendere in strada. Con il suo cinismo, la corruzione e il terrore, la politica odierna ha smosso gli animi delle persone normali, che sono scese per difendersi. "Nessuno se ne andrà di qui", è uno degli slogan principali scanditi sul lungo Viale Andrej Sacharov, dove si è svolta la manifestazione. E ancora, questo movimento non ha bisogno, per il momento, di politici di professione o, per meglio dire, di politici navigati. Quello che serve è una lustrazione, nel solco delle proteste dei decenni passati nei regimi comunisti, come Charta 77 in Cecoslovacchia, Solidarnosc in Polonia. Serve un cambio generazionale e sociale al centro della politica russa per impedire che il paese viva ancora per 12 anni in una situazione di soffocamento democratico. La gente non è scesa in piazza a difendere i partiti che comunque siedono in parlamento dopo le elezioni di dicembre. E' scesa per difendere il proprio voto, ogni singolo voto che è stato violato dai brogli. Dunque, la democrazia, nella sua manifestazione più importante. Per fortuna si è consapevoli che la liberazione dal politico di professione non significa automaticamente il raggiungimento della felicità. Tutt'altro. Senza la politica, in Russia come in Italia, non si risolvono i problemi e non si compiono passi in avanti. Ma una piattaforma civile in grado di riunire intellettuali, studiosi, giovani politici, attivisti dei diritti civili e persone comune portate in piazza dalla corruzione sarebbe una solidissima base di partenza. Al di là delle stupidaggini dei giornali sulla figlia dell'ex sindaco di San Pietroburgo, Anatolij Sobchak, Oksana, sguaiata presentatrice televisiva che nulla ha a che vedere con la difesa dei diritti civili, ai quali fino ad oggi non ha mai pensato per un solo attimo. 
Una parte della manifestazione del 24 dicembre a Mosca
Fonte: Repubblica.it



venerdì 23 dicembre 2011

LA VIOLENZA DI SAVIANO

Roberto Saviano
Esiste una barzelletta russa che riguarda i nostri carabinieri. Si presenta uno di loro a un esame di letteratura e premette di essere uno scrittore. L'esaminatore lo loda, poi gli chiede di parlare del contenuto di "Guerra e Pace". Il candidato si rabbuia e offeso risponde: "Non lo conosco, io sono uno scrittore, mica un lettore".

La parabola vale per Saviano. È uno scrittore, mica un lettore! E si vede! Lasciamo da parte le sue invenzioni, già commentate a proposito della Politkovskaja. Il fatto è che quando si toccano con una certa ricorrenza argomenti delicati, come la violenza, si dovrebbero avere spalle larghe formatesi nelle biblioteche. Si dovrebbe aver letto qualche classico, partendo dai greci per poi arrivare ai giorni nostri.
Vabbè, direte, saltiamo i greci che è roba vecchia. Saltiamo anche Cicerone, che è tosto. Anche Machiavelli, che è sempre scivoloso. Marx, per carità, fuori moda. Lenin, peggio, un criminale avanzo di galera che per una serie di coincidenze irripetibili si è ritrovato a cambiare la storia del '900. Lasciamo perdere anche le direzioni strategiche delle BR, che è terrorismo. Ma un essere mite, uno studioso di chiara fama, un nome conosciuto in tutto il mondo e lodato ad ogni latitudine, quel Walter Benjamin di cui muove a compassione il solo sentir pronunciarne il nome (fateci caso come suona dolce: W-a-l-t-e-r B-e-n-j-a-m-i-n), questo grande intellettuale del secolo scorso non merita l'oblio di Saviano (ovvero, non lo meriterebbe se la fama di Saviano corrispondesse alla sostanza).
In "Angelus Novus", saggi e frammenti pubblicati da Einaudi, a cura di Renato Solmi e con un saggio di Fabrizio Desideri (mica Mario Moretti o Barbara Balzerani), il mite Walter ragiona sul "problema della legittimità di certi mezzi, che costituiscono la violenza" (p. 7). E prosegue:

«La distinzione ha luogo fra violenza storicamente riconosciuta (la violenza come potere) e la violenza non sanzionata. Le analisi seguenti muovono da questa distinzione, ciò naturalmente non significa che poteri dati vengano ordinati e valutati secondo che sono sanzionati o no. Poiché in una critica della violenza il criterio del diritto positivo non può trovare la sua semplice applicazione, ma deve piuttosto essere giudicato a sua volta».
Parole pesanti, no? Se il criterio stabilito dal diritto positivo per la legittimità della violenza può essere analizzato solo secondo il suo significato, continua, «la sfera della sua applicazione deve essere criticata secondo il suo valore». 

