giovedì 18 ottobre 2012

L'ASSEDIO DI LENINGRADO





Lena Muchina, …Sochrani moju pečal’nuju istoriju… Blokadnyj dnevnik Leny Muchinoj [Custodisci la mia triste storia. Il diario dell’assedio di Leningrado di Lena Muchina], San Pietroburgo, Azbuka, 2011, 363 pp.

Il diario di Lena Muchina, in uscita a gennaio per Mondadori, ha rappresentato una grande novità per l’editoria russa, così come per quella europea più in generale. Si tratta della viva testimonianza di una persona qualunque, una sedicenne leningradese, di uno degli avvenimenti più importanti – forse il più sconvolgente – della “Grande guerra patriottica”, come i russi chiamano la Seconda guerra mondiale: l’assedio di Leningrado, durato circa 900 giorni – dal settembre 1941 al gennaio 1944.
In Russia il tema dell’assedio è stato molto studiato. A San Pietroburgo esiste un museo, sono noti i ricordi e i diari di tante persone, tra cui quelli del grande filologo Dmitrij Lichačev, di L. Ja. Ginzburg, e due brevi scritti di adolescenti: quelli di Jurij Rjabinkin e di Tat’jana Savičeva (9 pagine in tutto). Quello di Lena, però, è qualcosa di nuovo e come tale è stato accolto in Russia nel 2011, quando è stato pubblicato dalla casa editrice Azbuka di San Pietroburgo. Il diario fu rinvenuto nel 1962 e depositato presso l’Archivio del Partito comunista di Leningrado (oggi Archivio Statale Centrale della documentazione storico-politica di San Pietroburgo). Per lunghi anni nulla si seppe dell’autrice e del suo destino alla fine della guerra e solo in tempi recenti si scoprì che si era salvata e che era vissuta presso alcuni parenti a Mosca fino al 1991, anno della morte. Con loro non aveva mai parlato del diario, e solo grazie al lavoro dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo lo scritto è stato preparato per la pubblicazione. Sergej Jarov, ricercatore dell’Accademia, ha scritto che leggendo il diario ci si trova di fronte alla continua analisi del mondo che circonda la protagonista. È come trovarsi sopra un vulcano di emozioni: talmente forti che una volta finita la guerra, Lena – praticamente – non sarebbe più tornata a Leningrado. Né avrebbe tentato di ritrovare il suo diario, il libro che voleva scrivere e che sarebbe stato pubblicato solo venti anni dopo la sua morte. Al contrario degli altri diari finora noti, ha aggiunto, gli avvenimenti come i bombardamenti, la guerra, il lavoro in ospedale tra i feriti o la scuola fanno solo da sfondo al vero protagonista del testo: il mondo interiore di Lena.
Nata il 21 novembre 1924 a Ufa, nella regione degli Urali, alla vigilia dell’invasione tedesca Lena vive nel centro di Leningrado assieme alla zia, Elena Nikolaevnaja (Muchina, ma Bernackaja da sposata) e Aka (Rosalia Karlovna Krums-Shtrauss, di origine inglese), in quanto la madre Marija, sorella di Elena, soffre di una grave malattia e non se ne può occupare. Verso la fine dell’ottava classe, nel maggio del 1941, mentre sta per sostenere gli esami di fine anno, decide di cominciare un diario. Nelle sue intenzioni si tratta di un diario come ce ne