La missione militare italiana
Accanto alla diplomazia italiana, i membri della missione militare guidata dal generale Giovanni Longhena Romei svolsero un ruolo non secondario, distinguendosi per una certa capacità analitica e una professionalità che, salvo rare eccezioni, consentì loro di limitare l’osservazione quasi asettica alla sola evoluzione degli avvenimenti, senza nulla aggiungere di quanto, se non dimostrabile, avrebbe potuto insinuare la sostanza delle loro parole.
Romei, che si trovava a Stavka, sede dello Stato maggiore dell’esercito russo fedele al governo provvisorio, fu informato del rivolgimento dal capitano Laderghi Ruggeri, presente nella capitale; era il 6 novembre quando questi gli comunicò l’inizio del movimento massimalista e il prossimo arresto dei membri del governo provvisorio. Il 7 parlò dell’occupazione di alcune stazioni ferroviarie e delle banche e anche di «pochi torbidi», quindi di «barricate e fucilate». Le truppe bolsceviche «hanno occupato e presidiano centro della vita. Loro automitragliatrici blindate percorrono le vie della città. Deboli tentativi di resistenza». Anzi, «situazione resa più angosciosa e ne accresce l’importanza il fatto che con sopraggiunti elementi massimalisti operano oltre elementi tedeschi anche elementi monarchici russi e reazionari». Il 10 novembre Ruggeri telegrafò al superiore l’avvenuta conquista della capitale: «massimalisti sono padroni tutti centri di vita. Qualche fucilata ed esplosione di panico», quindi il giorno dopo lo ragguagliò degli ulteriori sviluppi: «Non circolano che proclami del partito massimalista. Riesce pertanto difficile rendersi contro della situazione analoga a quella d’una città assediata. Tuttavia partito massimalista si rivela incapace mantenere potere e troppo debole per opporre resistenza a truppe del governo se queste agiranno. Tutta opinione pubblica si mostra contraria ai massimalisti [...]. Alcuni reparti che erano massimalisti hanno dichiarato che aderivano a movimento delle truppe del governo [...]. Corre voce che direzione massimalista tra cui Lenin e Trockij tentino fuggire [...]. Nei sobborghi combattimenti fomentati da operai e da teppisti». Poi, il 12, in modo enfatico: «In città panico e disordini causati da teppisti. Le vie d’accesso a Pietrogrado sono presidiate da truppe massimaliste [...] decisi di battersi sino la raggiungimento del loro scopo». Il 13 si parla ancora di lievi disordini causati da «teppisti», mentre «le banche, i telefoni e altri importanti centri della vita pubblica hanno cessato di funzionare». Ruggeri comunica l’imminente arrivo di forze governative, ma ne ignora la consistenza, mentre il 14 registrò la «paralisi quali completa della vita pubblica». Costretto per motivi burocratici a recarsi allo Smol’nyj, cautelativamente in borghese, raccolse in quei giorni anche alcune informazioni dirette sulle intenzioni dei bolscevichi, che sembravano desiderare una pace separata e speravano che il loro «trionfo possa agevolare causa del proletariato contro capitalismo in Germania et Austria». Se dopo più di una settimana sembrava essersi stabilizzata solo l’incertezza («situazione generale invariata. Massimalisti tengono città in loro potere malgrado ostilità maggioranza popolazione e agitazioni alcuni comitati tra cui attivissima la Duma cittadina», scriveva Ruggeri), la necessità di continuare in qualche modo il lavoro e la comunicazione con i comandi supremi costrinse i rappresentanti delle missioni militari alleate a riunirsi il 16 novembre a Pietrogrado per trovare il modo di entrare in «relazione con partito massimalista perché questo permetta senza diritto veto e senza controllo scambi telegrammi delle missioni militari e dello stato maggiore russo tra Stavka e Pietrogrado et estero».
Le prime difficoltà
Pirone, con i militari italiani, fu tra i pochi a comprendere che i bolscevichi costituissero già dai primi giorni di novembre «l’unico gruppo di gente mossa da un ideale concreto da raggiungere, al quale erano riusciti a far aderire quanti si poteva della pesante, inerte massa dei soldati e dei contadini». Fin dal principio «vi fu chi altezzosamente manifestava per essi il disprezzo che i russi sentono per gli ebrei, ed ebrei erano quasi tutti i capi del colpo bolscevico [...]. E non si pensava che questi ebrei erano audacissimi; che da circa un anno lavoravano per impadronirsi del potere; che presolo, mostrarono immediatamente una volontà ferrea, ed una energia di cui da tempo non si aveva esempio». La mattina dell’8 novembre era possibile vedere nel centro di Pietrogrado i segni della violenza: «gli edifizi pubblici, il Palazzo imperiale in particolare modo, avevano i vetri infranti, le facciate crivellate di colpi: per le strade, sui marciapiedi, lungo le case, macchie e grumi di sangue congelato [...]. La città pareva morta; chiusi i magazzini, le vie deserte: s’incontravano solo gruppi, o pattuglie di marinai armati, qualcuno ancora ubriaco o ferito, i quali sui ponti, o ai crocicchi delle strade principali, fermavano i passanti, per domandare loro i documenti, perquisirli, arrestare i sospetti».
