venerdì 5 giugno 2020

LETTERA AL DIRETTORE

Negli ultimi tempi all'università della Calabria si leggono interventi che chiedono la riapertura prima dela fine della pandemia. Noi la pensiamo diversamente, e lo abbiamo manifestato con questa lettera al direttore che voglio condividere.





Caro direttore

 
negli ultimi tempi registro un interessante pressing da parte di alcuni esponenti del dipartimento che lei dirige, finalizzati a dare una scossa (così almeno mi permetto di interpretare questa attività), per sensibilizzare a rientrare al più presto dentro le aule della nostra università. 
Credo che si tratti di un atteggiamento errato nei modi e nei tempi, e soprattutto sbagliato da un punto di vista sanitario.

Cercherò di analizzare punto per punto, chiarendo che direi le stesse cose se abitassi a Cosenza e che avrei preferito correre a piedi i mille chilometri che mi separano da Rende anziché vivere quello che stiamo vivendo.

Quello che il mondo sta passando non accadeva dal 1920. Siamo nel mezzo di una pandemia provocata da un virus aviario che, a differenza dei precedenti SARS e MERS, si diffonde anche per mezzo di persone asintomatiche. Per questa sua capacità, il SarsCov2 provoca epidemie locali che crescono in modo esponenziale. L’Italia è stata tra i paesi più colpiti, e per numero di morti si trova ai primi posti della graduatoria mondiale. In questo momento il virus, che probabilmente si comporta in modo stagionale, sta colpendo paesi come il Brasile e il Perù, oltre a non essere ancora sotto controllo né in Russia, né negli Stati Uniti, né mi sembra nella Svezia del tutto aperto (o quasi). Mentre diminuiscono i casi da noi, aumentano altrove e la media giornaliera di nuovi casi nel mondo si attesta da tempo intorno ai 115.000, con circa 5000 decessi. 

Non è finito niente. Le epidemie locali sono violente e non abbiamo ancora una difesa: non abbiamo un farmaco, non possediamo un vaccino, ossia non abbiamo né una cura, né una prevenzione. In realtà, non sappiamo neanche quanti siano veramente i casi cosiddetti “asintomatici” e quindi non possiamo fare alcun ragionamento su eventuali immunità di gregge. 

Questo non significa che necessariamente ci sarà una seconda ondata in Italia. Potrebbe non esserci e tutti speriamo che non ci sia. Ma non significa neanche che si possa abbassare la guardia. Come ha scritto il prof. Giraudi, perché una pandemia sia dichiarata ufficialmente cessata, serve almeno una di queste due condizioni: nessun caso per tre cicli di quarantena, quindi nel nostro caso 42 giorni, oppure la trasformazione del virus in un virus buono, capace di convivere con il nostro organismo senza uccidere o provocare danni pesanti. Al momento non si registra nessuna di queste due condizioni. 

Questo significa che non possiamo riprendere la nostra normale vita (non mi interessa qui il discorso se la vita normale sia meglio o peggio e di quale normalità si parli). 

Leggo in una di queste interviste che sembra paradossale si possa andare al supermercato o prendere un treno, andare al ristorante o in palestra, e non si possa frequentare l’università (questo è virgolettato. Certo, lo dico sottovoce, io avrei preso le distanze, certo, non avrei condiviso, ma è tutto un altro discorso, me ne rendo conto). Ecco, in realtà le cose non stanno così. Non si può andare al supermercato se non si ha una mascherina e non si indossano i guanti, non si può andare in palestra senza prenotazione, non si può entrare in un ristorante se non distanziati, con menù elettronici, lasciando nome e numero di telefono al ristoratore che deve conservarlo per due settimane. Per prendere un treno viene controllata la temperatura, si deve indossare una mascherina, meglio se una FFP2 e non si può stare seduti accanto a un altro passeggero. Nulla è normale. Qualsiasi attività si svolga, la si svolge in un modo completamente nuovo e così sarà fino a quando non si verifichi almeno una delle condizioni che menzionavo sopra. Non si possono neanche abbracciare i nonni, perché sono considerati, giustamente, persone a rischio e i nipoti, specialmente se piccoli, possibili vettori del virus. 
Allora, tutto questo mi fa pensare che prima del diritto allo studio (che non voglio certo ignorare e dirò subito come) qui si debba parlare di diritto alla salute e di diritto a non uccidere, a non mettere in pericolo la vita di altre persone, sconosciute o parte della propria famiglia. È quello che abbiamo fatto restando a casa, o andando in prima linea ad aiutare, opponendo i nostri corpi sani per mantenerne altri sani e permettere che quelli malati fossero curati al meglio. E siccome basta un caso fuori controllo che in pochissimi giorni parta l’esponenziale, non possiamo permetterci più di sbagliare. Lo abbiamo già fatto una volta, può bastare. 

Il fatto che noi si sia studiosi, si sia scienziati, ci impone, a mio umile parere, di pensare che forse le nostre personali aspirazioni accademiche, i nostri luoghi di modestissimo personale poterucolo che gestiamo da un qualche decennio, dovrebbero essere messi momentaneamente da parte fino a quando non passi la notte, proprio come estremo atto di responsabilità che garantisca la salute di tutti. 