Per Benjamin, che ne aveva visto di persona l'applicazione «il  militarismo è l'obbligo dell'impegno universale della violenza come mezzo ai fini dello Stato». Urca! «ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto» Urca!!
E, infine: «È in generale possibile il regolamento non violento di conflitti? Senza dubbio. I rapporti fra persone private ne offrono esempi a iosa». Ma «la critica della violenza è la filosofia della sua storia. La filosofia di questa storia, in quanto solo l'idea del suo esito apre una prospettiva critica, separante e decisiva, sui suoi dati temporali. Uno sguardo rivolto al più vicino può permettere tutt'al più un'altalena dialettica tra le forme della violenza che pone e che conserva il diritto. La legge di queste oscillazioni si fonda sul fatto che ogni violenza conservatrice indebolisce, a lungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza creatrice che è rappresentata in essa».
Ecco, in breve sintesi, la complessità di un argomento che Saviano riduce constantemente alla dialettica scrittore-lettore. Facendo a sua volta violenza all'intelligenza di molti. Mi scuserà, Benjamin, se ho osato accostare due nomi così distanti. Anche questa è violenza, con mio grande rammarico.

Spending Rewiew

20 miliardi dopo tre anni di tagli lineari sui ministeri e blocco dei contratti nel pubblico impiego. Nel 2012 arriverà la "spending rewiew", prevista dalla legge di stabilità (la spending rewiew è un limite posto alla spesa pubblica per tenere sotto controllo il deficit). Questo è quanto ci ha regalato il governo della Trilateral di Monti. 20 miliardi per tre anni ogni anno, fanno 60 miliardi di euro, che sommati agli interventi del governo Berlusconi di luglio e agosto arrivano a 76 miliardi. La manovra poggia per due terzi sulle entrate mentre per le spese, come noto, si sono toccate le pensioni. Con il nuovo sistema "contributivo" si arriverà in pensione a 66-67 anni, uomini e donne. Ora ci attende una fase "due", che riguarderà sanità e lavoro. Sulla sanità non sappiamo nulla; si dovrà tagliare ulteriormente, ma non possiamo dire dove e come. Sul lavoro, invece, qualche idea è presente: articolo 18 e mobilità del pubblico impiego. Quello che, tanto per capirci, non era riuscito a fare e non avrebbe mai fatto Berlusconi. Quelli stonati di "odradek" ancora gridano con scandalo contro quelli che: "a ridatece er puzzone": ne abbiamo già parlato e lasciamoli gridare al vento. E' il sistema che sta crollando. Le banche italiane hanno la necessità di ricapitalizzare per 15,3 miliardi di euro - quasi una manovra Monti di un anno. Le greche per 30 miliardi. Le spagnole per 26. Le tedesche, che stanno meglio, per 13,1 miliardi. Ieri il governatore della Banca d'Inghilterra, Mervyn King, ha detto che la situazione del sistema finanziario in Europa è da "allarme rosso". Le condizioni, ha osservato, sono peggiorate rispetto agli ultimi tre mesi, in quanto si sarebbero intensificati i legami negativi tra il debito sovrano (i titoli di stato) e l'incertezza sulla solidità del sistema finanziario, ossia la capacità di pagare.
Per noi, c'è da capire se la manovra Monti darà sviluppo, altrimenti tutto sarà inutile. Alcuni osservatori dicono di sì, altri di no. Per alcuni, in mancanza di uno sviluppo convincente, l'Italia sarà comunque legata all'andamento dei tassi e un loro aumento la metterebbe di nuovo con le spalle al muro. Cosa propongono? Evanescenze: creazione di un fondo chiuso in cui convogliare il patrimonio dello Stato alla dismissione diretta degli asset pubblici, una patrimoniale "robusta" e "che pesi sugli evasori"!, e "forme ingegnose di cartolarizzazione del debito pubblico". Paranoie. O, se si vuole, parole senza contenuto. Le famose cinque "W" mancano. Par altri, lo sviluppo si intravede. Potenziamento del fondo di garanzie per le piccole e medie imprese. l'Introduzione dell'ACE significa un forte incentivo fiscale alla patrimonializzazione delle imprese che serve a rafforzarne la struttura finanziaria. Riequilibrio del carico fiscale, spostandolo da chi produce ricchezza ai patrimoni e ai consumi. Già, i consumi. Già, i patrimoni. Quelli con più di 5000 euro per anno sul conto corrente saranno tassati, gli altri no. Praticamente tutti. Già, la "struttura finanziaria". Perché, mi chiedo, un'azienda grande come la TREVI, che opera in tutto il mondo, ha 5000 impiegati e continua ad assumere, ha visto precipitare le proprie azioni da 13 euro a 5 negli ultimi mesi? Doc'è la proporzione tra il lavoro effettivamente svolto e il suo contrappeso finanziario? Se è la bassa crescita il problema chiave dell'Italia, perché un'azienda in espansione perde in borsa, con tutte le conseguenze negative a livello di finanziamenti bancari ecc.?
Chi decide la politica produttiva di questo paese e quella finanziaria? i mercati, il mercato, uomini di potere che operano tra FMI e TRILATERAL, mostri dalle grandi teste, sempre pronti, che guadagnano nelle crisi e nei momenti di espansione? Ma poi, perché devo identificare il capitale con la vecchia europa? La Cina cresce perché produce merci. E le produrrà sempre meglio e sempre a mercato migliore dei paesi europei. Se qualità e innovazione non sostituiranno le parole sviluppo e finanza, saremo destinati a un lento ma inevitabile tramonto. Un più che meritato riposo, dopo duecento anni guerre e splendori.
















