1 - Passeggeri positivi, la Grecia sospende i voli dal Qatar
La Grecia ha sospeso oggi tutti i voli da e per il Qatar dopo che 12 passeggeri su 91 di un volo Doha-Atene della Qatar Airways sono risultati positivi al coronavirus. L'aereo era atterrato ieri ad Atene. Lo stop durerà almeno fino al 15 giugno.
La Grecia ha sospeso oggi tutti i voli da e per il Qatar dopo che 12 passeggeri su 91 di un volo Doha-Atene della Qatar Airways sono risultati positivi al coronavirus. L'aereo era atterrato ieri ad Atene. Lo stop durerà almeno fino al 15 giugno.
Le notizie di oggi che possono avere un riscontro preoccupante in futuro. Sono particolarmente dispiaciuto per la morte di Hu Weifeng, giovane e coraggioso. Segue una pagina che avevo scritto, dedicata al suo collego Li, la prima vittima e idealmente ora c'è dentro anche Hu.
***
Quando ci penso confondo ancora lo sfondo con il soggetto, l’ospite con il protagonista. Non è facile capire. È stato un colpo di pistola alla nuca, non lo senti e ti ritrovi giù. Misura da 50 a 200 nanometri, il nulla. Un raffreddore, una febbre, decessi stagionali. Siamo tutti garantiti; nel nostro tempo una febbre strana te la devi andare a cercare in qualche paese sfigato dove la medicina dei bianchi non è ancora arrivata. O in qualche parte della Cina, perché lì, dicevano, si mangiano i topi vivi.
Ora che ne ha ammazzati tanti, non la dicono più questa cosa. Tante cose non dicono più. Il fatto è che il sistema è saltato così bene che neanche s’è capito. Sì, ci sono gli eroi, gli angeli. Ma alla fine siamo qui con le fabbriche semiaperte, gli aerei a terra, le navi in porto e gli alberghi pieni di persone in quarantena. C’è dell’estro in tutto questo. Non siamo in grado di capire bene il mondo che verrà e forse non è neanche importante. Alcuni lo pensano come fotocopia di quello che c’era prima, solo con un piccolo carico di morti in più. Sbagliano. Sarà diverso.
Cominciamo dall’inizio. Un giovane oculista, non un virologo, neanche 35 anni. È accaduto ieri, ma sembrano dieci anni. Il primo di un lungo elenco di medici morti in queste settimane che lascia un padre, una madre, una moglie incinta e un bimbo piccolo. Una morte come accade anche qui e tutti sanno cos’è, ma prima, pochi mesi fa, solo lui fu in grado di diagnosticarne la causa mentre gli altri preferivano dire «qualcosa di fulminante». Lo vedemmo morire tutti. È rimasta la foto, che continua a girare su internet mentre lui è cenere. Piansi quando mi resi conto che se l’era portato via il suo talento. Lui aveva capito. In quelle ore Roma aveva ancora tre voli alla settimana da e per Wuhan, dove lui, Li Wen Liang, esercitava la professione.
Tra novembre e dicembre del 2019 si erano presentati nel suo ambulatorio pazienti con una brutta infezione oculare e febbre alta. Si ricordò che quando aveva cominciato a studiare medicina, nel suo paese era scoppiata un’epidemia che poi come per miracolo si era interrotta con il primo caldo, la Sars, sindrome respiratoria acuta grave; e aveva compreso segnalando ai suoi colleghi che probabilmente si trattava di un virus simile a quello, ma forse nuovo. Lo fermarono, gli dissero di farsi gli affari suoi e lo invitarono a curare i pazienti di Covid-19 (che però non la chiamavano così) che si presentavano con problemi agli occhi. Si prese scariche di virus e si ammalò; così tanto che il 6 febbraio 2020 morì. Comparvero migliaia di post in rete sotto l’hashtag «vogliamo libertà di parola», mentre si perdevano i riferimenti al pericolo incombente della malattia. Noi guardammo e passammo oltre. Ci sentivamo sicuri. Non sarebbe mai arrivato qui, e neanche capivamo bene cosa dovesse poi arrivare. Wuhan, intanto, era stata chiusa da due settimane.