E veniamo al diritto allo studio. Non voglio parlare della mia personale esperienza, perché è stata splendida e vi potrei solo dire di aver avuto studenti meravigliosi. Voglio dire, più in generale, che grazie ai mezzi che avevamo a disposizione da anni, siamo stati in grado di garantire in sicurezza una didattica di qualità a tutti i nostri studenti. E sottolineo, in sicurezza, perché non ci può essere sicurezza, oggi, in una didattica in presenza con persone costrette a viaggiare tra regioni o nella regione in quanto, come detto, il virus circola ancora. Quindi nessuno può dire in alcun modo, frasi di questo tipo: “Le soluzioni di ripristino della didattica in presenza in condizioni di sicurezza, tutto sommato, non sembrano impossibili da ricercare e da organizzare […]” (mi scuso in anticipo se cito male).

La verità è che sono proprio impossibili. Chi ha scritto o scriverà che non lo siano, chiedo, è in grado di garantire al 100% che non ci sarà mai un positivo dentro l’Unical fino alla fine della pandemia? Non credo proprio. 

Non è una questione di aule o di sanificazione. Sanificare un ambiente (uno, ma qui si parla di decine o centinaia) comporta spese e tempi che non sono sostenibili con le esigenze di didattica. Insegnare di domenica, poi, mi sembra bizzarro due volte. Una, perché è di domenica e la domenica, ora che le chiese sono riaperte e i parchi pure, la si dedica o al Signore o alla famiglia; la seconda, perché significa ammettere che siamo in emergenza, e lo siamo; ma allora, se siamo in emergenza, si dovrebbero usare soluzioni più alla portata e più semplici, che ci permettano di limitare le conseguenze negative dell’emergenza. E la soluzione esiste; è la tecnologia che ci permette di organizzare una classe virtuale in orari canonici e collegarsi, facendo lezione normalmente, operando sullo schermo con filmati o fotografie, interagendo in diretta con ogni studente, stimolandolo a seguire, a intervenire, a dire la sua e a fare domande, potendo insieme guardare sulla rete qualcosa che magari in quel momento sfugge alla docente. Certo, il docente deve lavorare di più, è indubbio. Ha necessità di preparare lezioni di un altro livello rispetto al passato, lezioni diverse, più complesse, per renderle più chiare agli studenti. Ma la cosa positiva è duplice. Si garantisce il diritto allo studio e ciò non è per sempre, ma solo fino alla fine dell’emergenza. 
Certo, se qualcuno usasse lo strumento anziché per fare didattica in smart, per postare powerpoint da assumere passivamente, decade tutto quello che ho detto, ma qui sta alla sensibilità di ogni collega, nella quale non posso entrare, pur conservando un mio personale giudizio. 

Restano un paio di problemi ai quali non mi voglio sottrarre; il primo è la questione legata ai collegamenti e ai computer. Ora, mi sembra abbastanza curioso che uno studente universitario non abbia un computer e un collegamento internet. Lo dico senza naso all’insù. Negli US gli studenti prendono appunti in aula da 20 anni con i PC, in Russia da una decina, in Grecia da qualche anno; in Egitto lo fanno in molti. Oggi tutti possediamo uno smartphone e se una studentessa o uno studente si iscrivono all’università e non hanno a disposizione un PC, insomma mi sembra davvero un caso limite. Ma poniamo anche che ciò possa accadere. Se le cose stanno così, possiamo tranquillamente intervenire sul territorio aiutando chi non ha un computer semplicemente comprandoglielo con i fondi in arrivo grazie al decreto rilancio. Io personalmente sono pronto a offrire una parte di un mese di stipendio, se serve, per comprare un computer a chi non ce l’ha. Allo stesso tempo, possiamo intervenire lì dove le reti non sono adeguate, chiedendo alla Regione di aiutarci a cablare meglio le zone. Sono cose semplici, che si possono fare velocemente, volendole fare. Così come è possibile sospendere le rate universitarie per un periodo, o ridurle (dovrebbero intervenire i ragionieri per dirci cosa sia sostenibile e cosa no) in modo da aiutare le famiglie bisognose da sempre, o in difficoltà dopo il lockdown.  

L’altro problema in realtà è collegato al primo. La possibilità offerta dalle tecnologie da qui in poi ci consentirà di risparmiare molti soldi da spendere in questa situazione eccezionale per gli studenti, perché non avremo più necessità di invitare decine di persone in presenza per un convegno, organizzare cene, stanze di albergo e treni. Basta un clic e la persona è con noi, interviene, discute, condivide il suo sapere. Così come possiamo invitare con un clic chiunque da qualsiasi parte del mondo a lezione o per un seminario. Si tratta di scenari che ancora non conosciamo bene, ma di potenzialità enormi. In questi mesi sto seguendo lezioni in tutto il mondo e ho partecipato alle esequie di un grande economista da poco scomparso negli US. 


Cordiali saluti, direttore

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