lunedì 1 giugno 2020

LE PAROLE DEL COVID







Le parole del Covid-19


    La storia in questo 2020 corre troppo veloce per afferrarla. Non mostra il fianco e si dovrà attendere la fine per affrontarla, anche se le conseguenze si trascineranno a lungo. Eppure si deve provare a capire e analizzare, perché è il nostro lavoro e perché questo scritto, come altri, resteranno in memoria come tentativi, umili, di gettare un po’ di luce in una notte tremenda. Il tema del saggio è il processo di comunicazione e il sistema di significazione durante l’epidemia di Covid-19 in Italia. Il processo di comunicazione, lo possiamo anticipare con una certa convinzione, è stato poco articolato e le parole che hanno caratterizzato la crisi [parole del Covid – PdC] si sono distinte in quanto a banalità, incapacità di descrizione della realtà e di cogliere l’essenza della tragedia che stavamo vivendo, assumendo un significato prettamente situazionale (Eco 1996, p. 68). Le parole, a differenza delle persone, si sono assembrate in un crescendo esponenziale su tutti i mezzi di informazione, dalla carta stampata alla tv, dai social come facebook a quelli più politicizzati come twitter, confermandone la valenza come libera arena.
    Una tendenza che ha addirittura trasceso i social, ritornando sui tradizionali mezzi di informazione come la radio o la tv dove, in trasmissioni quali La zanzara, condotta su Radio24 da G. Cruciani e D. Parenzo, le opinioni dell’uomo della strada sono equivalenti a quelle di studiosi ed esperti (uno vale uno), o in alcuni programmi di prima serata delle reti Mediaset o di La7, nei quali politici e giornalisti si sono lasciati andare a violente reciproche offese e considerazioni sopra le righe. Questa condizione ha inciso sulla produzione delle PdC, che si sono immediatamente trasformate in strumenti di lotta per il consenso politico.
    Se i media e i politici hanno creato o ricreato e rilanciato sintagmi, le vittime del contagio hanno per lo più taciuto. I pazienti entrati in ospedale, si sono visti vietare qualsiasi rapporto con il mondo esterno per ragioni sanitarie e in pochi sporadici casi sono stati in grado di comunicare con i famigliari attraverso un dispositivo elettronico. Una volta ricoverati in terapia intensiva, anche questa possibilità è venuta meno e dopo il decesso sono stati infilati in un sacco di plastica, incassati, portati via e inceneriti. I familiari sono stati avvertiti da una telefonata e con ciò si è concluso il loro rapporto con l’ospedale. Per dirla con M. Blanchot, sono morti fuori la comunità, perché «non vi potrebbe essere comunità se non fosse comune l’evento primo e ultimo che interrompe il poter essere di ognuno» (Blanchot 2002, pp. 40-41).
    Il dramma sociale e personale provocato dal Covid nella morte, una morte che ha lasciato fuori da sé familiari in perenne rimorso per non esserci stati, è rimasto, con qualche eccezione, ai margini dalla cronaca e non ha lasciato tracce profonde nelle PdC, rappresentando la parte fenomenologica esclusa e celata dal nuovo lessico. Una non esperienza privata anche del riscontro in un significante capace di descriverla.
    Come si diceva all’inizio, quanto accaduto andrà esaminato di fronte. Solo così chi volesse ricostruire l’evoluzione e gli esiti della vicenda avrebbe a disposizione molte fonti qualitativamente differenti, come il materiale documentale prodotto dal governo o dalle amministrazioni locali, i documenti delle aziende sanitarie, le autopsie (parola latente in questa crisi), quando sono state eseguite addirittura fuori protocollo, le testimonianze di persone guarite. Per quanto riguarda i deceduti, però, le parole restano incolori, riducendosi a due concetti: da una parte i sanitari, che ricordano gli ultimi sguardi supplicanti del paziente prima di essere intubato e posto in coma farmacologico, e dall’altra quello dei familiari, che si rammaricano di aver lasciato solo il loro caro. È accaduto sotto i nostri occhi ed è stato raccontato attraverso parole raramente nuove, spesso recuperate e riempite di nuovo significato, altre improvvisate. Il nostro scopo è quello di capire il processo attraverso il quale ciò è avvenuto, inserendolo in un contesto semantico formato da malattia, possibilità, guarigione, inclusione, esclusione (interdizione), punizione, controllo e liberazione.