Non ci abbiamo creduto; come quelle ombre notturne che sai che sono passate ma poi ti volti e vai, tanto non sono pericolose. E quindi niente, perché è più facile, perché dovevamo fare e non facevamo, dovevamo correre e non correvamo, eravamo lì e non dicevamo neanche le cose giuste, figuriamoci metterle in opera. Siamo stati un disastro. Non Li, il giovane oculista no. Cosa doveva fare quando gli si mise per traverso il sistema? Non è una questione di coraggio ma di martello. Lo sappiamo molto bene. Mentre era ricoverato, Li prese una penna e scrisse che avrebbe rivolto gli occhi al cielo al termine della battaglia. Ricordò i pazienti che lo guardavano pieni di speranza e poi si lasciavano andare alla malattia. Poi se stesso, il suo corpo, domande retoriche: «Dove sono i miei genitori? E la mia cara moglie?». Poi la realtà, la perdita del marito per sua moglie, senza il quale avrebbe dovuto crescere i due figli piccoli; l’addio a Wuhan, la città che amava: «Spero che, dopo il disastro, ti ricorderai che qualcuno ha provato a farti sapere la verità il prima possibile. Spero che, dopo il disastro, imparerai cosa significa essere giusti […] Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». Così è morto il cristiano Li. Ma non ce ne siamo accorti da questa parte.
Ora che ne ha ammazzati tanti, non la dicono più questa cosa. Tante cose non dicono più. Il fatto è che il sistema è saltato così bene che neanche s’è capito. Sì, ci sono gli eroi, gli angeli. Ma alla fine siamo qui con le fabbriche semiaperte, gli aerei a terra, le navi in porto e gli alberghi pieni di persone in quarantena. C’è dell’estro in tutto questo. Non siamo in grado di capire bene il mondo che verrà e forse non è neanche importante. Alcuni lo pensano come fotocopia di quello che c’era prima, solo con un piccolo carico di morti in più. Sbagliano. Sarà diverso.
Cominciamo dall’inizio. Un giovane oculista, non un virologo, neanche 35 anni. È accaduto ieri, ma sembrano dieci anni. Il primo di un lungo elenco di medici morti in queste settimane che lascia un padre, una madre, una moglie incinta e un bimbo piccolo. Una morte come accade anche qui e tutti sanno cos’è, ma prima, pochi mesi fa, solo lui fu in grado di diagnosticarne la causa mentre gli altri preferivano dire «qualcosa di fulminante». Lo vedemmo morire tutti. È rimasta la foto, che continua a girare su internet mentre lui è cenere. Piansi quando mi resi conto che se l’era portato via il suo talento. Lui aveva capito. In quelle ore Roma aveva ancora tre voli alla settimana da e per Wuhan, dove lui, Li Wen Liang, esercitava la professione.
Tra novembre e dicembre del 2019 si erano presentati nel suo ambulatorio pazienti con una brutta infezione oculare e febbre alta. Si ricordò che quando aveva cominciato a studiare medicina, nel suo paese era scoppiata un’epidemia che poi come per miracolo si era interrotta con il primo caldo, la Sars, sindrome respiratoria acuta grave; e aveva compreso segnalando ai suoi colleghi che probabilmente si trattava di un virus simile a quello, ma forse nuovo. Lo fermarono, gli dissero di farsi gli affari suoi e lo invitarono a curare i pazienti di Covid-19 (che però non la chiamavano così) che si presentavano con problemi agli occhi. Si prese scariche di virus e si ammalò; così tanto che il 6 febbraio 2020 morì. Comparvero migliaia di post in rete sotto l’hashtag «vogliamo libertà di parola», mentre si perdevano i riferimenti al pericolo incombente della malattia. Noi guardammo e passammo oltre. Ci sentivamo sicuri. Non sarebbe mai arrivato qui, e neanche capivamo bene cosa dovesse poi arrivare. Wuhan, intanto, era stata chiusa da due settimane.
Non ci abbiamo creduto; come quelle ombre notturne che sai che sono passate ma poi ti volti e vai, tanto non sono pericolose. E quindi niente, perché è più facile, perché dovevamo fare e non facevamo, dovevamo correre e non correvamo, eravamo lì e non dicevamo neanche le cose giuste, figuriamoci metterle in opera. Siamo stati un disastro. Non Li, il giovane oculista no. Cosa doveva fare quando gli si mise per traverso il sistema? Non è una questione di coraggio ma di martello. Lo sappiamo molto bene. Mentre era ricoverato, Li prese una penna e scrisse che avrebbe rivolto gli occhi al cielo al termine della battaglia. Ricordò i pazienti che lo guardavano pieni di speranza e poi si lasciavano andare alla malattia. Poi se stesso, il suo corpo, domande retoriche: «Dove sono i miei genitori? E la mia cara moglie?». Poi la realtà, la perdita del marito per sua moglie, senza il quale avrebbe dovuto crescere i due figli piccoli; l’addio a Wuhan, la città che amava: «Spero che, dopo il disastro, ti ricorderai che qualcuno ha provato a farti sapere la verità il prima possibile. Spero che, dopo il disastro, imparerai cosa significa essere giusti […] Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». Così è morto il cristiano Li. Ma non ce ne siamo accorti da questa parte.
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