venerdì 5 giugno 2020

PINO CASAMASSIMA SU CASAPOUND

Il rosso non è il nero, lo sgombero di CasaPound sia solo un inizio

Dalla caduta del Muro in avanti s’è andata espandendo una pandemia revisionista dal respiro corto – che tende a dare dignità politica ai neofascisti – il cui contagio non ha risparmiato nemmeno certe intelligenze della sinistra italiana
«Ora però tocca ai compagni» titola il Giornale coerentemente con le dolorose righe di Libero, che lamenta la disparità di trattamento riservata ai centri sociali. Dolori provocati dal provvedimento di sgombero per la sede romana di CasaPound, cioè dei «fascisti del terzo millennio» come loro stessi si qualificano. Dei dettagli sono piene le cronache e qui ci limitiamo al minimo per ragionare d’altro. «A conclusione di una indagine condotta dalla Digos della Questura di Roma – batteva una agenzia della Adnkronos della mattina di giovedì 4 giugno – la Procura della Repubblica capitolina ha chiesto e ottenuto dal gip un sequestro preventivo, con riferimento al reato di occupazione abusiva, dell’immobile in via Napoleone III, sede di CasaPound». I suoi dirigenti sono inoltre indagati per istigazione all’odio razziale e occupazione abusiva di immobile. A latere, ma non troppo, la Corte dei Conti chiede un risarcimento di 4.6 milioni di euro per omessa disponibilità del bene immobile e la mancata riscossione dei canoni da parte del Demanio. La promessa dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini di far sgomberare «tutti gli stabili occupati di Roma» ha infine trovato applicazione – ovviamente – non sotto il suo regno, ché qualche tartaruga aveva nel frattempo ricordato al papetiano che in quei «tutti» ci sarebbe stato anche lo stabile «storico» di via Napoleone III, ma sotto quello di Virginia Raggi, che un anno fa, per portarsi avanti col lavoro, fece rimuovere la scritta CasaPound dallo stabile nero. Un provvedimento, quello del Gip, che ha scatenato un putiferio dai caratteri però surreali alla luce di quella Costituzione secondo cui «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Pare chiaro, no? No.
Le gazzette di destra mettono infatti sullo stesso piano organizzazioni neofasciste e centri sociali. Eppure, la Costituzione vieta la riformazione del partito fascista, non demonizza opposti speculari. Esempio: quando il calciatore Lucarelli esultava col pungo chiuso non rischiava di commettere un reato diversamente da Di Canio col saluto romano (in base non alla Costituzione, questa volta, ma alla Legge Scelba, che considera reato anche il solo parlare del fascismo e/o dei suoi esponenti in termini positivi ). Ora, delle due l’una: o cambiamo la Costituzione o dichiariamo – coerentemente – fuori legge (nel senso di banditi, proprio) quei partiti/movimenti/organizzazioni/formazioni che si richiamano al fascismo. Per coerenza – nel caso in cui si modificasse la Costituzione togliendo quella sua «fastidiosa» cifra antifascista – andrebbero azzerate le leggi Scelba e Fiano.
Negli anni sessanta avevano una certa fortuna «telefilm» della serie «Ai confini della realtà». Serie che riavrebbe successo se riproposta ispirandosi a quanto succede a volte in questo – strano – paese in cui si promulgano le Costituzioni fra le più belle del mondo e leggi contro il fascismo, l’odio razziale, la discriminazione, e poi ci si infila in dibattiti surreali relativamente alla loro applicazione. Stando quindi alla Costituzione e alle leggi in vigore, organizzazioni – orgogliosamente – fasciste quali CasaPound, non hanno possibilità d’esistenza, al pari di tutte le altre nei cui petti battono cuori repubblichini non repubblicani: dal Fronte Nazionale a quella Forza Nuova cui diversi dispiaceri ha recentemente dato la trasmissione di Rai 3 Report con una inchiesta sui finanziamenti e i collegamenti politici internazionali. In coda, ma ugualmente meritorie di un ban sociale oltre che una dannazione politica, altre formazioni, come il Movimento Fascismo e Libertà (che ossimoro!), e quei Fasci italiani del Lavoro capaci di esprimere nel 2017 una consigliera comunale a Sermide e Felonica, paese della bassa mantovana: tale Negrini Fiamma (quando si dice il nome…), poi destituita dal Tar di Brescia per appartenenza a un movimento di palese ispirazione fascista. Le summenzionate grida di dolore pro CasaPound non meravigliano se arrivano da ambienti con loro compiacenti (anche perché CasaPound significa un serbatoio di voti non trascurabile), meravigliano invece assai quando alte, sonanti (e fastidiose) arrivano da quelle gole che hanno – da tempo – ingoiato e poi espulso ogni residuo ideologico, ché il termine stesso ormai (ideologico) li manda in crisi respiratoria.
Dalla caduta del Muro in avanti s’è andata infatti espandendo una pandemia revisionista dal respiro corto, il cui contagio non ha risparmiato nemmeno certe intelligenze della sinistra italiana. E se non c’è da meravigliarsi se a sostenere le ragioni delle tartarughe nere è un filosofino pret-a-porter da tv talk col ditino similislamista sempre alzato, visto che, non casualmente, scrive per Il Primato Nazionale, il quotidiano sovranista di CasaPound, petulando senza vergogna la bestemmia del marxismo sovranista, si resta perlomeno perplessi di fronte alle levate di scudi da parte di chi un tempo raccomandava un «antifascismo militante» unitamente a una perenne «vigilanza». C’è da chiedersi insomma cosa significhino ormai queste parole, ché, in buona sostanza, sono state dismesse, mentre quella «appartenenza» che faceva (e per me continua a fare) da spartiacque fra un pensiero e un altro, una cultura e un’altra, una politica e un’altra, è stata infiltrata da pensieri che confliggono col «pensiero partigiano» di Gramsci. (E sarebbe legittimo se ci fosse l’onestà di dichiarasi da esso ormai lontani). Ideologia è diventata anche per costoro blasfemìa. E demonizzati sono i sostenitori della persistenza della «ideologia», che però non è una brutta parola (per conseguenti brutte azioni) ma il termine col quale prima il filosofo Destutt de Tracy indicava l’antimetafisica della coscienza, e poi Marx l’insieme delle convinzioni d’ordine confessionale, politiche, morali espresse nella Storia dalle diverse classi sociali. Orbene, «l’ideologia» cui ci sentiamo di appartenere contrasta in modo speculare con quella che pervade il pensiero delle tartarughe destinatarie di quel provvedimento di sgombero che tanto clamore ha suscitato anche fra molti dei suddetti «ex».
LETTERA AL DIRETTORE