Gruppi di significanti. Le parole e le locuzioni della crisi possono essere divise in tre gruppi: quelle appartenenti alla fase zero (emergenza pura), alla fase uno e alla fase due. Per la fase zero sono caratteristiche parole come guerra, fronte ecc. Per la fase uno ricordiamo quarantena/lockdown, untore, tampone, smartworking, positivo e il sottogruppo formato da competenze, esperti, task force. Per la fase due cito distanziamento sociale, appiattire la curva, ripartire, filiera, ricostruzione, immunità di gregge, vaccino, in maniera rigorosa, sanificazione. Non le possiamo analizzare tutte per motivi di spazio, ma cercheremo di dare alcune risposte alle nostre intenzioni di partenza.
    Il primo gruppo di locuzioni che analizziamo sono le espressioni marziali come siamo in guerra e senza precedenti, affiancate da parole amplificanti come fronte, tsunami, patria e, il 23 maggio, bomba atomica (Gallera, Conferenza stampa). Le locuzioni, ripetute nei primi giorni della crisi sanitaria in maniera ossessiva, hanno trasmesso ai cittadini l’idea di uno stato di eccezione (guerra) che andava al di là della normale comprensione (senza precedenti), interrompendo violentemente l’idea di avvenire. Dopo la scoperta dei primi focolai in Lombardia e in Veneto e la chiusura dei relativi comuni (23 febbraio), una settimana di indecisioni e la richiesta di “normalità” (parola che tornerà con un nuovo significato in seguito), la crescita esponenziale dei contagi ha mandato nel panico autorità politiche e popolazione e rotto gli argini ai significanti, che si sono riversati, loro sì come uno tsunami, sopra la cittadinanza, sommergendola. Chi l’ha vissuto in Lombardia, come chi scrive, ha avuto l’impressione di precipitare dentro una notte senza fine, dove la ricerca della verità veniva costantemente alterata dalla profondità del dolore condiviso. 
    In quei giorni si è manifestato sui mezzi di informazione un profondo pessimismo sulle misure da adottare. Si è sostenuto che la Cina avesse chiuso la regione dell’Hubei perché era una dittatura, mentre da noi, che siamo una democrazia, la cosa non avrebbe funzionato. In effetti, la lotta alle epidemie in una società totalitaria assume caratteristiche che ne semplificano la gestione, ma che in seguito la rendono più complessa. Da un lato, il potere esercitato normalmente dallo Stato sulla persona facilita l’introduzione di quarantene, vaccinazioni di massa e altre misure. D’altra parte, l’atmosfera di sfiducia e segretezza caratteristica di tali società provoca voci di panico e la paranoia dilagante influisce negativamente sull’efficacia delle misure. Quello che abbiamo scoperto, con meraviglia, è che una società democratica reagisce più o meno allo stesso modo: impone rigide misure, le fa rispettare con il controllo e la punizione, ma sorgono paranoie di ogni genere grazie alla forza dei social, che da parlatorio generale diventano l’unico mezzo di comunicazione tra le persone in cattività. Nonostante gli esiti simili – da inserire in differenze strutturali forti tra i due paesi di cui non possiamo trattare – in Cina, stando almeno ai dati ufficiali, si è riusciti a mantenere il disastro sanitario entro limiti che con il tempo sono diventati più che accettabili; in Italia, a differenza che in altri paesi democratici, la situazione è completamente sfuggita di mano.
    Tutto accade come se una società avesse «la mortalità che le compete», mentre il numero di morti e la loro ripartizione tra le differenti età riflette l’importanza che una società dà al prolungamento della vita (Halbwachs 2013, pp. 94-97). Se ciò contiene un minimo di verità, la durata media della vita non è la durata della vita biologicamente normale, ma la «durata della vita socialmente normativa» (Canguilhem 1994, p. 136). Dico questo, perché nei giorni tragici di marzo si è cercato di spiegare l’alta letalità italiana rispetto ad altri paesi, come la Corea del Sud, con il fatto che in Italia l’età media fosse più alta. In realtà la differenza tra l’età media in Italia e in Corea del Sud è di soli 3 anni (45 contro 42), mentre l’aspettativa di vita nel 2017 era equivalente (circa 82 anni), dati che quindi non spiegano la così significativa differenza di letalità (il 9 maggio era rispettivamente 13,92 e 2,36; il 1° giugno 14,34 e 2,35).
    Si può ipotizzare che sia mancato un approccio razionale alla malattia e alla cura (parole poco presenti tra le PdC) dovuto alla impreparazione della sanità, lombarda in particolare, alla rigidità dei protocolli e alla politica che si è appiattita sulle disposizioni dell’OMS e dell’ISS, senza prefigurarsi la necessità di assumere nuove decisioni rispetto a una situazione in forte evoluzione. Di per sé la malattia è un elemento costante per un sistema sanitario, che vive di criticità e del loro superamento. La crisi Covid in Italia, però, oltre ad aver messo a nudo i limiti della sanità, ha mostrato la grave commistione della sanità stessa con la politica, che controlla una quota non trascurabile della libertà di cura. Basti pensare che il paziente uno è stato scoperto, com’è noto, grazie al coraggio di Annalisa Malara, anestesista dell’ospedale di Codogno, che ha violato il protocollo. La dottoressa, assieme ai colleghi che hanno affrontato lo tsunami, è diventata un eroe di prima linea, in una guerra contro un nemico sconosciuto in una situazione senza precedenti per la nostra patria. Il pacchetto di significanti così confezionato, caratteristico della fase zero, ha messo al sicuro la politica da conseguenze fatali per gli eventuali errori, errori che in questo caso hanno significato migliaia di decessi.