sono tanti: lo stress per le notti passate sui libri, il primo amore, le amiche, il rapporto con la zia-madre Elena, quello con Aka, la casa in comune dove le tre donne vivono assieme ad altre famiglie, l’attesa dell’estate, che dovrà essere la più bella della sua vita. Pagine di facile lettura, scritte con una lingua viva, giovane, diretta e chiara. In alcuni punti Lena corre avanti, per poi tornare indietro e riprendere argomenti già trattati. Mentre verga le sue pagine, ovviamente, non conosce il proprio destino, né quello delle persone che la circondano. Lo intuisce, a volte, come nel caso della morte di Aka e delle sue “madri” (punto su cui tornerò), ma poi, ad accadimento superato, prende la penna per chiarire meglio a se stessa come siano avvenuti i fatti.
Lena è figlia del suo tempo. Come tutte le adolescenti ama sognare, ritiene la scuola più un dovere che un piacere, ma alla sua età sa già apprezzare il poeta nazionale Aleksandr Puškin e lei stessa scrive poesie; cita Ivan Turgenev e studia i classici. Contestualmente, è anche figlia del regime nel quale vive e del quale condivide i mutamenti: prima dell’invasione del 22 giugno la radio sovietica trasmette spesso musica dell’alleato tedesco (è un elemento non secondario: accadde anche con il cinematografo) e la stessa Lena studia tedesco a scuola. Poi, dal 22 giugno 1941, tutto cambia: i tedeschi sono diventati i nemici e la propaganda afferma che non potranno mai vincere, anche se hanno armi moderne, perché “vanno all’assalto ubriachi”, mentre i russi combattono per il proprio paese.
Il conflitto non cambia solo il destino delle canzoni e delle pellicole. Si tratta di una guerra totale, che tocca ogni singolo abitante del paese, ne sequestra il destino e lo deforma, per restituirlo, stravolto, solo alla sua conclusione. Lena deve rinunciare alle vacanze estive e per alcuni mesi lavora come crocerossina. Poi torna in città per cominciare il nuovo anno scolastico. Ma qui resta intrappolata nella morsa dell’assedio tedesco, morsa stretta definitivamente l’8 settembre 1941. Da questo momento i giorni sono cadenzati dalla ricerca del cibo venduto solo con una tessera annonaria ogni decade, (150 grammi di pane, 10 cioccolatini, 100 grammi di burro…), dalla difesa dal freddo (a causa della penuria di energia elettrica le case non sono illuminate, né riscaldate per la mancanza di petrolio e la temperatura media in camera varia dai 6 ai 12 gradi) e dalla ricerca dei soldi necessari per gli alimenti. Soldi, che cessano di colpo quando muore la zia-mamma Elena, nel febbraio 1942.
Marija, la sorella di Elena e madre naturale di Lena, se n’era andata all’inizio della guerra, nel luglio 1941. Nel giro di pochi mesi, dal luglio 1941 al febbraio 1942, tutto è mutato. Lena ha perso nell’ordine la madre naturale, Aka e Elena, entrambe morte di stenti. Sola, priva della solidarietà dei vicini in un momento in cui la lotta per la sopravvivenza diventa particolarmente aspra, Lena cerca di contattare una lontana parente a Gor’kij (oggi Nižnyj Novgorod), poi trova ricovero presso un’amica, Galija, la quale perderà presto il padre, anche in questo caso per inedia. Passata attraverso la casa d’amici di “mamma” Elena, sarà evacuata alla fine del maggio 1942, come la stessa Lena annuncia il 25 del mese, nell’ultima pagina del diario.
