martedì 16 luglio 2013

VILLA ABAMELEK E LA GUERRA FREDDA


Villa Abamelek, una delle più belle ville della capitale, si trova ai piedi del Gianicolo, in via Aurelia Antica, vicino a Porta San Pancrazio ed è l’attuale residenza dell’ambasciatore russo in Italia, dopo aver ospitato gli ambasciatori sovietici. Costruita tra la fine del Seicento e l’inizio del secolo successivo, fu decorata con affreschi di Giuseppe Passeri e ospitò una pinacoteca di artisti dell’Accademia di San Luca. Nel corso dei decenni cambiò spesso proprietario, finché nel 1907 non fu acquistata dal principe russo Semen Abamelek Lazarev, che la rinnovò e le diede il nome attuale. Arricchita di sculture e nuove tele, arazzi e mosaici, la villa divenne uno dei salotti culturali più noti di Roma, grazie anche all’allestimento di spettacoli teatrali e concerti per gli ospiti. Il principe Abamelek fu l’ultimo proprietario della villa, poi questa passò ai sovietici. Come poté accadere che un nobile lasciasse una sua proprietà ai bolscevichi? Su Wikipedia si legge che il principe morì nel 1916 e che alla morte della consorte “nel 1936 l’edificio diviene proprietà dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche che nel 1946 ne ha fatto la sede diplomatica dei rappresentanti sovietici, e russi dal 1991”. Divenne proprietà dell’Urss, ma come? Wikipedia non lo dice, ma la storia è molto complessa e interessante e il passaggio della villa dalla famiglia Abamelek al Cremlino si intrecciò addirittura con i destini dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale.
Quando nel 1916 il principe Abamelek morì, infatti, egli lasciò un testamento che destinava la villa all’Accademia Imperiale Russa di Belle Arti, ma solo dopo la morte di sua moglie, che ne poteva disporre in usufrutto vitalizio. Com'è noto, per la storia russa tra il 1916 e il 1917 passa un’epoca intera e dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi la donna, Marija Pavlovna Demidova, impugnò il testamento del marito perché, sostenne, la persona giuridica destinataria della proprietà non esisteva più. La Demidova vinse in prima e seconda istanza contro le pretese di Mosca (1929 e 1936) e la questione sembrò risolta. Le avventure fasciste durante la seconda guerra mondiale e la conseguente caduta di Mussolini rimisero molte cose in discussione, tra cui anche questo contenzioso. Dopo la liberazione di Roma i sovietici, che in quel momento esercitavano un influsso non secondario presso il governo italiano, cercarono di far valere il loro presunto antico diritto, chiedendo alla Corte di Cassazione l’annullamento delle sentenze precedenti. Vedendosi respinta l’istanza per la scadenza dei termini, l’ambasciatore sovietico a Roma, Michail Kostylev, fece sapere all’allora ministro degli Esteri Alcide De Gasperi che Mosca teneva particolarmente alla villa e che fino alla conclusione positiva della questione il rappresentante diplomatico italiano in Russia, Quaroni, non avrebbe potuto occupare l’antica sede dell’ambasciata italiana, in via Vesnina. Mentre il Pci attraverso Togliatti, Eugenio Reale e Celeste Negarville cercavano di operare pressioni affinché il governo risolvesse la cosa ope legis, De Gasperi sperava di dilazionare la questione al fine di ottenere il permesso per rientrare in via Vesnina, per poi lasciar cadere il problema di villa Abamelek. Il contenzioso, infatti, presentava troppi lati oscuri perché da un punto di vista giuridico la Demidova aveva dalla sua le sentenze pregresse e anche la non secondaria osservazione che, comunque, prima di cedere l’immobile ai sovietici secondo le disposizioni del marito, essa sarebbe dovuta almeno morire! È quanto riferì De Gasperi a Kostylev nell’estate del 1945, ma il russo non sembrò dare importanza al dettaglio. Né accolse la proposta del segretario generale del ministero degli Esteri italiano, Prunas, che offrì a Kostylev uno scambio “alla pari” con villa Madama, altrettanto prestigiosa come villa Abamelek. Giunti a un punto morto, nel 1946 il governo guidato da De Gasperi decise di agire con decisione per accontentare Mosca. Il ministero delle Finanze valutò la villa 40 milioni di lire e ne offrì 5 alla vedova per la sua rinuncia definitiva ad ogni pretesa sull'immobile, ma la Demidova rifiutò. Allora il governo emanò un decreto di urgenza di requisizione della villa che, come dichiarò De Gasperi a Kostylev pochi giorni prima della sua pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, avrebbe permesso alla vedova di fare ricorso in Cassazione solo sul prezzo che il governo aveva deciso di pagarle, ossia un vitalizio di un milione di lire annue, ma non sull'esproprio. Il decreto del 20 maggio 1946 intitolato Trasferimento allo Stato per fini di pubblica utilità, della villa Abmelek Lazareff ed annessi, venne pubblicato il 20 agosto 1946 a firma del luogotenente del Regno Umberto, di De Gasperi, Togliatti e del ministro del Tesoro Epicarmo Corbino; vi si legge che “vista legge su espropriazioni del 25 giugno del 1865 per fini di pubblica utilità, su proposta del presidente del consiglio, primo ministro e ministro segretario di stato per gli affari esteri di concerto con i ministri di Grazia e Giustizia e del Tesoro, la villa di proprietà della principessa Maria Pavlovna Demidov(a) di San Donato, a Roma in via Aurelia Antica 8, con tutti gli annessi risultanti dalla planimetria e dai dati risultati dalle note analitiche annesse al decreto è trasferita allo Stato nello stato di fatto e di diritto con ogni accessione e pertinenza in libera proprietà e disponibilità”. Un mese più tardi, quindi, il governo trasferì ai sovietici la proprietà dell’immobile.  
Perché il governo italiano, e in particolare quello guidato da De Gasperi, profuse tutto questo impegno e forzò il buon senso e la legge per accontentare le pretese sovietiche su villa Abamelek? Il fatto è che allora l’Italia aveva bisogno dei sovietici perché sperava in un loro appoggio durante le trattative per il trattato di pace, che sarebbe stato firmato a Parigi nel febbraio del 1947, affinché le clausole dello stesso fossero più miti di quanto si poteva ritenere nel 1943 e che venisse in qualche modo riconosciuto l’impegno italiano durante i due anni di cobelligeranza contro i tedeschi. I sovietici, che per primi avevano teso la mano a Badoglio riconoscendolo ufficialmente nel marzo del 1944, sembravano i più propensi ad aiutare Roma nelle sue richieste riguardanti, per esempio, Trieste, l’ingresso all’Onu o la questione delle riparazioni. Paradossalmente, l’inizio della guerra fredda sembrava favorire questo disegno in quanto poteva essere interesse dei sovietici mostrarsi più duttili e magnanimi verso un paese sconfitto dei loro alleati angloamericani, sperando in tal modo di svolgere un’opera di propaganda nella penisola e sostenere i partiti di sinistri. Questo interesse durò fino al maggio 1947, data dopo la quale Roma si schierò sempre più chiaramente con gli alleati occidentali, allontanandosi definitivamente da Mosca e dalle sue richieste

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