venerdì 18 ottobre 2013

L'università Capodistriana e altre sconcezze



Uno degli striscioni all'università capodistriana che spiega i motivi dello sciopero. Motivi che si richiamano alle manifestazioni contro la trojka degli anni scorsi
L'università di Atene non è chiusa. Questo mi dicono qui nella capitale greca. Esattamente il contrario di quanto hanno scritto in Italia i giornali, con enfasi sospetta.
L'università è occupata, i professori in sciopero - ma non ufficialmente. Altrimenti, addio stipendio. Inoltre, è in corso una tenzone tra il ministero e i rettori. Il primo vuole i nomi dei fannulloni da mettere, eventualmente, in uscita. I secondi si rifiutano - a mio parere giustamente - di darli.
Il sistema universitario greco è in parte diverso da quello italiano, in parte soffre degli stessi mali. Il numero chiuso esiste per ogni corso di studi. Entrare all'università è difficilissimo e per questo molti studenti vanno all'estero. Allo stesso tempo, per decenni hanno imperato favori e nepotismo. Insegnano i figli dei figli, le amanti e le sorelle, gente che non ha pubblicato un libro in vita sua o non ha mai messo il naso fuori dal paese. Ora, però, non vedo una strada in grado di invertire la tendenza o, almeno, non quella dei licenziamenti. Almeno per due motivi. Il primo è che l'epurazione si renderebbe necessaria per motivi di budget e non di principio. Troppo comodo. Il secondo è che i complici silenti di ieri non possono diventare improvvisamente i "vendicatori". Per troppi decenni - sotto agli occhi di tutti - sono entrate persone con curricula singolari accanto a grandi studiosi. Per troppo tempo lo scambio di favori ha prevalso sull'onestà e il pensiero che un'università migliore significa per il paese un futuro migliore. Ora si paga il conto. Signomi (scusate). In Italia non è diverso. La più grande associazione di storici per numero di iscritti, l'Associazione degli storici contemporanei, ha messo in rete i verbali degli ultimi anni di concorsi. Perché? Che ci stanno a fare sul sito se nessuno li commenta? Se non si indica come un vincitore mettiamo del 10 novembre 2013 (data assolutamente a caso, tanto che deve ancora venire) nell'Università di CXSREG era stato giudicato/a quasi incompetente due settimane prima a uno stesso concorso nell'università di GRFORT? O di persone diventate ordinarie con gli stessi titoli con i quali si fecero associati?
Marconista, e come lui tanti, sa molto. Conosce i meccanismi, conosce i nomi, i luoghi, le circostanze. Molte commissioni non sono altro che associazioni a delinquere: falso, abuso d'ufficio, truffa ai danni dello Stato. So, ma non ho le prove. Quelle che valgono in tribunale. E, forse, se anche le avessi, le posterei qui, ma non le porterei a un giudice.  Lo schifo ingenerato da questa gente è tale, che non si meritano neanche la gogna. Il male che hanno fatto lo pagheranno anche i loro figli e nipoti. E questo può bastare.


BANDA NERA IN SEGNO DI LUTTO












martedì 15 ottobre 2013

ORIANA INNAMORATA. FOTO INEDITE CON PANAGOULIS E PELOU

Marconista ha avuto accesso a due foto di Oriana Fallaci che, per quanto ne sappia, sono ad oggi inedite.
La loro storia è complessa, ma quello che più interessa qui sono le immagini particolarmente dolci della giornalista, all'epoca - fine anni sessanta, primissimi settanta - ancora lontana dalle posizioni politiche estreme prese dopo l'11 settembre.
La prima foto, del 13 agosto 1973, ritrae la scrittrice insieme all'eroe della resistenza greca Alekos Panagoulis il giorno del loro primo incontro. Oriana era lì per intervistarlo e fu amore subito.
Nella seconda è del 1968, aeroporto di Saigon. Oriana con il giornalista francese François Pelou, con cui ebbe una lunga relazione.




Ed ecco cosa ha scritto Oriana di quell'incontro:

Cominciammo l’intervista. E immediatamente mi colpì la sua voce che era seducentissima, dal timbro fondo, quasi gutturale. Una voce per convincer la gente. Il tono era autorevole, calmo: il tono di chi è molto sicuro di sé e non ammette repliche a ciò che dice in quanto non ha dubbi su ciò che dice. Parlava, ecco, come un leader. Parlando fumava la pipa che praticamente non staccava mai dalla bocca. Così avresti detto che la sua attenzione era concentrata su quella pipa, non su di te, e questo gli conferiva una certa durezza che intimidiva perché non si trattava di una durezza recente, cioè maturata dagli strazi fisici e morali, bensì di una durezza nata con lui: grazie alla quale aveva potuto vincere gli strazi fisici e morali. Allo stesso tempo era premuroso, gentile, e restavi come smarrito quando, con virata improvvisa, sai la virata di un motoscafo che procede dritto e di colpo si gira per tornare indietro, tanta durezza si rompeva in dolcezza: struggente come il sorriso di un bimbo. Il modo in cui ti versava la birra, ad esempio. Il modo in cui ti toccava una mano per ringraziarti di un’osservazione. Ciò gli cambiava i lineamenti del volto che, non più doloroso, diventava indifeso. Di volto non era bello: con quegli occhi piccoli e strani, quella bocca grande e ancora più strana, quel mento corto, infine quelle cicatrici che lo sciupavano tutto. Alle labbra, agli zigomi. Eppure ben presto ti sembrava quasi bello: di una bellezza assurda, paradossale, e indipendente dalla sua anima bella. No, forse non lo avrei mai capito. Decisi da quel primo incontro che l’uomo era un pozzo di contraddizioni, sorprese, egoismi, generosità, illogicità che avrebbero sempre chiuso un mistero. Ma era anche una fonte infinita di possibilità e un personaggio il cui valore andava oltre quello del personaggio politico. Forse la politica rappresentava solo un momento della sua vita, solo una parte del suo talento. Forse, se non lo avessero ammazzato presto, se non lo avessero rimesso in gabbia, un giorno avremmo sentito parlare di lui per chissà quali altre cose.
Quante ore restammo nella stanza coi libri e coi fiori a parlare? È l’unico particolare che non ricordo. Non ti accorgi del tempo che passa se ascolti ciò che narrava lui. La storia delle torture, anzitutto, l’origine delle sue cicatrici. Ne aveva dappertutto, mi disse. Mi mostrò quelle sulle mani, sui polsi, sulle braccia, sui piedi, sul costato. Qui stavano esattamente dove stanno le ferite di Cristo: all’altezza del cuore. Gliele avevano inflitte alla presenza di Costantino Papadopulos, il fratello di Papadopulos, con un tagliacarte scheggiato. Però me le mostrava con distacco, nessuna autocommiserazione: lo irrigidiva un autocontrollo eccezionale, quasi crudele. Tanto più crudele quando ti accorgevi che i suoi nervi non erano usciti intatti dai cinque anni d’inferno. E questo lo raccontavano i suoi denti quando mordeva la pipa, lo raccontavano i suoi occhi quanto si appannavano in lampi di odio o di muto disprezzo. Pronunciando il nome dei suoi seviziatori, infatti, si isolava in pause impenetrabili e non rispondeva nemmeno a sua madre che entrava chiedendo se volesse ancora una birra o un caffè.