Il diario di Lena non è un elenco delle difficoltà dovute all’assedio tedesco, alla fame e alla minaccia costante della morte. Si tratta quasi di un romanzo, nel quale le note quotidiane manifestano progressivamente l’emozione e la consapevolezza di vivere un momento epocale, che avrebbe segnato per sempre la protagonista e la sua città. Ma è anche un mezzo attraverso il quale Lena rielabora il trauma dell’assedio, e forse per questo cerca di scrivere solo cose interessanti, episodi non secondari: parla dei suoi sogni, delle cose da fare, recconta della reazione del vicino, condivide le emozioni delle amiche, progetta una vita nuova non appena terminata la guerra. Ci sono dei passaggi, durante i giorni dell’assedio, nei quali Lena parla di un suo innamoramento e dell’improvviso addio. Il diario, per un momento, diventa tutto: «Caro dolce amico, prezioso mio diario – scrive. Solo con te condivido i dolori, le preoccupazioni e le disgrazie. In cambio ti chiedo unicamente una cosa: conserva la mia triste storia tra le tue pagine e quando giungerà il tempo, se lo vorranno, svelala ai miei parenti».
Per chi lo conosce dal di dentro è scontato che il mondo sovietico non sia mai stato un grigio monotono gulag dove tutte le teste erano “lavorate” allo stesso modo. La scuola, per esempio, non fu in grado di assolvere al compito che le aveva assegnato il regime: la creazione di un uomo nuovo, l’uomo sovietico. Alcuni sentivano questa condizione, altri no. E tra chi la sentiva, esistevano grandi differenze. La cosa non è così chiara per il lettore europeo (a volte neanche per gli studiosi), ma non credo sia compito di questo libro svelare “il mistero”. Può, però, aiutare.
Ci si può chiedere in che misura la figura di Lena sia paragonabile a quella di Anna Frank, come è stato ipotizzato in Russia. Per alcuni versi, in grande misura. In entrambi i casi ci si trova in una situazione di guerra (la stessa peraltro), sono due adolescenti a scrivere, i diari sono dettagliati e contengono solo cose interessanti (in una parola, universalizzano la condizione dello scrivente); entrambi s’interrompono in modo inatteso per la partenza delle due adolescenti. Lena e Anna, però, vivono una condizione molto diversa. Mentre Anna è costretta a nascondersi e a non sentirsi protetta in patria, Lena ha estrema fiducia nel suo paese (fiducia che a volte vacilla, ma per ritornare più solida). Non è sola, ma isolata, specialmente dopo la morte della zia-madre. Trova, però, sempre un punto di speranza, una via d’uscita dalla sua drammatica condizione. La sua è una lotta contro la fame e il freddo più che contro i bombardamenti, ai quali fa subito abitudine. E a differenza di Anna, che salirà su un treno che la porterà verso la morte, Lena con un treno viene evacuata da Leningrado verso la vita.


