Eccezionale articolo di Agamben pubblicato sulla rivista on line "Lo straniero"
| Benjamin e il capitalismo | 
| DI GIORGIO AGAMBEN | 
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LUNEDÌ 29 APRILE 2013 11:40 | 
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1.  Vi
  sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano
  i segni nei cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi
  che annunciano e definiscono l’epoca che viene, eventi che possono passare
  inosservati e non alterare in nulla o quasi  la realtà a cui si
  aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come
  indici storici, semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe
  luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza
  di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era
  sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema
  che aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la
  notizia, giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di
  quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento,
  l’iscrizione che  tuttora si legge su molte banconote (per esempio
  sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al
  portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della banca centrale,
  aveva definitivamente perduto il suo senso. Questa frase significava ora che,
  in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne
  avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da
  richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo
  di un’oncia), ma un biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato
  di ogni valore che non fosse puramente autoreferenziale. Tanto più
  stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano, che
  equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu
  accettato. E, se, come è stato suggerito, l’esercizio della sovranità
  monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua capacità di indurre gli
  attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel
  debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo. 
Il processo
  di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando
  le esigenze del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica,
  necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s
  notes, eccetera. Tutte queste monete cartacee sono in realtà titoli
  di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie. La moneta
  metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di
  metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle
  delle monete d’argento coniate da Federico II, che appena usate lasciavano
  scorgere il rosso del rame). Tuttavia Schumpeter (che viveva, è vero, in
  un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai  sopraffatto la
  moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima
  analisi, tutto il denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe
  aggiungere che il denaro è un credito che si fonda soltanto su se stesso e
  che non corrisponde altro che a se stesso. 
2.  Il
  capitalismo come religione è il titolo di uno dei più
  penetranti frammenti postumi di Benjamin. 
Che il
  socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra
  l’altro, da Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova
  religione che per gli uomini del XIX e XX secolo ebbe lo stesso significato
  del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”). Secondo Benjamin, il
  capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione
  della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno
  religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo.
  Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri:
  1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai
  esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di
  un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente,
  è “la celebrazione di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile,
  qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico,
  ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide con la
  celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione
  o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse
  l’unico caso di un culto non espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa
  coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto, non per
  espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per catturare
  alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel
  destino dell’uomo”. 
Proprio
  perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non
  alla speranza, ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira
  alla trasformazione del mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è
  nel nostro tempo così totale, che anche i tre grandi profeti della modernità
  (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con esso, sono
  solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione. “Questo
  passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione
  nell’assoluta solitudine del suo percorso è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo
  è il Superuomo, cioè il primo uomo che comincia consapevolmente a realizzare
  la religione capitalista”. Ma anche la teoria freudiana appartiene al
  sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione
  peccaminosa… è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli
  interessi”. E, in Marx, il capitalismo “con gli interessi semplici e
  composti, che sono funzione della colpa… si trasforma immediatamente in
  socialismo”. 
3.  Proviamo
  a prendere sul serio e a svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è
  una religione, come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede
  il capitalismo?  E che cosa implica, rispetto a questa fede, la
  decisione di Nixon? 
David
  Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una
  disciplina con questo strano nome – stava lavorando sulla parola pistis, che è il
  termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si
  trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli
  occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes
  pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi
  secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza
  tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il
  senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di
  capire: pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui
  godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento
  che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la
  fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò
  che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo
  messo in gioco il nostro credito e la nostra parola.  Creditumè  il
  participio passato del verbo latino credere: è ciò in
  cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo
  una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione
  o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua protezione o prendendo in
  prestito del denaro. Nella pistis paolina
  rivive, cioè, quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste ha
  ricostruito, la “fedeltà personale”: “Colui che detiene la fides messa in lui
  da un uomo tiene quest’uomo in suo potere… Nella sua forma primitiva, questa
  relazione implica una reciprocità: mettere la propria fides in qualcuno
  procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”. 
Se questo è
  vero, allora l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione fra capitalismo e
  cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione
  interamente fondata sulla fede, è una religione i cui adepti vivono sola
  fide. E come, secondo Benjamin, il capitalismo è una religione in
  cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e,
  quindi, da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il
  capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro
  credito (believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo è,
  cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio:
  detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una
  religione il cui Dio è il denaro. 
Ciò
  significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare
  e gestire credito (Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e,
  governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta
  fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. 
4.  Che
  cosa ha significato, per questa religione, la decisione di sospendere la
  convertibilità in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del
  proprio contenuto teologico paragonabile alla distruzione mosaica del vitello
  d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare – in ogni caso, un passo
  decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della propria fede.
  Questa – nella forma del denaro e del credito – si emancipa ora da ogni
  referente esterno, cancella il suo nesso idolatrico con l’oro e si afferma
  nella sua assolutezza. Il credito è un essere puramente immateriale, la più
  perfetta parodia di quella pistis che non è
  che “sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre
  definizione della Lettera agli ebrei – è
  sostanza – ousia, termine tecnico per eccellenza dell’ontologia
  greca – delle cose sperate. Quel che Paolo intende è che colui che ha fede,
  che ha messo la sua pistis in Cristo, prende la parola
  di Cristo come se fosse la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo
  “come se” che la parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la
  nuova pistis, è ora immediatamente e senza residui
  sostanza. Il carattere distruttivo della religione capitalista, di cui
  Benjamin parlava, appare qui in piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è
  più, è stata annientata e deve esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa
  della cosa, la sua ousia in senso tecnico. E, in questo
  modo, viene tolto di mezzo l’ultimo ostacolo alla creazione di un mercato
  della moneta, alla trasformazione integrale del denaro in merce. 
5.  Una
  società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è
  condannata a vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato
  la  trasformazione del capitalismo ottocentesco, ancora fondato
  sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo
  finanziario contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi
  proprietari personali e con i relativi clan familiari, valevano ancora i
  principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il sempre
  maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio della
  fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di storie in cui grandi
  casate vanno in rovina a causa della loro dipendenza dal credito: in alcuni
  passi dei Buddenbrook, Thomas Mann ne ha fatto
  addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale produttivo di interessi era
  naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava
  formando, ma non aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione
  capitalistica complessiva. Gli affari del capitale ‘fittizio’ erano considerati
  tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta, al margine del
  capitalismo vero e proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio
  tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi
  investimenti solo con il proprio capitale” (R.Kurz, La fine della
  politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997, p.76-77; Die
  Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995). 
Nel corso
  del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e
  il capitale aziendale fa oggi  ricorso in misura crescente al
  capitale monetario, preso in prestito dal sistema bancario. Ciò significa che
  le aziende, per poter continuare a produrre, devono per così dire ipotecare
  anticipamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione futura.
  Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro.
  La religione capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un
  continuo indebitamento, che non può né deve essere estinto. Ma non sono
  soltanto le aziende a vivere, in questo senso, sola fide, a credito
  (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera
  crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati  in questo
  continuo e generalizzato atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo
  sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento della religione
  capitalista: il credito-debito. | 
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Giorgio Agamben | 

 
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