Negli ultimi tempi all'università della Calabria si leggono interventi che chiedono la riapertura prima dela fine della pandemia. Noi la pensiamo diversamente, e lo abbiamo manifestato con questa lettera al direttore che voglio condividere.





Caro direttore

 
negli ultimi tempi registro un interessante pressing da parte di alcuni esponenti del dipartimento che lei dirige, finalizzati a dare una scossa (così almeno mi permetto di interpretare questa attività), per sensibilizzare a rientrare al più presto dentro le aule della nostra università. 
Credo che si tratti di un atteggiamento errato nei modi e nei tempi, e soprattutto sbagliato da un punto di vista sanitario.

Cercherò di analizzare punto per punto, chiarendo che direi le stesse cose se abitassi a Cosenza e che avrei preferito correre a piedi i mille chilometri che mi separano da Rende anziché vivere quello che stiamo vivendo.

Quello che il mondo sta passando non accadeva dal 1920. Siamo nel mezzo di una pandemia provocata da un virus aviario che, a differenza dei precedenti SARS e MERS, si diffonde anche per mezzo di persone asintomatiche. Per questa sua capacità, il SarsCov2 provoca epidemie locali che crescono in modo esponenziale. L’Italia è stata tra i paesi più colpiti, e per numero di morti si trova ai primi posti della graduatoria mondiale. In questo momento il virus, che probabilmente si comporta in modo stagionale, sta colpendo paesi come il Brasile e il Perù, oltre a non essere ancora sotto controllo né in Russia, né negli Stati Uniti, né mi sembra nella Svezia del tutto aperto (o quasi). Mentre diminuiscono i casi da noi, aumentano altrove e la media giornaliera di nuovi casi nel mondo si attesta da tempo intorno ai 115.000, con circa 5000 decessi. 

Non è finito niente. Le epidemie locali sono violente e non abbiamo ancora una difesa: non abbiamo un farmaco, non possediamo un vaccino, ossia non abbiamo né una cura, né una prevenzione. In realtà, non sappiamo neanche quanti siano veramente i casi cosiddetti “asintomatici” e quindi non possiamo fare alcun ragionamento su eventuali immunità di gregge. 

Questo non significa che necessariamente ci sarà una seconda ondata in Italia. Potrebbe non esserci e tutti speriamo che non ci sia. Ma non significa neanche che si possa abbassare la guardia. Come ha scritto il prof. Giraudi, perché una pandemia sia dichiarata ufficialmente cessata, serve almeno una di queste due condizioni: nessun caso per tre cicli di quarantena, quindi nel nostro caso 42 giorni, oppure la trasformazione del virus in un virus buono, capace di convivere con il nostro organismo senza uccidere o provocare danni pesanti. Al momento non si registra nessuna di queste due condizioni. 

Questo significa che non possiamo riprendere la nostra normale vita (non mi interessa qui il discorso se la vita normale sia meglio o peggio e di quale normalità si parli). 

Leggo in una di queste interviste che sembra paradossale si possa andare al supermercato o prendere un treno, andare al ristorante o in palestra, e non si possa frequentare l’università (questo è virgolettato. Certo, lo dico sottovoce, io avrei preso le distanze, certo, non avrei condiviso, ma è tutto un altro discorso, me ne rendo conto). Ecco, in realtà le cose non stanno così. Non si può andare al supermercato se non si ha una mascherina e non si indossano i guanti, non si può andare in palestra senza prenotazione, non si può entrare in un ristorante se non distanziati, con menù elettronici, lasciando nome e numero di telefono al ristoratore che deve conservarlo per due settimane. Per prendere un treno viene controllata la temperatura, si deve indossare una mascherina, meglio se una FFP2 e non si può stare seduti accanto a un altro passeggero. Nulla è normale. Qualsiasi attività si svolga, la si svolge in un modo completamente nuovo e così sarà fino a quando non si verifichi almeno una delle condizioni che menzionavo sopra. Non si possono neanche abbracciare i nonni, perché sono considerati, giustamente, persone a rischio e i nipoti, specialmente se piccoli, possibili vettori del virus. 
Allora, tutto questo mi fa pensare che prima del diritto allo studio (che non voglio certo ignorare e dirò subito come) qui si debba parlare di diritto alla salute e di diritto a non uccidere, a non mettere in pericolo la vita di altre persone, sconosciute o parte della propria famiglia. È quello che abbiamo fatto restando a casa, o andando in prima linea ad aiutare, opponendo i nostri corpi sani per mantenerne altri sani e permettere che quelli malati fossero curati al meglio. E siccome basta un caso fuori controllo che in pochissimi giorni parta l’esponenziale, non possiamo permetterci più di sbagliare. Lo abbiamo già fatto una volta, può bastare. 