LE PATACCHE SU BOLOGNA. PERSICHETTI SCRIVE SUL MANIFESTO


L’inchiesta – L’ultimo depistaggio sulla bomba esplosa alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 tira in ballo una delle vittime dell’eccidio: Mauro Di Vittorio, ventiquattrenne romano originario del popolare quartiere di Torpignattara. Pur di renderlo funzionale al teorema della pista palestinese i suoi accusatori non hanno esitato a riscrivere cinicamente il suo passato. Il grossolano tentativo di modificare quanto era già emerso 32 anni fa, nei giorni immediatamente successivi all’esplosione, fallisce clamorosamente di fronte alle testimonianze dei familiari di Di Vittorio e alla mole di materiali documentali esistenti


Paolo Persichetti
il manifesto 18 ottobre 2012
Mauro Di Vittorio, Lotta continua 21 agosto 1980
da Lotta Continua, 21 agosto 1980
«Prendo un passaggio da un ragazzo tedesco che come salgo mi offre di accendere una pipetta di fumo mi tranquillizza un po’, ma alla seconda pipa nella quale c’erano minimo due grammi di nero mi sconvolgo in modo veramente pauroso. Con la terza la tensione è salita di molto e mi sento male, molto male. Ho un trip violentissimo e delle visioni allucinanti, e per fortuna sono molto stanco per cui mi metto a dormire. Quando il tipo mi sveglia sto meglio e ho fatto molta strada. La sera dopo un passaggio di un belga molto simpatico arrivo a Liegi. Sono contento perché la strada da fare è poca, per cui penso di arrivare il giorno dopo» 
Parto con la sensazione di dover fare qualcosa di buono. Tante idee per la testa, chissà cosa combino. Dopo una grattachecca e una controllatina alla macchina comincia il viaggio. Peppe vuol fare la strada più lunga, cioè l’Aurelia, per vedere se ci sono due ragazze del Belgio in Toscana, ma dopo quattro ore di viaggio arriviamo e non le troviamo. Peccato.
Decidiamo di proseguire anche se è notte e arriviamo a Milano. Qui la macchina comincia a fare i capricci e cambiata la candela andiamo un po’ avanti un po’ più nervosi. Il giorno dopo, alla frontiera con la Svizzera ci tengono fermi due ore, ma il morale è  intatto. Ogni tanto ci fermiamo per far riposare la  macchina. Peppe comunque è un ottimo guidatore e sono abbastanza sicuro. Andando avanti cominciano le difficoltà serie con la macchina perché la strada è in salita e c’è molto traffico. Comunque la Svizzera è bella, specialmente al passo del San Gottardo dove ancora c’è la neve e ci fermiamo a bere.
Dopo la Svizzera italiana c’è la Svizzera tedesca e in mezzo a un traffico tremendo e molte parolacce la sera siamo alla frontiera.
Già stavo pensando di arrivare il giorno dopo a Londra e tutto contento facevo i miei progetti, quando è successo l’imprevisto. I doganieri tedeschi dopo averci perquisito la macchina e visto i documenti arrestano Peppe perché due anni prima a Monaco non aveva  pagato la metropolitana.