venerdì 16 dicembre 2011

Il terrorista Carlos, la strage di Bologna e le Br




Carlos oggi
Ilich Ramírez Sánchez, noto col nome di Carlos, è stato condannato il 15 dicembre 2011 dalla Corte d'Assise Speciale di Parigi all'ergastolo, (ne sta già scontando uno) come responsabile del gruppo che commise quattro attentati mortali nel paese tra 1982 e 1983. Il tribunale ha anche condannato all'ergastolo due degli altri tre 
imputati, giudicati in contumacia. Si tratta del palestinese Ali Kamal All'Issawi, da una decade irreperibile, del tedesco Johannes Weinrich, che sconta un ergastolo in Germania e della tedesca Christa-Margot Fröhlich, iscritta dalla 
procura di Bologna nel registro degli indagati per la strage alla 
stazione del 2 agosto 1980, che è stata  assolta.
"Questa sentenza è a suo modo epocale, in quanto viene riconosciuto che Carlos e il suo gruppo non esitavano a far saltare treni e stazioni, pur di liberare i loro compagni d'armi." Così commenta "Cielilimpidi" in Italia.

Si tratta, invece, di una sentenza epocale, in quanto scagiona del tutto la Frölich. L'ex brigatista Sandro Padula aveva già scritto un lungo documento nell'aprile 1997 per dimostrare la sua innocenza rispetto all'attentato di rue Marbeuf, unico fatto per cui era imputata in territorio francese, nel vano tentativo di evitare la sua estradizione dall'Italia. "Questa sentenza", commenta oggi lo stesso Padula, "implicitamente sgonfia  la pista palestinese e la recente indagine  sulla Frölich rispetto alla strage di Bologna del 1980".

giovedì 15 dicembre 2011

Nuto Revelli, Giulio Bedeschi e la Storia Orale

Nuto Revelli
Passano le stagioni e cambiano i maestri . Cesare Bermani e Alessandro Portelli sono due nomi sulla bocca di tutta la sinistra radical chic, colti,  librai, editori, che ne hanno fatto i due soli, unici, primi e maggiori storici orali italiani. 


Senza nulla voler loro togliere, l'affermazione va corretta. 

Con il foulard nero Cesare Bermani
Giulio Bedeschi
Nuto Revelli fece della storia orale una missione di vita negli anni Sessanta. Partecipò alla campagna di Russia con l'Armir; rientrato in Italia divenne partigiano. I suoi primi libri raccontano della sua esperienza in Russia durante la ritirata del gennaio 1943. I primi scritti sono autobiografici; quindi il "geometra" Revelli ha cominciato a cercare documenti privati, a intervistare sopravvissuti e familiari dei cosiddetti dispersi, in un lavoro pioneristico; si affermò in Italia all'inizio degli anni Sessanta l'inizio della storia orale. Si è occupato anche dello studio delle condizioni di vita dei contadini poveri del cuneese. Le sue opere più importanti, come L'Ultimo Fronte e La strada del davaj, vengono continuamente editate da Einaudi. Anche con Il mondo dei vinti e L'anello forte, con oltre 270 interviste, Revelli ha dato voce ai "vinti" e a un mondo che l'Italia ha voluto dimenticare in fretta, prima ancora della conclusione della seconda guerra mondiale.