Il fatto che noi si sia studiosi, si sia scienziati, ci impone, a mio umile parere, di pensare che forse le nostre personali aspirazioni accademiche, i nostri luoghi di modestissimo personale poterucolo che gestiamo da un qualche decennio, dovrebbero essere messi momentaneamente da parte fino a quando non passi la notte, proprio come estremo atto di responsabilità che garantisca la salute di tutti. 

E veniamo al diritto allo studio. Non voglio parlare della mia personale esperienza, perché è stata splendida e vi potrei solo dire di aver avuto studenti meravigliosi. Voglio dire, più in generale, che grazie ai mezzi che avevamo a disposizione da anni, siamo stati in grado di garantire in sicurezza una didattica di qualità a tutti i nostri studenti. E sottolineo, in sicurezza, perché non ci può essere sicurezza, oggi, in una didattica in presenza con persone costrette a viaggiare tra regioni o nella regione in quanto, come detto, il virus circola ancora. Quindi nessuno può dire in alcun modo, frasi di questo tipo: “Le soluzioni di ripristino della didattica in presenza in condizioni di sicurezza, tutto sommato, non sembrano impossibili da ricercare e da organizzare […]” (mi scuso in anticipo se cito male).

La verità è che sono proprio impossibili. Chi ha scritto o scriverà che non lo siano, chiedo, è in grado di garantire al 100% che non ci sarà mai un positivo dentro l’Unical fino alla fine della pandemia? Non credo proprio. 

Non è una questione di aule o di sanificazione. Sanificare un ambiente (uno, ma qui si parla di decine o centinaia) comporta spese e tempi che non sono sostenibili con le esigenze di didattica. Insegnare di domenica, poi, mi sembra bizzarro due volte. Una, perché è di domenica e la domenica, ora che le chiese sono riaperte e i parchi pure, la si dedica o al Signore o alla famiglia; la seconda, perché significa ammettere che siamo in emergenza, e lo siamo; ma allora, se siamo in emergenza, si dovrebbero usare soluzioni più alla portata e più semplici, che ci permettano di limitare le conseguenze negative dell’emergenza. E la soluzione esiste; è la tecnologia che ci permette di organizzare una classe virtuale in orari canonici e collegarsi, facendo lezione normalmente, operando sullo schermo con filmati o fotografie, interagendo in diretta con ogni studente, stimolandolo a seguire, a intervenire, a dire la sua e a fare domande, potendo insieme guardare sulla rete qualcosa che magari in quel momento sfugge alla docente. Certo, il docente deve lavorare di più, è indubbio. Ha necessità di preparare lezioni di un altro livello rispetto al passato, lezioni diverse, più complesse, per renderle più chiare agli studenti. Ma la cosa positiva è duplice. Si garantisce il diritto allo studio e ciò non è per sempre, ma solo fino alla fine dell’emergenza. 
Certo, se qualcuno usasse lo strumento anziché per fare didattica in smart, per postare powerpoint da assumere passivamente, decade tutto quello che ho detto, ma qui sta alla sensibilità di ogni collega, nella quale non posso entrare, pur conservando un mio personale giudizio. 

Restano un paio di problemi ai quali non mi voglio sottrarre; il primo è la questione legata ai collegamenti e ai computer. Ora, mi sembra abbastanza curioso che uno studente universitario non abbia un computer e un collegamento internet. Lo dico senza naso all’insù. Negli US gli studenti prendono appunti in aula da 20 anni con i PC, in Russia da una decina, in Grecia da qualche anno; in Egitto lo fanno in molti. Oggi tutti possediamo uno smartphone e se una studentessa o uno studente si iscrivono all’università e non hanno a disposizione un PC, insomma mi sembra davvero un caso limite. Ma poniamo anche che ciò possa accadere. Se le cose stanno così, possiamo tranquillamente intervenire sul territorio aiutando chi non ha un computer semplicemente comprandoglielo con i fondi in arrivo grazie al decreto rilancio. Io personalmente sono pronto a offrire una parte di un mese di stipendio, se serve, per comprare un computer a chi non ce l’ha. Allo stesso tempo, possiamo intervenire lì dove le reti non sono adeguate, chiedendo alla Regione di aiutarci a cablare meglio le zone. Sono cose semplici, che si possono fare velocemente, volendole fare. Così come è possibile sospendere le rate universitarie per un periodo, o ridurle (dovrebbero intervenire i ragionieri per dirci cosa sia sostenibile e cosa no) in modo da aiutare le famiglie bisognose da sempre, o in difficoltà dopo il lockdown.  