Peppe è molto abbattuto perché non gli spiegano che cosa gli faranno, allora decidiamo che io vado in autostop ed eventualmente gli mando dei soldi da Londra. La macchina la lasciamo alla frontiera e Peppe viene portato via. Rimango in attesa per tre ore aspettando invano il suo ritorno insieme a due ragazze tedesche che mi offrono della cioccolata dopo due giorni che non mangio altro.
La mattina parto e prendo subito un passaggio in una Mercedes che però mi lascia fuori dell’autostrada. Sono abbastanza giù, anche perché qui parlano solo tedesco e per capire è un vero problema. Comunque sono abbastanza fortunato e cammino abbastanza velocemente, poi prendo un passaggio da un ragazzo tedesco che come salgo mi offre di accendere una pipetta di fumo mi tranquillizza un po’, ma alla seconda pipa nella quale c’erano minimo due grammi di nero mi sconvolgo in modo veramente pauroso. Con la terza la tensione è salita di molto e mi sento male, molto male. Ho un trip violentissimo e delle visioni allucinanti, e per fortuna sono molto stanco per cui mi metto a dormire. Quando il tipo mi sveglia sto meglio e ho fatto molta strada.
La sera dopo un passaggio di un belga molto simpatico arrivo a Liegi. Sono contento perché la strada da fare è poca, per cui penso di arrivare il giorno dopo.
Questa mattina mi sono svegliato bene e dopo un caffé mi sono messo in marcia. Un passaggio dopo l’altro e sono arrivato a Ostenda. Mi permetto pure una colazione e all’una prendo il traghetto. Londra, eccomi. Faccio un giro sul traghetto e tre ore passano subito. Dover con le sue bianche scogliere mi sta di fronte.
L’Europa in autostop
È il 30 luglio 1980, Mauro Di Vittorio sta attraversando l’Europa in autostop diretto a Londra, inconsapevole di avere pochi giorni di vita davanti a sé. Giunto a Dover gli inglesi lo rimandano indietro perché non ha con sé sufficienti garanzie di reddito. Costretto a rientrare in Italia, tre giorni più tardi salta in aria insieme ad altre 300persone (85 morirono) nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Oltre venti chili di gelatinato e compound b, una micidiale miscela nascosta molto probabilmente in una valigia, mettono fine per sempre al suo ritorno.
Il racconto degli ultimi giorni di vita di Mauro è in un quaderno in cui sono annotate le tappe e gli incontri del viaggio, probabilmente scritto durante il rientro. Dopo 30 anni le pagine di questo diario sono diventate un affaire di Stato, un presunto mistero – secondo il parlamentare Enzo Raisi, già membro della commissione Mitrokhin – che sulla loro veridicità solleva dubbi insinuando che dietro vi sia una manipolazione per nascondere la responsabilità diretta, anche se involontaria, dello stesso Di Vittorio nella strage.