Al contrario di Revelli, democratico e uomo di sinistra, un altro pioniere della storia orale in Italia è un ex fascista e repubblichino, Giulio Bedeschi. Anche lui ha partecipato alla campagna di Russia e dopo il rientro e la seconda parte della guerra nelle file della Repubblica Sociale Italiana, ha scritto Centomila gavette di ghiaccio, pubblicato dopo varie avventure da Mursia, nel 1963, e vincitore del Premio Bancarella l'anno seguente. Nel 1966 uscì il seguito, Il peso dello zaino. Quindi si è dedicato alla raccolta di testimonianze di sopravvissuti dai vari fronti di guerra: "Nikolajewka: c'ero anch'io"; "Fronte greco-albanese: c'ero anch'io"; "Fronte d'Africa: c'ero anch'io"; "Fronte russo: c'ero anch'io"; "Il Corpo d'Armata Alpino sul fronte russo". Ha composto canti alpini entrati nel repertorio nazionale. 

domenica 11 dicembre 2011

il prof. De Tormentis e la tortura in Italia


Riprendo dal   blog di BARUDA  e pubblico qui un articolo di Paolo Persichetti uscito su Liberazione dell'11 dicembre 2011


Nei primi anni 80 per contrastare la lotta armata oltre alle leggi d’emergenza, alla giustizia d’eccezione e alle carceri speciali, lo Stato fece ricorso anche alle torture

Paolo Persichetti
Liberazione 11 dicembre 2011

«Professor De Tormentis», era chiamato così il funzionario dell’Ucigos (l’attuale Polizia di prevenzione) che a capo di una speciale squadretta addetta alle sevizie, in particolare alla tecnica del waterboarding (soffocamento con acqua e sale), tra la fine degli anni ‘70 e i primissimi anni ’80 si muoveva tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni  ai militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse.
Di lui, e del suo violento trattamento riservato agli arrestati durante gli interrogatori di polizia, parla diffusamente Nicola Rao in un libro recentemente pubblicato per Sperling&Kupfer, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata. Rivelazioni che portano un colpo decisivo alla tesi, diffusa da magistrati come Caselli e Spataro (recentemente anche Turone) che vorrebbe la lotta armata sconfitta con le sole armi dello stato di diritto e della costituzione. In realtà alle leggi d’emergenza, alla giustizia d’eccezione e alle carceri speciali, si accompagnò anche il più classico degli strumenti tipici di uno stato di polizia: la tortura. Il velo su queste violenze si era già squarciato nel 2007, quando Salvatore Genova, uno dei protagonisti dell’antiterrorismo dei primi anni ’80, coinvolto nell’inchiesta contro le sevizie praticate ai brigatisti che avevano sequestrato il generale Dozier, cominciò a testimoniare quanto aveva visto: «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – dichiara a Matteo Indice sul Secolo XIX del 17 giugno – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». Per poi denunciare che «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, se stiamo collaborando?”». Come sempre le donne subirono le sevizie più sadiche, di tipo sessuale.
Genova si salvò grazie all’immunità parlamentare intervenuta con l’elezione in parlamento come indipendente nelle liste del Psdi del piduista Pietro Longo (numero di tessera 2223). In quell’intervista Genova si libera la coscienza: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta di torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma il 3 gennaio 1982) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi». Ma quando il giornalista Piervittorio Buffa raccontò sull’Espresso del marzo 1982 quella mattanza, “informato” dal capitano di Ps Ambrosini (che vide la porta di casa bruciata da altri poliziotti), venne arrestato per tutelare il segreto su quelle pratiche decise ad alto livello.
Chiamato in causa, una settimana dopo anche il «professor De Tormentis» fece sentire la sua voce. Il 24 giugno davanti allo stesso giornalista disseminava indizi sulla sua reale identità, quasi fosse mosso dall’inconscia volontà di venire definitivamente allo scoperto e raccontare la sua versione dei fatti su quella pagina della storia italiana rimasta in ombra, l’unica – diversamente da quanto pensa la folta schiera di dietrologi che si esercita da decenni senza successo sull’argomento – ad essere ancora carica di verità indicibili. De Tormentis non si risparmia ed ammette “i metodi forti”: «Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti». La struttura – rivela a Nicola Rao il maestro dell’annegamento simulato – è intervenuta una prima volta nel maggio 1978 contro il tipografo delle Br, Enrico Triaca. Ma dopo la denuncia del “trattamento” da parte di Triaca la squadretta venne messa in sonno perché – gli spiegarono – non si potevano ripetere, a breve distanza, trattamenti su diverse persone: «se c’è solo uno ad accusarci, lascia il tempo che trova, ma se sono diversi, è più complicato negare e difenderci». All’inizio del 1982 venne richiamato in servizio. Più che un racconto quella di “De Tormentis” appare una vera e propria rivendicazione senza rimorsi: «io ero un duro che insegnava ai sottoposti lealtà e inorridiva per la corruzione», afferma presagendo i tempi del populismo giustizialista. «Occorreva ristabilire una forma di “auctoritas”, con ogni metodo. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto».
Oggi l’identità di “De Tormentis” è un segreto di Pulcinella. Lui stesso ha raccontato di aver prestato servizio in polizia per quasi tre decenni, uscendone con il grado di questore per poi esercitare la professione di avvocato. Accanto al questore Mangano partecipò alla cattura di Luciano Liggio; poi in servizio a Napoli sia alla squadra mobile che all’ispettorato antiterrorismo creato da Emilio Santillo (sul sito della Fondazione Cipriani sono indicate alcune sue informative del periodo 1976-77, inerenti a notizie raccolte tramite un informatore infiltrato in carcere), per approdare dopo lo scioglimento dei nuclei antiterrorismo all’Ucigos dove ha coordinato i blitz più «riservati».
De Tormentis riferisce anche di essere raffigurato in una delle foto simbolo scattate in via Caetani, tra gli investigatori vicini alla Renault 4 dove si trovava il corpo senza vita di Moro. In rete c’è traccia di un suo articolo scritto nel gennaio 2001, su un mensile massonico, nel quale esalta le tesi del giurista fascista Giorgio Del Vecchio, elogiando lo Stato etico («il diritto è il concentrato storico della morale»), e rivendica per la polizia i «poteri di fermo, interrogatorio e autonomia investigativa». Nel 2004 ha avuto rapporti con Fiamma Tricolore di cui è stato commissario per la federazione provinciale di Napoli e, dulcis in fundo, ha partecipato come legale di un funzionario di polizia, tra l’86-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”. Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del 
potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al giudiziario, che solo in uno stato di eccezione giudiziario, come quello italiano, si è arrivati a consentire.