L’altro problema in realtà è collegato al primo. La possibilità offerta dalle tecnologie da qui in poi ci consentirà di risparmiare molti soldi da spendere in questa situazione eccezionale per gli studenti, perché non avremo più necessità di invitare decine di persone in presenza per un convegno, organizzare cene, stanze di albergo e treni. Basta un clic e la persona è con noi, interviene, discute, condivide il suo sapere. Così come possiamo invitare con un clic chiunque da qualsiasi parte del mondo a lezione o per un seminario. Si tratta di scenari che ancora non conosciamo bene, ma di potenzialità enormi. In questi mesi sto seguendo lezioni in tutto il mondo e ho partecipato alle esequie di un grande economista da poco scomparso negli US. 


Cordiali saluti, direttore

martedì 2 giugno 2020

IN MORTE DI UN MEDICO

1 - Passeggeri positivi, la Grecia sospende i voli dal Qatar
La Grecia ha sospeso oggi tutti i voli da e per il Qatar dopo che 12 passeggeri su 91 di un volo Doha-Atene della Qatar Airways sono risultati positivi al coronavirus. L'aereo era atterrato ieri ad Atene. Lo stop durerà almeno fino al 15 giugno.
 

2 - Cina, morto sesto medico del Wuhan Hospital. È morto a causa del Covid Hu Weifeng, uno dei medici in prima linea dall'inizio a Wuhan e collaboratore dell'oculista eroe Li Wenliang, non creduto sulla strana malattia che gli ricordava la Sars del 2003. Hu, urologo, era diventato noto anche per lo strano caso del cambio di colore della pelle, diventata nera tra farmaci e fegato danneggiato. Il decesso, secondo i media cinesi, è avvenuto questa mattina: Hu è il sesto medico del Wuhan Central Hospital a morire a causa degli effetti del virus.





Le notizie di oggi che possono avere un riscontro preoccupante in futuro. Sono particolarmente dispiaciuto per la morte di Hu Weifeng, giovane e coraggioso. Segue una pagina che avevo scritto, dedicata al suo collego Li, la prima vittima e idealmente ora c'è dentro anche Hu. 

***


Quando ci penso confondo ancora lo sfondo con il soggetto, l’ospite con il protagonista. Non è facile capire. È stato un colpo di pistola alla nuca, non lo senti e ti ritrovi giù. Misura da 50 a 200 nanometri, il nulla. Un raffreddore, una febbre, decessi stagionali. Siamo tutti garantiti; nel nostro tempo una febbre strana te la devi andare a cercare in qualche paese sfigato dove la medicina dei bianchi non è ancora arrivata. O in qualche parte della Cina, perché lì, dicevano, si mangiano i topi vivi.
Ora che ne ha ammazzati tanti, non la dicono più questa cosa. Tante cose non dicono più. Il fatto è che il sistema è saltato così bene che neanche s’è capito. Sì, ci sono gli eroi, gli angeli. Ma alla fine siamo qui con le fabbriche semiaperte, gli aerei a terra, le navi in porto e gli alberghi pieni di persone in quarantena. C’è dell’estro in tutto questo. Non siamo in grado di capire bene il mondo che verrà e forse non è neanche importante. Alcuni lo pensano come fotocopia di quello che c’era prima, solo con un piccolo carico di morti in più. Sbagliano. Sarà diverso.
Cominciamo dall’inizio. Un giovane oculista, non un virologo, neanche 35 anni. È accaduto ieri, ma sembrano dieci anni. Il primo di un lungo elenco di medici morti in queste settimane che lascia un padre, una madre, una moglie incinta e un bimbo piccolo. Una morte come accade anche qui e tutti sanno cos’è, ma prima, pochi mesi fa, solo lui fu in grado di diagnosticarne la causa mentre gli altri preferivano dire «qualcosa di fulminante». Lo vedemmo morire tutti. È rimasta la foto, che continua a girare su internet mentre lui è cenere. Piansi quando mi resi conto che se l’era portato via il suo talento. Lui aveva capito. In quelle ore Roma aveva ancora tre voli alla settimana da e per Wuhan, dove lui, Li Wen Liang, esercitava la professione.
Tra novembre e dicembre del 2019 si erano presentati nel suo ambulatorio pazienti con una brutta infezione oculare e febbre alta. Si ricordò che quando aveva cominciato a studiare medicina, nel suo paese era scoppiata un’epidemia che poi come per miracolo si era interrotta con il primo caldo, la Sars, sindrome respiratoria acuta grave; e aveva compreso segnalando ai suoi colleghi che probabilmente si trattava di un virus simile a quello, ma forse nuovo. Lo fermarono, gli dissero di farsi gli affari suoi e lo invitarono a curare i pazienti di Covid-19 (che però non la chiamavano così) che si presentavano con problemi agli occhi. Si prese scariche di virus e si ammalò; così tanto che il 6 febbraio 2020 morì. Comparvero migliaia di post in rete sotto l’hashtag «vogliamo libertà di parola», mentre si perdevano i riferimenti al pericolo incombente della malattia. Noi guardammo e passammo oltre. Ci sentivamo sicuri. Non sarebbe mai arrivato qui, e neanche capivamo bene cosa dovesse poi arrivare. Wuhan, intanto, era stata chiusa da due settimane.
Non ci abbiamo creduto; come quelle ombre notturne che sai che sono passate ma poi ti volti e vai, tanto non sono pericolose. E quindi niente, perché è più facile, perché dovevamo fare e non facevamo, dovevamo correre e non correvamo, eravamo lì e non dicevamo neanche le cose giuste, figuriamoci metterle in opera. Siamo stati un disastro. Non Li, il giovane oculista no. Cosa doveva fare quando gli si mise per traverso il sistema? Non è una questione di coraggio ma di martello. Lo sappiamo molto bene. Mentre era ricoverato, Li prese una penna e scrisse che avrebbe rivolto gli occhi al cielo al termine della battaglia. Ricordò i pazienti che lo guardavano pieni di speranza e poi si lasciavano andare alla malattia. Poi se stesso, il suo corpo, domande retoriche: «Dove sono i miei genitori? E la mia cara moglie?». Poi la realtà, la perdita del marito per sua moglie, senza il quale avrebbe dovuto crescere i due figli piccoli; l’addio a Wuhan, la città che amava: «Spero che, dopo il disastro, ti ricorderai che qualcuno ha provato a farti sapere la verità il prima possibile. Spero che, dopo il disastro, imparerai cosa significa essere giusti […] Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». Così è morto il cristiano Li. Ma non ce ne siamo accorti da questa parte.



