Quando
Antonio Gramsci morì il 27 aprile 1937 la sua famiglia di Mosca, la moglie
Julija e i figli Delio e Giuliano, stavano per affrontare assieme a tutta la
popolazione sovietica uno dei periodi più bui del regime staliniano, passato
alla storia come “il Grande Terrore”. Si trattò di un biennio drammatico, nel
corso del quale l’epurazione cominciata nel partito comunista si estese a tutta
la società, colpendo direttamente intere categorie di cittadini e
indirettamente le loro famiglie. Circa 700.000 persone vennero fucilate e tra
esse anche 108 italiani giunti in Urss negli anni precedenti come rifugiati
politici. Per commemorarne la memoria, qualche anno fa è stato inaugurato nel
cimitero di Levashovo, nei pressi di San Pietroburgo, un monumento alla presenza
di Piero Fassino, allora segretario dei Democratici di sinistra. Nell’occasione
è stato ricordato il nome di Antonio Gramsci, purtroppo in modo improprio e fuori
contesto, perché a dire di Fassino avrebbe intercesso per un comunista italiano
negli anni Venti, salvandolo non si sa bene da cosa. Allora, infatti, il Grande
Terrore era di là da venire e non lo si poteva prevedere. Incuranti di alcune
precisazioni fatte immediatamente dai membri di Memorial (la più importante ONG
russa che si occupa di stalinismo e repressioni politiche), sia il “Corriere
della Sera”, sia la “Repubblica” hanno intitolato “Gramsci salvò gli italiani
dal Grande Terrore”. Non è la prima volta che il nome di Gramsci viene usato in
contesti storici particolari. La sua prigionia nelle carceri fasciste, dal
novembre del 1926 a pochi giorni prima della morte, fu particolarmente
tormentata e ancora oggi si discute se ci fu una volontà criminale nei suoi
confronti da parte dei suoi compagni. Secondo alcuni, Togliatti non lo volle
far liberare per non rischiare una sua condanna una volta eventualmente tornato
a Mosca a causa di alcune critiche fatte nel 1926 dallo stesso Gramsci nei
confronti della vincente fazione stalinista del Pc sovietico. Secondo altri,
invece, Stalin e lo stesso Togliatti fecero fallire le trattative con Roma per
un suo scambio, proprio a causa della visione politica eterodossa del comunista
sardo. A spingere le ricerche in questa direzione qualche anno giunse un nuovo
documento rinvenuto in archivio a Mosca; si tratta di una lettera della moglie
Julija del dicembre 1940 indirizzata a Stalin nella quale si ipotizza un
coinvolgimento di Togliatti in un complotto per lasciare Gramsci in carcere.
Sembrò la quadratura del cerchio, ma le cose, come si comprese in seguito,
erano più complesse. Per cercare di fare chiarezza prima di tutto è utile
operare alcune precisazioni sui ruoli dell’epoca. Togliatti era in quegli anni
uno dei segretari del Comintern e tale rimase fino allo scioglimento
dell’organizzazione, avvenuto nel 1943. Quando egli parlava, assumeva una
decisione o si confrontava con altri dirigenti, era l’internazionalista ad
agire e non il dirigente del Pcd’I. Negli anni Trenta, inoltre, non esistevano
dubbi sul fatto che tutti i comunisti fossero degli “stalinisti”. Oggi il
concetto ha assunto un’accezione negativa, in particolare a partire dai libri
di Annah Arendt sul totalitarismo sovietico, ma allora essere degli stalinisti
era una cosa positiva. Significava non essere caduti nel frazionismo o
nell’opportunismo trockista o di altra natura e sostenere la linea del Partito
comunista sovietico e le risoluzioni dell’Internazionale. Stalin non era il
male assoluto ma, al contrario, il più conseguente marxista del mondo, in grado
di guidare tutti i comunisti verso un futuro di lotte e successi. Togliatti,
per esempio, lo ammirava moltissimo, così come tanti altri uomini politici di
allora, tra cui non ultimo Winston Churchill. Lo stesso Gramsci, a dirla tutta,
non era alieno alle idee di Stalin e le sue critiche del 1926 non riguardavano
la sostanza politica dello scontro in atto con Zinov’ev e Trockij, e neanche i
metodi di lotta, bensì i provvedimenti presi contro gli oppositori, che a suo
dire si allontanavano dalla tradizione leninista di ricomposizione finale dei
dissensi. Una volta arrestato, Gramsci partecipò poco al dibattito politico, ma
in alcuni casi sembrò assumere posizioni non sempre in linea con Mosca. Fu
questa una sua peculiarità? Non esattamente. Molti dirigenti del Pcd’I
sostennero posizioni eterodosse rispetto a Mosca, tanto che alla fine degli