La fabbrica delle patacche ispirata dalla trama di un romanzo
Per il parlamentare di Fli, che sulla vicenda ha depositato un’interpellanza parlamentare urgente annunciando anche la prossima uscita di un libro, il giovane sarebbe stato un appartenente «all’area di Roma sud dell’Autonomia Operaia», incaricato di trasportare per conto di un gruppo palestinese, l’Fplp di George Habash in contatto con Carlos, la valigia poi esplosa per un incidente o forse addirittura per una trappola architettata all’insaputa del giovane. Episodio che, sempre secondo Raisi, andrebbe iscritto tra i retroscena del lodo Moro (l’accordo segreto tra Sismi e guerriglia palestinese per salvaguardare l’Italia da attentati in cambio del transito di armi), come un incidente di percorso o come una rappresaglia per la sua violazione l’anno precedente, quando davanti al porto di Ortona furono arrestati, perché trovati in possesso di un lanciamissili destinato alle forze palestinesi, tre esponenti dell’Autonomia romana e successivamente Abu Anzeh Saleh, responsabile dell’Fplp in Italia.
Raisi fonda i suoi sospetti sul fatto che nel fascicolo delle indagini, «non sembrerebbe risultare verbalizzato alcun rinvenimento di documento d’identità o agenda del Di Vittorio». Non è affatto vero ma al parlamentare non interessa al punto da sollevare ombre anche sulla scheda biografica presente nel sito web dell’Associazione familiari vittime del 2 agosto 1980, nella quale sono riportati alcuni brani virgolettati del diario.
A rafforzare i dubbi di Raisi ci sarebbero delle nuove testimonianze che riferiscono lo strano comportamento di una ragazza e di un uomo dalle sembianze mediorientali che avrebbero realizzato una ricognizione del cadavere di Di Vittorio all’obitorio di Bologna, fuggendo intimoriti prima che «il primario e il maresciallo presenti sul posto riuscissero a raggiungerli per identificarli».
Sarà soltanto una coincidenza ma il castello di sospetti avanzato da Raisi ricalca senza molta originalità la fantasiosa trama del romanzo Strage, di Loriano Machiavelli, uscito sotto pseudonimo e tra mille polemiche nel 1990 per Rizzoli e ripubblicato due anni fa da Einaudi, nel quale si narra la storia di una coppia di giovani che gravitano nell’area dell’Autonomia, si riforniscono di armi tra Parigi e la Cecoslovacchia fino a quando uno dei due salta in aria alla stazione di Bologna con una valigia di esplosivo attivata a sua insaputa da un sofisticato congegno trasportato da un’emissaria dei “poteri occulti”. Guarda caso anche qui la ragazza si reca all’obitorio con altri compagni.
Una forzatura di troppo
Il deputato post-missino, citando una testimonianza rilasciata 26 anni dopo i fatti dalla sorella maggiore di Di Vittorio, Anna, a Giovanni Fasanella e Antonella Grippo nel libro “I silenzi degli innocenti” (Bur, 2006), lascia intendere che la «strana telefonata» che informò i familiari del rinvenimento a Bologna della carta d’identità di Mauro, non proveniva dalla questura ma da probabili complici del giovane. Sempre Anna, alcuni anni fa concesse il perdono a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, membri dei Nar condannati per la strage, con una lettera che facilitò l’accesso della Mambro alla liberazione condizionale. Lo scorso 2 agosto, come se nulla fosse, anche Fioravanti, ormai libero, ha ipotizzato in un articolo apparso sul Giornale un ruolo dell’«autonomo» Di Vittorio nella strage. Ma su questo argomento, Anna Di Vittorio e suo marito Gian Carlo Calidori, anche lui colpito negli affetti dalla strage, non hanno intenzione di scendere in polemica. Ritengono che ognuno debba rispondere alla propria coscienza: «Chi siamo noi due per giudicare gli altri?». In realtà, come ci ha spiegato Anna Di Vittorio, «non è mai esistita nessuna telefonata misteriosa». D’altronde quanto riportato nel libro non trova riscontro nelle dichiarazioni rilasciate dagli altri familiari il giorno del riconoscimento ufficiale della salma di Mauro. Luciana Sica di Paese sera, in una cronaca apparsa il 13 agosto 1980, racconta le ore passate nella casa di via Anassimandro, nel quartiere romano di Torpignattara. Descrive il clima attonito di una famiglia che per dieci lunghi giorni non ha voluto credere ai ripetuti segnali che annunciavano la tragica fine del loro congiunto, come la telefonata della questura felsinea del 3 agosto che – forse per un eccesso di cautela – riferiva soltanto del generico ritrovamento della sua carta d’identità in città. La cronista raccoglie le prime dichiarazioni del fratello più piccolo, Marcello, e quelle della zia che ancora non riescono a capacitarsi di quella rimozione. Riferisce dell’interessamento dei vicini che invece hanno sentito in televisione la descrizione dei corpi ancora non identificati ed hanno subito capito; finalmente Anna dopo una telefona all’obitorio decide di partire verso la capitale emiliana insieme a due amici. E’ lunedì 11 agosto, giunta all’istituto di medicina legale entra, sono le nove di sera e all’interno c’è poca luce, i suoi amici non resistono all’odore, tutt’intorno ci sono resti di cadaveri, Anna «vede il corpo del fratello, esce e dice di non averlo riconosciuto». Chiama Marcello a Roma per sapere se Mauro avesse dei pantaloni di velluto grigio. La risposta non offre scampo: «E’ lui».