lunedì 1 giugno 2020

LE PAROLE DEL COVID







Le parole del Covid-19


    La storia in questo 2020 corre troppo veloce per afferrarla. Non mostra il fianco e si dovrà attendere la fine per affrontarla, anche se le conseguenze si trascineranno a lungo. Eppure si deve provare a capire e analizzare, perché è il nostro lavoro e perché questo scritto, come altri, resteranno in memoria come tentativi, umili, di gettare un po’ di luce in una notte tremenda. Il tema del saggio è il processo di comunicazione e il sistema di significazione durante l’epidemia di Covid-19 in Italia. Il processo di comunicazione, lo possiamo anticipare con una certa convinzione, è stato poco articolato e le parole che hanno caratterizzato la crisi [parole del Covid – PdC] si sono distinte in quanto a banalità, incapacità di descrizione della realtà e di cogliere l’essenza della tragedia che stavamo vivendo, assumendo un significato prettamente situazionale (Eco 1996, p. 68). Le parole, a differenza delle persone, si sono assembrate in un crescendo esponenziale su tutti i mezzi di informazione, dalla carta stampata alla tv, dai social come facebook a quelli più politicizzati come twitter, confermandone la valenza come libera arena.
    Una tendenza che ha addirittura trasceso i social, ritornando sui tradizionali mezzi di informazione come la radio o la tv dove, in trasmissioni quali La zanzara, condotta su Radio24 da G. Cruciani e D. Parenzo, le opinioni dell’uomo della strada sono equivalenti a quelle di studiosi ed esperti (uno vale uno), o in alcuni programmi di prima serata delle reti Mediaset o di La7, nei quali politici e giornalisti si sono lasciati andare a violente reciproche offese e considerazioni sopra le righe. Questa condizione ha inciso sulla produzione delle PdC, che si sono immediatamente trasformate in strumenti di lotta per il consenso politico.
    Se i media e i politici hanno creato o ricreato e rilanciato sintagmi, le vittime del contagio hanno per lo più taciuto. I pazienti entrati in ospedale, si sono visti vietare qualsiasi rapporto con il mondo esterno per ragioni sanitarie e in pochi sporadici casi sono stati in grado di comunicare con i famigliari attraverso un dispositivo elettronico. Una volta ricoverati in terapia intensiva, anche questa possibilità è venuta meno e dopo il decesso sono stati infilati in un sacco di plastica, incassati, portati via e inceneriti. I familiari sono stati avvertiti da una telefonata e con ciò si è concluso il loro rapporto con l’ospedale. Per dirla con M. Blanchot, sono morti fuori la comunità, perché «non vi potrebbe essere comunità se non fosse comune l’evento primo e ultimo che interrompe il poter essere di ognuno» (Blanchot 2002, pp. 40-41).
    Il dramma sociale e personale provocato dal Covid nella morte, una morte che ha lasciato fuori da sé familiari in perenne rimorso per non esserci stati, è rimasto, con qualche eccezione, ai margini dalla cronaca e non ha lasciato tracce profonde nelle PdC, rappresentando la parte fenomenologica esclusa e celata dal nuovo lessico. Una non esperienza privata anche del riscontro in un significante capace di descriverla.
    Come si diceva all’inizio, quanto accaduto andrà esaminato di fronte. Solo così chi volesse ricostruire l’evoluzione e gli esiti della vicenda avrebbe a disposizione molte fonti qualitativamente differenti, come il materiale documentale prodotto dal governo o dalle amministrazioni locali, i documenti delle aziende sanitarie, le autopsie (parola latente in questa crisi), quando sono state eseguite addirittura fuori protocollo, le testimonianze di persone guarite. Per quanto riguarda i deceduti, però, le parole restano incolori, riducendosi a due concetti: da una parte i sanitari, che ricordano gli ultimi sguardi supplicanti del paziente prima di essere intubato e posto in coma farmacologico, e dall’altra quello dei familiari, che si rammaricano di aver lasciato solo il loro caro. È accaduto sotto i nostri occhi ed è stato raccontato attraverso parole raramente nuove, spesso recuperate e riempite di nuovo significato, altre improvvisate. Il nostro scopo è quello di capire il processo attraverso il quale ciò è avvenuto, inserendolo in un contesto semantico formato da malattia, possibilità, guarigione, inclusione, esclusione (interdizione), punizione, controllo e liberazione.