Forse è venuto il momento per questo ex funzionario, iscritto dal 1984 all’albo degli avvocati napoletani (nel suo profilo si descrive «già questore, penalista, cassazionista, esperto in investigazioni  nazionali e internazionali su criminalità organizzata, politica e comune, sequestri di persona»), di fare l’ultimo passo alla luce del sole. Sul piano penale “De Tormentis” sa che non ha da temere più nulla. I gravi reati commessi sono tutti prescritti (ricordiamo che nel codice italiano manca quello di tortura).
L’ex questore, oggi settantasettenne, ha un obbligo morale verso la società italiana, un dovere di verità sui metodi impiegati in quegli anni. Deve qualcosa anche ai torturati, alcuni dei quali dopo 30 anni sono ancora in carcere ed a Triaca, che subì la beffa di una condanna per calunnia. Restano da sapere ancora molte altre cose: quale fu l’esatta linea di comando? Come l’ordine sia passato dal livello politico a quello sottostante, in che termini sia stato impartito. Con quali garanzie lo si è visto: impunità flagrante. Venne pizzicata solo una squadretta di Nocs capeggiata da Genova. Condannati in primo grado ma prosciolti in seguito. Di loro, racconta compiaciuto “De Tormentis”: «vollero strafare, tentarono di imitare i miei metodi senza essere sufficientemente addestrati e così si fecero beccare». All’epoca Amnesty censì 30 casi nei primi tre mesi dell’82; il ministro dell’Interno Rognoni ne riconobbe 12 davanti al parlamento, ma il fenomeno fu molto più esteso (cf. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998). La tortura, scriveva Sartre: «Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, può definirsi un’istituzione semiclandestina».
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In memoria di Pasquale Faiella