Il mistero inesistente del diario
A chiarire invece il mistero del diario ci pensa Lotta continua che il 21 agosto 1980 ne pubblica il testo integrale insieme a una lettera firmata «I compagni di Mauro». Nel resoconto del viaggio Di Vittorio racconta di essere partito da Roma in automobile insieme a un amico di nome Peppe, probabilmente il 28 luglio. Due giorni dopo alla frontiera di Friburgo i doganieri tedeschi trattengono la macchina di Peppe perché due anni prima era stato trovato senza biglietto sulla metropolitana di Monaco e non ha ancora pagato la multa. Mauro gli lascia tutti i suoi soldi e prosegue solo, in autostop, con la speranza di arrivare rapidamente a Londra, nello squat di Brixton dove viveva, per trovare altro denaro da inviare a Peppe. I numerosi dettagli riportati offrono facili possibilità di riscontro sulla veridicità intrinseca del racconto e se ancora non bastasse c’è l’importo del biglietto del treno non pagato da Mauro durante il viaggio di ritorno che arrivò alla famiglia, quasi come una beffa, dopo la morte. Ancora più interessante è la lettera dei suoi compagni, dalla quale si capisce che Mauro non era un militante e non era mai stato vicino all’Autonomia. Gli autori del testo sono ex di Lotta continua del circolo di Torpignattara, ancora aperto nel 1980 – come accadde anche per altre sedi del gruppo – punto di riferimento per una parte di quella fragorosa comunità politico-esistenziale che non si era rassegnata allo scioglimento dell’organizzazione quattro anni prima. Mauro, che dopo la morte prematura del padre aveva lasciato la scuola per aiutare la famiglia, era molto conosciuto, amato e stimato. I suoi compagni lo descrivono come «Una persona, un compagno inestimabile che sapeva dare tutto a tutti. Capace di dare se stesso in qualsiasi momento. La persona che tutti avrebbero voluto vicino per qualsiasi cosa: per un viaggio, per parlare di se stessi, della vita, delle contraddizioni e dei problemi che ci si presentano quotidianamente».
Un indiano metropolitano a Londra
La domenica successiva, sempre su Lotta Continua, appare un’altra lettera che è quasi una seduta pubblica d’autocoscienza. In polemica con i toni ritenuti troppo politici della prima, i suoi autori che si firmano «Alcuni amici di Mauro» sostengono che «per Mauro la parola compagno era diventata vuota e priva di senso come lo è diventata per noi, perché questa maturazione l’avevamo vissuta insieme e insieme avevamo smesso di illuderci e insieme avevamo visto crollare miti, ideologie e propositi rivoluzionari. Quindi, oggi, il minimo che possiamo fare è rispettare il suo modo di vedere, le sue disillusioni. Evitare quindi cose che suonano speculative, evitare analisi che lui non avrebbe fatto, evitare termini in cui non si riconosceva più, evitare inni alla rivolta di cui tutti conosciamo la falsità e la vuotezza».
C’è l’intera parabola di quel che accadde in un pezzo del movimento del 77 in queste frasi che annunciano l’epoca del grande riflusso, dove le grandi narrazioni cedono spazio a traiettorie più intimistiche e personali, in ogni caso situate a una distanza siderale dall’immagine del giovane dalla doppia vita con la valigia piena di esplosivo suggerita da Enzo Raisi. Mauro Di Vittorio con i suoi lunghi capelli neri che sembrano anticipare la moda dei dread, la barba folta e l’aspetto freak, era un’altra persona. Chi lo descrive oggi come l’autore della strage di Bologna lo ha ucciso una seconda volta.
«Quest’accusa – replica Gian Carlo Calidori – ci sta facendo vivere un’esperienza sgradevole, ma nonostante ciò continuiamo a confidare, come sempre, nelle Istituzioni della Repubblica Italiana».
E Anna aggiunge: «Nell’agosto del 1980 sono andata a Bologna. Ho visto il cadavere di mio fratello Mauro: era intatto; non carbonizzato; con una sola ferita, mortale, nel costato. Poi, ho incontrato la Polizia Ferroviaria che, molto umanamente, mi ha consegnato gli effetti personali di mio fratello, tra cui il diario di Mauro».