Gruppi di significanti. Le parole e le locuzioni della crisi possono essere divise in tre gruppi: quelle appartenenti alla fase zero (emergenza pura), alla fase uno e alla fase due. Per la fase zero sono caratteristiche parole come guerra, fronte ecc. Per la fase uno ricordiamo quarantena/lockdown, untore, tampone, smartworking, positivo e il sottogruppo formato da competenze, esperti, task force. Per la fase due cito distanziamento sociale, appiattire la curva, ripartire, filiera, ricostruzione, immunità di gregge, vaccino, in maniera rigorosa, sanificazione. Non le possiamo analizzare tutte per motivi di spazio, ma cercheremo di dare alcune risposte alle nostre intenzioni di partenza.
    Il primo gruppo di locuzioni che analizziamo sono le espressioni marziali come siamo in guerra e senza precedenti, affiancate da parole amplificanti come fronte, tsunami, patria e, il 23 maggio, bomba atomica (Gallera, Conferenza stampa). Le locuzioni, ripetute nei primi giorni della crisi sanitaria in maniera ossessiva, hanno trasmesso ai cittadini l’idea di uno stato di eccezione (guerra) che andava al di là della normale comprensione (senza precedenti), interrompendo violentemente l’idea di avvenire. Dopo la scoperta dei primi focolai in Lombardia e in Veneto e la chiusura dei relativi comuni (23 febbraio), una settimana di indecisioni e la richiesta di “normalità” (parola che tornerà con un nuovo significato in seguito), la crescita esponenziale dei contagi ha mandato nel panico autorità politiche e popolazione e rotto gli argini ai significanti, che si sono riversati, loro sì come uno tsunami, sopra la cittadinanza, sommergendola. Chi l’ha vissuto in Lombardia, come chi scrive, ha avuto l’impressione di precipitare dentro una notte senza fine, dove la ricerca della verità veniva costantemente alterata dalla profondità del dolore condiviso. 
    In quei giorni si è manifestato sui mezzi di informazione un profondo pessimismo sulle misure da adottare. Si è sostenuto che la Cina avesse chiuso la regione dell’Hubei perché era una dittatura, mentre da noi, che siamo una democrazia, la cosa non avrebbe funzionato. In effetti, la lotta alle epidemie in una società totalitaria assume caratteristiche che ne semplificano la gestione, ma che in seguito la rendono più complessa. Da un lato, il potere esercitato normalmente dallo Stato sulla persona facilita l’introduzione di quarantene, vaccinazioni di massa e altre misure. D’altra parte, l’atmosfera di sfiducia e segretezza caratteristica di tali società provoca voci di panico e la paranoia dilagante influisce negativamente sull’efficacia delle misure. Quello che abbiamo scoperto, con meraviglia, è che una società democratica reagisce più o meno allo stesso modo: impone rigide misure, le fa rispettare con il controllo e la punizione, ma sorgono paranoie di ogni genere grazie alla forza dei social, che da parlatorio generale diventano l’unico mezzo di comunicazione tra le persone in cattività. Nonostante gli esiti simili – da inserire in differenze strutturali forti tra i due paesi di cui non possiamo trattare – in Cina, stando almeno ai dati ufficiali, si è riusciti a mantenere il disastro sanitario entro limiti che con il tempo sono diventati più che accettabili; in Italia, a differenza che in altri paesi democratici, la situazione è completamente sfuggita di mano.
    Tutto accade come se una società avesse «la mortalità che le compete», mentre il numero di morti e la loro ripartizione tra le differenti età riflette l’importanza che una società dà al prolungamento della vita (Halbwachs 2013, pp. 94-97). Se ciò contiene un minimo di verità, la durata media della vita non è la durata della vita biologicamente normale, ma la «durata della vita socialmente normativa» (Canguilhem 1994, p. 136). Dico questo, perché nei giorni tragici di marzo si è cercato di spiegare l’alta letalità italiana rispetto ad altri paesi, come la Corea del Sud, con il fatto che in Italia l’età media fosse più alta. In realtà la differenza tra l’età media in Italia e in Corea del Sud è di soli 3 anni (45 contro 42), mentre l’aspettativa di vita nel 2017 era equivalente (circa 82 anni), dati che quindi non spiegano la così significativa differenza di letalità (il 9 maggio era rispettivamente 13,92 e 2,36; il 1° giugno 14,34 e 2,35).
    Si può ipotizzare che sia mancato un approccio razionale alla malattia e alla cura (parole poco presenti tra le PdC) dovuto alla impreparazione della sanità, lombarda in particolare, alla rigidità dei protocolli e alla politica che si è appiattita sulle disposizioni dell’OMS e dell’ISS, senza prefigurarsi la necessità di assumere nuove decisioni rispetto a una situazione in forte evoluzione. Di per sé la malattia è un elemento costante per un sistema sanitario, che vive di criticità e del loro superamento. La crisi Covid in Italia, però, oltre ad aver messo a nudo i limiti della sanità, ha mostrato la grave commistione della sanità stessa con la politica, che controlla una quota non trascurabile della libertà di cura. Basti pensare che il paziente uno è stato scoperto, com’è noto, grazie al coraggio di Annalisa Malara, anestesista dell’ospedale di Codogno, che ha violato il protocollo. La dottoressa, assieme ai colleghi che hanno affrontato lo tsunami, è diventata un eroe di prima linea, in una guerra contro un nemico sconosciuto in una situazione senza precedenti per la nostra patria. Il pacchetto di significanti così confezionato, caratteristico della fase zero, ha messo al sicuro la politica da conseguenze fatali per gli eventuali errori, errori che in questo caso hanno significato migliaia di decessi.
    Annalisa Malara ha agito da medico come «colui che meno ricerca il senso delle parole salute e malattia. Dal punto di vista scientifico egli si occupa dei fenomeni vitali» (Jasper 1994, p. 6). Ella si è discostata dal protocollo, dalla rigidità del formalismo politico-sanitario e ragionando con la propria sensibilità, provando l’impossibile, e risalendo da «un precipizio di impotenza», ha salvato un numero di vite non quantificabile, ma alto.
    Con la scoperta del paziente uno, il governo si è trovato il nemico in casa; Palazzo Chigi, che aveva già dichiarato lo stato di emergenza sanitaria senza pubblicizzarlo, è piombato nel panico e la risposta è stata il lockdown, prima dei comuni interessati, quindi di quello che era stato il Regno Lombardo-Veneto più due province dell’ex Stato Pontificio, infine dell’Italia. Il riferimento al passato non è casuale: la crisi è stata dirompente per il rapporto tra centro e regioni e molti presidenti hanno approfittato della situazione per rivendicare maggiore autonomia. Mentre si giocava questa partita sopra le teste dei cittadini, le misure si susseguivano e al 9 maggio, accanto ai 26 provvedimenti del governo, se ne registravano 57 della protezione civile, 71 del ministero della Salute, 21 del ministero dell’Interno; a questi si devono aggiungere più di 1.300 ordinanze regionali, di cui 541 della sola Lombardia.
    Il senso di questi provvedimenti, di queste «ulteriori misure», era limitare gli spostamenti dei cittadini ed evitare ulteriori possibilità di contagio. La fragilità del sistema sanitario e il dolore dei malati non sono contemplati, senza contare la ripetuta confusione in cui è caduta la cittadinanza per le contraddizioni presenti nei provvedimenti dei vari organismi. 
    L’insicurezza generale scatenata dalla quarantena ha riportato al centro dell’attenzione morbosa del pubblico figure come l’untore, l’infame, il sui generis. In Europa il diverso per eccellenza è stato l’ebreo, che in terra imperiale divenne l’untore della peste nera e fu oggetto di feroci massacri a Strasburgo e Colonia. Secoli dopo l’untore fu denunciato, torturato e ucciso a Milano, e al posto della sua casa venne edificata una colonna, a monito perenne della sua infamia. Oggi il meccanismo paranoico di individuazione ed esclusione si è ricreato intorno alla figura del runner, al quale la parola untore è stata sovrapposta anzitutto dai presidenti di regione. Nel corridore solitario, che mai avrebbe potuto infettare o infettarsi, è stata individuata la minaccia alla norma perché il gesto innocuo rappresentava involontariamente la libertà e l’emancipazione e la società ha condannato il correre di Emil Zátopek, con il quale il campione olimpico partecipò alla resistenza clandestina nella Cecoslovacchia invasa dal Patto di Varsavia.  
    Il passaggio dalla fase uno alla fase due ha significato un cambio di registro nelle dichiarazioni (non del governo dobbiamo ammettere, che ha manifestato prudenza e perplessità rispetto alle sue scelte, mentre la stessa cosa non si può dire delle regioni) e nel lessico, che è diventato improvvisamente più ottimista. La lingua del Covid ha compiuto uno spillover dalla specie marziale a quella civile e dalle trincee ci si è svegliati nei cantieri della ricostruzione, simboleggiati dalla posa dell’ultimo tratto del nuovo ponte di Genova, che ha rotto il lockdown e dato il via alla ripartenza.
     Ripartenza che ha reso palpabile una crisi economica senza precedenti, mentre gli untori di prima sono diventati innocui sportivi; il pericolo è stato declinato nella passeggiata sui Navigli o sul lungomare di Napoli, poi nelle spiagge affollate del Sud dove il virus, ormai, non circola praticamente più (23 maggio). 
    Il DPCM “congiunti” del 26 aprile, che ha segnato il passaggio formale alla fase due, oltre ad aver generato la solita confusione nelle persone per un uso sbagliato di alcune locuzioni, ha contribuito a fissare i punti della nuova epoca; punti che nascondono un inganno. La responsabilità personale, per esempio, è un vuoto a perdere: se andrà bene, (e tutto fa pensare che andrà bene) sarà stato grazie al governo che ha azzeccato i tempi, ma se andasse male, la colpa sarebbe dei cittadini irresponsabili. La cura dei morti (15 persone per funerale) è diventata notizia solo quando ha fatto da detonatore per un cluster, come accaduto a Roma Nord (fake news tra l’altro, in quanto si trattava di quattro famiglie che abitano nella stressa palazzina e che si sono contagiate con tutta probabilità in precedenza, durante o prima della quarantena), mentre la società prendeva confidenza con la filiera produttiva. In questo passaggio alla ricerca di una nuova normalità, l’esposizione indica la probabilità di venire in contatto con fonti di contagio. La prossimità, considerata negativa, è il contrario del distanziamento sociale (cosa buona). L’aggregazione non è un insieme di persone che la pensano in modo simile, ma la predisposizione a offrire contatti con persone diverse dai lavoratori della stessa azienda, come nel caso per esempio di addetti alla ristorazione o del commercio. Così il rigore, la sanificazione e la già ricordata ripartenza costituiscono un nuovo lessico del lavoro.