I bolscevichi manifestarono nei giorni immediatamente successivi al rivolgimento del 7 novembre una particolare insofferenza nei confronti degli stranieri, indistintamente dalla loro nazionalità, che venivano fermati con ogni pretesto, condotti presso la sede dei Soviet e rilasciati dopo l’interessamento della relativa ambasciata; la dinamica veniva usata dagli estremisti per essere avvicinati dai rappresentanti delle Potenze europee che si erano rifiutate di riconoscere il loro governo e Pirone fu costretto a recarsi ripetutamente allo Smol’nyj per parlamentare la liberazione di alcuni connazionali, non mancando in ogni circostanza di marcare la propria attitudine verso gli ebrei. «Com’era cambiato» afferma Pirone dello Smol’nyj; «Nell’ampio e solitario cortile non più l’aria di pace e tranquillità dei giorni antichi; ma cannoni e mitragliatrici. Nel porticato, qualche cosa fra la caserma ed il bivacco, un’aria greve e triste; marinai e soldati armati, la più parte facce da criminali [...]. In un angolo un tavolino; seduta ad esso un’ebrea [...] verificava i documenti di coloro che avevano bisogno di penetrare in quella bolgia». La prima volta che si incontrò con M. C. Urickij, vice di Trockij e futuro capo della VČK (meglio nota come Čeka), lo descrisse come un uomo «piccolo, deforme, lo sguardo duro e maligno, i lineamenti e il parlare tipico degli ebrei di bassa provenienza, con un’aria tra sprezzante ed ironica». Dopo qualche settimana conobbe Trockij, sempre allo Smol’nyj e ancora in occasione di una protesta ufficiale a seguito di un saccheggio perpetrato nei confronti della casa di un segretario dell’Ambasciata italiana. Il capo bolscevico lo accolse «con una certa garbatezza, pur conservando una fisionomia tra accigliata e contratta, che metteva in maggior rilievo i tratti della stirpe. Urickij, con la sua improntitudine, aveva finito per mettermi di buon umore; Trockij mi ispirò una istantanea ripugnanza [...]. I suoi occhi neri, piccoli, mobili, che non fissavano, sfuggivano anzi il mio sguardo; l’accenno di sorriso tra ironico e maligno, che errava sulle sue labbra, quando parlava ed accentuava la durezza della sua fisionomia, mi parvero in tale contraddizione con quel che diceva, che mi affrettai a porre termine alla visita». Centro temporaneo della vita politica della Russia, lo Smol’nyj fu visitato in quei giorni anche da Taliani, per ricevere dalle autorità bolsceviche il permesso di condurre l’auto in città: «Facce sulla porta. Uomini di mezza età dalle lunghe barbe, facchini mongoli, rivenduglioli ebrei, donne discinte che si agitano chiamandosi con un urlo».
Sinossi del clima che in quel periodo si respirava un po’ ovunque in Europa, a prescindere dalla longitudine o dalla nazionalità di chi scriveva, simili giudizi razziali apparvero in quei giorni in Italia con una certa enfasi sulle colonne de «il Popolo d’Italia». L’11 novembre 1917 Mussolini si esprimeva nei confronti dei fatti appena accaduti: «A Pietrogrado è tornato Lenin, o altrimenti detto Uljanov o, col vero nome di battesimo e di razza, Ceorbaum. Colla odierna rivolta dei massimalisti la Germania ha conquistato senza colpo ferire Pietrogrado. Gli altri tre signori che compongono la tetrarchia bolscevica hanno questi nomi: Apfelbaum, Rosenfeld, Bronstein. Siamo, come ognuno vede, in piena, autentica tedescheria [...]. L’avvento al potere degli estremisti russi può significare la pace separata. In fondo questa pace separata è ormai un fatto compiuto, dal momento che i soldati russi invece di battersi tengono dei comizi o fraternizzano coi tedeschi [...] non v’è dubbio che il movimento massimalista a Pietrogrado è ispirato, sovvenzionato, armato dalla Germania. Non v’è dubbio che la Germania difenderà con tutti i mezzi il colpo di stato di Lenin». Il 3 dicembre 1917 così parlò di Nikolaj Vasil'evič Krylenko, da poco diventato commissario della guerra e chiamato il napoleone della viltà: «Meravigliosa carriera quella dell’aspirante Krylenco. Un momento. È venuto fuori anche il vero nome di costui. Ci aspettavamo di sapere che si chiamasse Schoenberg o Zimmermann. Invece si chiama Abram. Altro impasto di lettere che puzza di tedesco e di sinagoga». Il giorno dopo fu di nuovo la volta di Lenin: «Il governo di Lenin è tedesco. Bisogna sempre ricordare che Uljanov è tornato in Russia attraverso la Germania. La Germania conclude in realtà un armistizio con se stessa, in quanto che il Governo di Pietrogrado è creatura della Germania».
Se il ruolo della Germania e il “colpo di mano ebraico” sembrano costituire il filo conduttore di una certa interpretazione che andava per la maggiore tra gli osservatori occidentali sulla situazione russa, la diplomazia ufficiale si consumava in una dicotomia che presto l’avrebbe condotta verso l’impasse. Impegnati a cercare di comprendere le future intenzioni dei bolscevichi, i governanti dell’Intesa cullarono a lungo la speranza che il nuovo potere fosse solo una parentesi temporanea e persero l’occasione di incidere sulla sua politica, nella convinzione di poter convincere comunque la Russia a mantenere in vita il fronte orientale con la Germania. La guerra e la sua continuazione, anzi, divennero presto l’argomento fondamentale attorno al quale ruotarono le decisioni riguardo all’atteggiamento da mantenere di fronte ai bolscevichi e per questo motivo fu convocato a Parigi per la fine di novembre 1917 un vertice dei capi di stato alleati dove, lo si vedrà, le decisioni prese segnarono una svolta negativa nei loro rapporti con il governo di Pietrogrado.