martedì 16 ottobre 2012

ROMANZO QUIRINALE

Non lo sopporto molto, ma questo pezzo di Travaglio non fa una grinza

Giulio Napolitano (1969), prof. Ordinario a Roma Tre (e da parecchio)




Finalmente, dopo tre mesi di sanguinose accuse fondate sul nulla, anzi sul falso, la Procura di Palermo può difendersi alla Corte costituzionaledal conflitto di attribuzioni scatenato dal presidente Napolitano.
La questione, come i nostri lettori ben sanno, nasce dalle telefonate (quattro, si apprende ora) fra il capo dello Stato e Nicola Mancino, indirettamente e casualmente intercettate sui telefoni di quest’ultimo, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Secondo il Quirinale, incredibilmente spalleggiato dall’Avvocatura dello Stato, la Procura avrebbe dovuto procedere all’“immediata distruzione delle intercettazioni casuali del Presidente” perché The Voice è inintercettabile e financo inascoltabile. La Procura non le ha fatte trascrivere né utilizzate, giudicandole penalmente irrilevanti, e si è riservata di chiederne la distruzione al gip secondo la legge: cioè in udienza alla presenza degli avvocati dei 12 imputati che possono ascoltarle ed eventualmente chiedere di usarle per esercitare i diritti di difesa. La cosa ha fatto saltare la mosca al naso a Napolitano e ai suoi cattivi consiglieri, terrorizzati dal rischio che un avvocato, dopo averle ascoltate, ne divulgasse il contenuto. Che, per motivi misteriosi (almeno per noi cittadini), deve restare un segreto di Stato. Di qui il conflitto con cui Napolitano, tramite l’Avvocatura, chiede alla Consulta di censurare i pm di Palermo per un delitto da colpo di Stato: “lesione” e “menomazione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica” perpetrata sia con “la valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione”, sia con “la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento”, sia con “l’intento di attivare una procedura camerale” regolata dal contraddittorio tra le parti.
A lume di Codice, ma soprattutto di logica e di buonsenso, abbiamo più volte scritto che la pretesa del Colle è insensata. Ora l’insensatezza è autorevolmente confermata dalla memoria della Procura, firmata dall’ex presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani Alessandro Pace e dagli avvocati Serges e Serio. I quali, prim’ancora di avventurarsi nell’interpretazione delle presunteprerogative del Presidente, dimostrano come il Quirinale e l’Avvocatura abbiano sbagliato indirizzo: ammesso e non concesso che le telefonate andassero distrutte subito, non poteva farlo la Procura, visto che quel potere è affidato in esclusiva al giudice. Cioè: eventualmente il conflitto andava sollevato contro il gip. Non solo: se, come ammette la stessa Avvocatura per conto del Colle, le intercettazioni furono “casuali” quindi involontarie, come si può sostenere che erano “vietate”? S’è mai vista una norma che vieta qualcosa di involontario e casuale? Per questi due motivi preliminari il conflitto è “inammissibile”, con buona pace della Consulta che s’è affrettata a dichiararlo ammissibile.
Poi è anche infondato, per diversi motivi di merito. Intanto i pm dovevano valutare quel che dicevaMancino, a meno di regalargli un’”immunità contagiosa” derivante dal fatto che parlava con Napolitano. E poi nessuna norma costituzionale né procedurale ha mai stabilito la non intercettabilità indiretta (e nemmeno, in via assoluta, quella diretta) del capo dello Stato. Che non è un monarca assoluto, infatti è immune solo nell’esercizio delle sue funzioni. Dunque la prerogativa invocata dal Colle non esiste. Ergo i pm non hanno leso alcunché. Anzi avrebbero violato il principio costituzionale del contraddittorio e i diritti delle difese se avessero obbedito al Colle. A questo siamo: a un presidente della Repubblica (e del Csm) che istiga la magistratura a violare la legge e la Costituzione. A sua insaputa, si capisce.
Il Fatto Quotidiano, 13 Ottobre 2012

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AQUILONI

Emiliani meglio degli Aquiloni


domenica 14 ottobre 2012

PUSSY RIOT. NUOVO COMUNICATO IMPORTANTE





Дорогие друзья,
уважаемые работники масс-медиа
и все заинтересованные лица!

Считаю важным еще раз заявить о следующем: никакого раскола в Pussy Riot нет.
Все злые языки я прошу заняться какой-нибудь другой темой и не трогать Pussy Riot.
Я и Маша Алехина искренне рады тому, что Катя Самуцевич вышла на свободу и получила возможность дальше заниматься гражданским активизмом. Мы считаем, что это большая наша победа и победа всех тех, кто поддерживал Pussy Riot. Госсистема РФ вынуждена была отступиться и отпустить одну из нас.
Мы верим, что Кэт надерёт задницу за нас тому, кому надо.
Pussy Riot не раскалываются, они всегда живы, сильны и эффективны.

С уважением,
Надя Толоконникова
12 октября 2012
СИЗО #6 




Cari Amici, giornalisti e tutte le persone interessate

Credo sia importante dichiarare quanto segue: non esiste alcuno scisma all'interno delle Pussy Riot.
Chiedo a tutte le malelingue di occuparsi d'altro e non insistere sulle Pussy Riot. Io e Masha Aljochina siamo felici del fatto che Katja Casucevich è stata liberata e ha ora la possibilità di occuparsi nuovamente di diritti civili. Crediamo, che si tratta di una nostra vittoria, nostra e di tutti coloro che hanno sostenuto e sostengono le Pussy Riot. Il sistema governativo russo era nella necessità di fare un passo indietro e liberare una di noi. Siamo sicure che Ket saprà difenderci di fronte alle persone che ci attaccano. Le Pussy Riot sono unite, vive, forti e combattenti.

Distinti Saluti
Nadja Tolokonnikova
12 ottobre 2012
Cella di isolamento #6