    Annalisa Malara ha agito da medico come «colui che meno ricerca il senso delle parole salute e malattia. Dal punto di vista scientifico egli si occupa dei fenomeni vitali» (Jasper 1994, p. 6). Ella si è discostata dal protocollo, dalla rigidità del formalismo politico-sanitario e ragionando con la propria sensibilità, provando l’impossibile, e risalendo da «un precipizio di impotenza», ha salvato un numero di vite non quantificabile, ma alto.
    Con la scoperta del paziente uno, il governo si è trovato il nemico in casa; Palazzo Chigi, che aveva già dichiarato lo stato di emergenza sanitaria senza pubblicizzarlo, è piombato nel panico e la risposta è stata il lockdown, prima dei comuni interessati, quindi di quello che era stato il Regno Lombardo-Veneto più due province dell’ex Stato Pontificio, infine dell’Italia. Il riferimento al passato non è casuale: la crisi è stata dirompente per il rapporto tra centro e regioni e molti presidenti hanno approfittato della situazione per rivendicare maggiore autonomia. Mentre si giocava questa partita sopra le teste dei cittadini, le misure si susseguivano e al 9 maggio, accanto ai 26 provvedimenti del governo, se ne registravano 57 della protezione civile, 71 del ministero della Salute, 21 del ministero dell’Interno; a questi si devono aggiungere più di 1.300 ordinanze regionali, di cui 541 della sola Lombardia.
    Il senso di questi provvedimenti, di queste «ulteriori misure», era limitare gli spostamenti dei cittadini ed evitare ulteriori possibilità di contagio. La fragilità del sistema sanitario e il dolore dei malati non sono contemplati, senza contare la ripetuta confusione in cui è caduta la cittadinanza per le contraddizioni presenti nei provvedimenti dei vari organismi. 
    L’insicurezza generale scatenata dalla quarantena ha riportato al centro dell’attenzione morbosa del pubblico figure come l’untore, l’infame, il sui generis. In Europa il diverso per eccellenza è stato l’ebreo, che in terra imperiale divenne l’untore della peste nera e fu oggetto di feroci massacri a Strasburgo e Colonia. Secoli dopo l’untore fu denunciato, torturato e ucciso a Milano, e al posto della sua casa venne edificata una colonna, a monito perenne della sua infamia. Oggi il meccanismo paranoico di individuazione ed esclusione si è ricreato intorno alla figura del runner, al quale la parola untore è stata sovrapposta anzitutto dai presidenti di regione. Nel corridore solitario, che mai avrebbe potuto infettare o infettarsi, è stata individuata la minaccia alla norma perché il gesto innocuo rappresentava involontariamente la libertà e l’emancipazione e la società ha condannato il correre di Emil Zátopek, con il quale il campione olimpico partecipò alla resistenza clandestina nella Cecoslovacchia invasa dal Patto di Varsavia.  
    Il passaggio dalla fase uno alla fase due ha significato un cambio di registro nelle dichiarazioni (non del governo dobbiamo ammettere, che ha manifestato prudenza e perplessità rispetto alle sue scelte, mentre la stessa cosa non si può dire delle regioni) e nel lessico, che è diventato improvvisamente più ottimista. La lingua del Covid ha compiuto uno spillover dalla specie marziale a quella civile e dalle trincee ci si è svegliati nei cantieri della ricostruzione, simboleggiati dalla posa dell’ultimo tratto del nuovo ponte di Genova, che ha rotto il lockdown e dato il via alla ripartenza.
     Ripartenza che ha reso palpabile una crisi economica senza precedenti, mentre gli untori di prima sono diventati innocui sportivi; il pericolo è stato declinato nella passeggiata sui Navigli o sul lungomare di Napoli, poi nelle spiagge affollate del Sud dove il virus, ormai, non circola praticamente più (23 maggio). 
    Il DPCM “congiunti” del 26 aprile, che ha segnato il passaggio formale alla fase due, oltre ad aver generato la solita confusione nelle persone per un uso sbagliato di alcune locuzioni, ha contribuito a fissare i punti della nuova epoca; punti che nascondono un inganno. La responsabilità personale, per esempio, è un vuoto a perdere: se andrà bene, (e tutto fa pensare che andrà bene) sarà stato grazie al governo che ha azzeccato i tempi, ma se andasse male, la colpa sarebbe dei cittadini irresponsabili. La cura dei morti (15 persone per funerale) è diventata notizia solo quando ha fatto da detonatore per un cluster, come accaduto a Roma Nord (fake news tra l’altro, in quanto si trattava di quattro famiglie che abitano nella stressa palazzina e che si sono contagiate con tutta probabilità in precedenza, durante o prima della quarantena), mentre la società prendeva confidenza con la filiera produttiva. In questo passaggio alla ricerca di una nuova normalità, l’esposizione indica la probabilità di venire in contatto con fonti di contagio. La prossimità, considerata negativa, è il contrario del distanziamento sociale (cosa buona). L’aggregazione non è un insieme di persone che la pensano in modo simile, ma la predisposizione a offrire contatti con persone diverse dai lavoratori della stessa azienda, come nel caso per esempio di addetti alla ristorazione o del commercio. Così il rigore, la sanificazione e la già ricordata ripartenza costituiscono un nuovo lessico del lavoro.