anni Trenta, dopo innumerevoli mediazioni, i vertici del partito vennero
azzerati dal Comintern. Ci mancò poco che il Pcd’I non facesse la stessa fine
del Pc polacco, che fu sciolto su decisione anche di Togliatti, ma proprio
grazie a questi non si giunse a tanto. Ora, la lettera della moglie di Gramsci,
indirizzata a Stalin (ma che questi non lesse mai) si inserisce in un contesto
ben diverso da quello di un complotto. Dopo la morte di Gramsci, infatti, sia
Togliatti, sia Julija, rivendicarono l’eredità letteraria di Antonio e la
disputa fu risolta da un intervento del Comintern e in particolare di Dimitrov,
il segretario generale, che creò un paio di commissioni e alla fine decise di
lasciare gli scritti originali a Togliatti. Quella lettera, però, ci dice anche
un’altra cosa, e cioè che da parte di Julija si aveva piena fiducia in Stalin,
molta di meno in Togliatti, anche se in quel contesto a mio parere ella fece un
uso strumentale del sospetto, e dopo una serie di accertamenti non venne
creduta. Grazie alla decisione del Comintern, Togliatti poté studiare gli
scritti lasciati da Gramsci, quindi farli giungere in Italia dopo il 1944
attraverso l’ambasciata sovietica. Fece uscire alcuni estratti dei quaderni del
carcere su “Rinascita” e nel 1947 diede alle stampe una prima versione delle Lettere
dal Carcere, che vinsero il premio
Viareggio. Desiderio della dirigenza del Pci era portare in Italia i figli di
Gramsci, i cittadini sovietici Delio e Giuliano, per ritirare il premio in
denaro, 500.000 lire. Mentre per Giuliano l’espatrio non presentava grandi
problemi, Delio era un ufficiale di marina e aveva bisogno di speciali
permessi. Al fine di ottenerli, come la madre nel 1940, Delio si rivolse a
Stalin con una missiva che porta la data del 1° ottobre 1947 nella quale
racconta del premio, del libro e della figura di martire del padre; aggiunge,
infine, che il denaro vinto sarebbe stato speso per la pubblicazione di una
biografia di Stalin in Italia in quanto “mio padre, se fosse stato vivo,
avrebbe fatto lo stesso”. La lettera venne letta da Michail Suslov, che la girò
agli uffici competenti per i permessi necessari ed effettivamente Giuliano e
Delio poterono recarsi in Italia. Di quali ombre su Gramsci si può allora
parlare, se il figlio e la moglie scrivono ai massimi dirigenti sovietici in
due importanti occasioni? E se Togliatti era veramente sospettato di avere
impedito la liberazione di Antonio (ma per chi conosce i meccanismi del potere
statale sovietico, partitico e dell’Internazionale comunista è facile
comprendere come non ne avesse mai avuto né la facoltà né le forza politica per
poterlo fare), perché poi i figli lo sarebbero andati a trovare in Italia e lo
avrebbero sempre visto con grande piacere a Mosca ad ogni sua visita, come
ricorda Giuliano Gramsci in un recente libro curato da Anna Maria Sgarbi? (Le
lettere nel cuore, Gabrielli editore,
prefazione di W. Veltroni). E perché quando Togliatti morì a Jalta nel 1964, la
famiglia Gramsci si attivò con l’ambasciata italiana, firmando tutti i permessi
affinché la tomba di Gramsci nel cimitero acattolico di Roma potesse accogliere
eventualmente anche le ceneri di Togliatti, cosa che poi non si realizzò, ma
non per una volontà negativa di Julija, Delio o Giuliano? Per rispondere a
queste domande si devono abbandonare pregiudizi e letture ideologiche della
storia e attenersi alla sola documentazione disponibile, oltre che alla
conoscenza dei meccanismi del potere in Urss. Si vedrà, allora, che Mosca tentò
ripetutamente di liberare Antonio dal carcere, ma i fallimenti delle trattative
furono dovuti sia a irrigidimenti da parte di Mussolini, sia a periodi di
avvicinamento tra i due paesi, nel corso dei quali non si volevano turbare le
trattative per accordi commerciali con questioni politiche. Togliatti si
impegnò, per quelle che erano le sue competenze, per salvare la memoria del suo
antico compagno. Riunì nei giorni successivi la morte di Antonio i maggiori
dirigenti del Comintern a Mosca e lesse un lungo discorso funebre, face in modo
che le ceneri di Gramsci restassero a Roma, riportò tutti i suoi scritti in
Italia e li fece pubblicare, si occupò della famiglia rimasta a Mosca e cercò
di sostenere moralmente i due orfani e la vedova malata. Tutto questo all’ombra
del regime staliniano, considerato allora il più
progressista del mondo.
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