Il lavoro rende sani. Nella preparazione della fase due, il 19 aprile il «Corriere della sera» dava notizia di uno studio per il quale sarebbero stati solo i primi 17 giorni successivi all’applicazione delle misure di contenimento a determinare l’entità della diffusione del contagio, che sembrerebbe dipendere dai focolai divampati nei primi giorni e non dalle differenze nel rigore del lockdown. Di conseguenza, proseguiva il pezzo, qualsiasi misura restrittiva applicata dopo i primi 17 giorni avrebbe inciso poco o nulla sull’andamento dei contagi e sul numero finale delle vittime. Lo studio in questione, però, afferma altro, ossia che i modelli matematici usati per fare una previsione si basavano sulle progressioni numeriche dei primi 17 giorni dopo il lockdown, ma insisteva sulla differenza che avrebbe comportato una apertura prima del tempo. Nelle stesse ore usciva un articolo sul «Sole24ore» a firma di P. Becchi e G. Zibordi intitolato L’economia ferma e il dubbio sui decessi in Italia. Il pezzo, dal quale la redazione del «Sole» prese le distanze con un comunicato sindacale, allarmava la collettività con previsioni del calo di PIL italiano doppie rispetto a quelle del FMI e sosteneva che in Italia c’era stata una chiusura del tipo di Wuhan (mentre è vero che il 52% delle aziende avevano proseguito a funzionare, contribuendo alla lentezza della discesa della curva epidemica); riportava, inoltre, che secondo l’ISTAT in Italia i decessi non erano diminuiti rispetto agli anni precedenti, cosa che poi si è rivelata largamente infondata. Le variazioni ISTAT dei decessi dal 20 febbraio al 31 marzo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente nelle zone più colpite indicano un aumento a Pavia del 132,9%, a Brescia del 290%, a Bergamo del 567,6%, a Milano del 92,6%, a Mantova del 122,1%, a Parma del 208,4%, a Reggio nell’Emilia del 79,7%, a Piacenza del 264%, a Rimini del 68,2%, a Pesaro Urbino del 120,4% e a Imperia del 70,6%.
    La sera di quello stesso giorno il neoeletto presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, riuscì a dichiarare nel corso di una trasmissione televisiva che «il lavoro è salute». Il 19 aprile, che indico come il giorno della virata compiuta dalla grande stampa e dalle organizzazioni industriali verso la riapertura, l’Italia aveva registrato 23.660 decessi per Covid 19 in meno di due mesi e con Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Turchia, Iran, Russia e Belgio non controllava l’epidemia.