Pasquale Faiella
E' morto la scorsa notte a Milano, all'eta' di 50 anni, il collega dell'ANSA, Pasquale Faiella. Era nato a Napoli il 20 marzo 1961. Cronista di razza, aveva cominciato la carriera a Napoli nel quotidiano 'Roma' prima di entrare all'Ansa nella sede della Campania dove per oltre dieci anni ha seguito i principali fatti di cronaca nera e giudiziaria.
Successivamente e' stato chiamato alla sede centrale di Roma dove gli e' stato affidato il delicato incarico di seguire l'attivita' di Palazzo di Giustizia. La sua professionalita', il senso del dovere ed il rigore che poneva nel lavoro, lo hanno fatto apprezzare dalle fonti e dai colleghi.
Da circa un anno e mezzo aveva chiesto ed ottenuto il trasferimento nella sede milanese dell'Ansa dove in breve ha conquistato la stima e la simpatia dei colleghi e di quanti ha frequentato nell'attività quotidiana. Lascia la sua compagna, la collega del Corriere della Sera, Cristina Marrone, e il figlio Lorenzo di poco piu' di un anno.
così l'Ansa ha dato la notizia sul suo sito.
Pasquale, per chi l'ha conosciuto ed amato, era un uomo speciale, buono, con un senso del dovere morale, della dignità e del pudore che sono oggi cose rare nel mondo, spesso, sguaiato e volgare nel quale viviamo.
Perdiamo un caro amico e ci lascerà un vuoto che nulla sarà in grado di colmare. Ho visto troppa gente morire e so che è così. Nessun uomo è un'isola; ogni mancanza fa avanzare l'acqua e tu hai solo un retino in mano. Che il tempo ti aiuterà a capire quanto è inutile. 

sabato 10 dicembre 2011

Elezioni in Russia, Il Partito Comunista e Memorial


La sede del parlamento russo, bombardata nel settembre
1992 dalle forze militari fedeli all'allora presidente Boris
Eltsin
Le elezioni per la Duma di Stato che si sono appena svolte in Russia hanno dimostrato che il partito del presidente, Russia Unita, è in caduta libera. Da quando Putin, nell'ottobre scorso, ha annunciato che si sarebbe candidato per le elezioni presidenziali del marzo 2012, ha perso quasi il 20% dei consensi. Perché Putin è già stato presidente per otto anni e con la modifica della costituzione, potrebbe esserlo per altri 12. La Russia però, vuole guardare avanti. Putin rappresenta, a modo suo, il passato; un modo di fare politica che non ha più il fascino della novità, il carisma dell'uomo forte, la legittima voglia di superare l'era eltsiniana, fatta di corruzione e grave danno per la statura internazionale del paese. E' vero, in questi giorni si sono riviste insieme le bandiere sovietiche e dell'impero zarista marciare insieme intorno al Cremlino con l'opposizione unita che chiedeva di ripetere le elezioni, a suo dire falsificate nel risultato; però sono una minoranza. La maggioranza è fatta di giovani che vogliono un paese in cui il parlamento funzioni come garanzia democratica e il presidente non sia il doppione di se stesso. Altri dodici anni di Putin la Russia non potrà reggerli. Il 10 dicembre, intanto, la maggiore ONG Russa, più volte candidata al premio Nobel per la Pace e già vincitrice del Premio Sacharov del Parlamento Europeo, Memorial, ha diffuso questa nota, che riportiamo: 
"La Società Memorial di San Pietroburgo ritiene che le elezioni per la Duma di Stato della Repubblica Federale Russa e quelle per il Parlamento Federale di San Pietroburgo, che si sono svolte il 4 dicembre 2011, sono state falsificate e che quindi il loro risultato non sia legittimo. Inoltre, ritiene che siano state compiute delle violazioni dal profilo penale nei confronti di persone trattenute dalla polizia mentre manifestavano pacificamente il proprio disaccordo con la gestione delle elezioni da parte della Commissione elettorale centrale. Chiede che vengano rilasciati tutti i cittadini trattenuti illegalmente e che siano denunciati i responsabili di tale attività. Chiede che vengano immediatamente indette nuove 
elezioni gestite da nuove Commissioni elettorali, a tutti i libelli. Chiede il pieno controllo dello 
svolgimento delle elezioni da parte dei cittadini durante tutte le tappe, dalla campagna elettorale agli 
scrutini finali" 
Secondo dati non ufficiali, il primo partito in Russia oggi sarebbe il partito comunista, con più del 24% dei voti. Il partito del presidente, Russia Unita, non supererebbe il 20%. Ricordiamo che già nel 1996 le elezioni per la presidenza della repubblica furono vinte dal candidato comunista Zjuganov, ma il risultato fu alterato e diede nuovamente la vittoria a Eltsin.