Il lavoro rende sani. Nella preparazione della fase due, il 19 aprile il «Corriere della sera» dava notizia di uno studio per il quale sarebbero stati solo i primi 17 giorni successivi all’applicazione delle misure di contenimento a determinare l’entità della diffusione del contagio, che sembrerebbe dipendere dai focolai divampati nei primi giorni e non dalle differenze nel rigore del lockdown. Di conseguenza, proseguiva il pezzo, qualsiasi misura restrittiva applicata dopo i primi 17 giorni avrebbe inciso poco o nulla sull’andamento dei contagi e sul numero finale delle vittime. Lo studio in questione, però, afferma altro, ossia che i modelli matematici usati per fare una previsione si basavano sulle progressioni numeriche dei primi 17 giorni dopo il lockdown, ma insisteva sulla differenza che avrebbe comportato una apertura prima del tempo. Nelle stesse ore usciva un articolo sul «Sole24ore» a firma di P. Becchi e G. Zibordi intitolato L’economia ferma e il dubbio sui decessi in Italia. Il pezzo, dal quale la redazione del «Sole» prese le distanze con un comunicato sindacale, allarmava la collettività con previsioni del calo di PIL italiano doppie rispetto a quelle del FMI e sosteneva che in Italia c’era stata una chiusura del tipo di Wuhan (mentre è vero che il 52% delle aziende avevano proseguito a funzionare, contribuendo alla lentezza della discesa della curva epidemica); riportava, inoltre, che secondo l’ISTAT in Italia i decessi non erano diminuiti rispetto agli anni precedenti, cosa che poi si è rivelata largamente infondata. Le variazioni ISTAT dei decessi dal 20 febbraio al 31 marzo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente nelle zone più colpite indicano un aumento a Pavia del 132,9%, a Brescia del 290%, a Bergamo del 567,6%, a Milano del 92,6%, a Mantova del 122,1%, a Parma del 208,4%, a Reggio nell’Emilia del 79,7%, a Piacenza del 264%, a Rimini del 68,2%, a Pesaro Urbino del 120,4% e a Imperia del 70,6%.
    La sera di quello stesso giorno il neoeletto presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, riuscì a dichiarare nel corso di una trasmissione televisiva che «il lavoro è salute». Il 19 aprile, che indico come il giorno della virata compiuta dalla grande stampa e dalle organizzazioni industriali verso la riapertura, l’Italia aveva registrato 23.660 decessi per Covid 19 in meno di due mesi e con Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Turchia, Iran, Russia e Belgio non controllava l’epidemia.