Una muta solitudine. La banalizzazione del lessico, la genericità di certe assunzioni, la riproposizione sotto forma più articolata dell’andrà tutto bene e il saremo migliori, caratteristici della fase uno, hanno reso amorfe e atone le parole, incapaci di prospettare alcun cambiamento; la banalità è divenuta maggioritaria, rappresentando l’espressione di un potere che ha ritrovato finalmente il suo centro. La banalità, l’arroganza e la violenza verbale (si pensi a quanto accaduto per la liberazione di Silvia Romano) si sono scoperte proporzionali a R0. È l’unica certezza, fino a oggi, che ci ha lasciato la SarsCoV2, che può essere formulata con il seguente assioma: a una qualunque decrescita dell’indice di contagiosità R0, aumenta nella società l’indice che misura la violenza, la mancanza di empatia e l’arroganza. Un altro piccolo segnale di questa inversione è rappresentato dal clamoroso ritorno del piuttosto che usato con valore disgiuntivo al posto di o, praticamente scomparso durante l’emergenza, quando il mondo non presentava opzioni orizzontali, ma una scelta precisa: vita o morte. Forse chiuderà il cerchio la fine delle illusioni che ci siamo fatti durante la quarantena, quando ci sembrava impossibile non uscire migliorati da questa vicenda. La suggestione è stata enorme e abbiamo sottovalutato il destino che incombe su ogni è possibile, ossia di essere delusi dalla sua mancata realizzazione; perché niente crea più rancore di una possibilità rimasta inattesa.  
     Le parole vere, quelle intrise dalla capacità di ascoltare il dolore altrui, quelle ci sono state sottratte e servirà tanto lavoro per riappropriarcene, se mai, un giorno. E come siamo entrati soli in quarantena, così ne stiamo uscendo e, con ogni probabilità, così resteremo.

Milano, maggio 2020

Bibliografia

Blanchot, M., 2002
La comunità inconfessabile, SE, Milano

Eco, U., 1996
Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino

Canguilhem, G., 1994
Il normale e il patologico, Einaudi, Torino

Halbwachs, M., 2013,
La Théorie de l'homme moyen. Essai sur Quételet et la statistique morale, BNF, Nancy

Jaspers, K., 1994,
Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma


Parole chiave

Lavoro, Parole, Solitudine