Una muta solitudine. La banalizzazione del lessico, la genericità di certe assunzioni, la riproposizione sotto forma più articolata dell’andrà tutto bene e il saremo migliori, caratteristici della fase uno, hanno reso amorfe e atone le parole, incapaci di prospettare alcun cambiamento; la banalità è divenuta maggioritaria, rappresentando l’espressione di un potere che ha ritrovato finalmente il suo centro. La banalità, l’arroganza e la violenza verbale (si pensi a quanto accaduto per la liberazione di Silvia Romano) si sono scoperte proporzionali a R0. È l’unica certezza, fino a oggi, che ci ha lasciato la SarsCoV2, che può essere formulata con il seguente assioma: a una qualunque decrescita dell’indice di contagiosità R0, aumenta nella società l’indice che misura la violenza, la mancanza di empatia e l’arroganza. Un altro piccolo segnale di questa inversione è rappresentato dal clamoroso ritorno del piuttosto che usato con valore disgiuntivo al posto di o, praticamente scomparso durante l’emergenza, quando il mondo non presentava opzioni orizzontali, ma una scelta precisa: vita o morte. Forse chiuderà il cerchio la fine delle illusioni che ci siamo fatti durante la quarantena, quando ci sembrava impossibile non uscire migliorati da questa vicenda. La suggestione è stata enorme e abbiamo sottovalutato il destino che incombe su ogni è possibile, ossia di essere delusi dalla sua mancata realizzazione; perché niente crea più rancore di una possibilità rimasta inattesa.  
     Le parole vere, quelle intrise dalla capacità di ascoltare il dolore altrui, quelle ci sono state sottratte e servirà tanto lavoro per riappropriarcene, se mai, un giorno. E come siamo entrati soli in quarantena, così ne stiamo uscendo e, con ogni probabilità, così resteremo.

Milano, maggio 2020

Bibliografia

Blanchot, M., 2002
La comunità inconfessabile, SE, Milano

Eco, U., 1996
Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino

Canguilhem, G., 1994
Il normale e il patologico, Einaudi, Torino

Halbwachs, M., 2013,
La Théorie de l'homme moyen. Essai sur Quételet et la statistique morale, BNF, Nancy

Jaspers, K., 1994,
Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma


Parole chiave

Lavoro, Parole, Solitudine
 

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